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mercoledì 29 gennaio 2014

IL POETA DELLE NUVOLE: RICORDANDO DE ANDRÉ A 15 ANNI DALLA MORTE, di Antonio Marchi

Premessa al 15° anniversario
Nel primo anniversario della scomparsa di Fabrizio De André (11 gennaio 2000), su mia iniziativa, si tenne una giornata di studio all'Università di Trento (unica in Italia) presieduta dalla prof.ssa Rossana Dalmonte della Facoltà di Lettere e dalla prof.ssa Ada Neiger della Facoltà di Sociologia, sull'opera del poeta e cantautore genovese Fabrizio De André e in serata il pubblico ha ascoltato e applaudito una corale di bambini di Cles che ha eseguito le sue canzoni in un auditorium stracolmo.

Così lo ricordava Fernanda Pivano (Corriere della Sera 11 genn. 2000):
Davanti al mare mi raccontò un segreto ‘Ero stonato, ho dovuto creare la mia voce’.
Quel giorno spietato che in una camera cosiddetta ardente ho recitato con Dori Ghezzi il mantra subvocale del Bardo Thodol come mi avevano insegnato Aldous Huxley e Allen Ginsberg, Fabrizio era avvolto pietosamente in un manto azzurro come i suoi occhi ormai chiusi per sempre.
“Sali, sali verso l'eternità, non ti voltare, non ti fermare”, invocavo la sua anima, cioè parlavo con la sua finale realtà; e quando sono uscita e molti compagni di strada mi hanno accolto mi pareva di parlare ancora con lui e ho detto: “non è vero, non è morto vivrà per sempre, nello splendore della sua poesia, nella bellezza del suo cuore”.
Sembravano parole un po' pazze, invece sono state una profezia.
Da allora, quasi ogni giorno, qualcuno mi ha chiesto di lui, lo ha commemorato, lo ha rievocato; e il suo nome, la sua immagine, i suoi versi indimenticabili di grandissimo poeta, quasi ogni giorno sono rinati a darci il coraggio di continuare il suo messaggio di pace, di non-violenza, di anarchico amore.
Eravamo due anarchici pacifisti di estrazione altoborghese e passavamo anni senza che ci incontrassimo, ma la sua utopia era così simile alla mia che ce la trasmettevamo senza parlarci. Quando ha musicato le poesie libertarie di Spoon River le ha avvolte nella sua umanità, le ha rese mediterranee, più vicine a noi, e non c'è bisogno di spiegazioni: la nostra utopia era lì, e la musica, la sua dolcezza ne avevano sottolineato l'immortalità.
Per questo i giovani, che non si sbagliano mai, lo hanno amato, mi fermano per strada per parlarmi di lui, mi fanno capire che la sua vita non è finita, è solo passata in un'altra realtà irragiungibile dal denaro, dalla politica, dall'ingiustizia: dalla morte.
L'ultima volta che sono stata un po' a lungo con lui e con Dori Ghezzi è stato in Sardegna, naturalmente, nell'estate 1997. La sera stavamo con Dori sulla terrazza a guardare il rosso mandala del sole che calava sul mare, e mentre nel crepuscolo dorato il miracolo della baia si preparava alla notte, Fabrizio, dopo aver smesso di giocare a scopa con Alberto Santini che da una quindicina d'anni lo aiutava con fanatismo nei lavori della tenuta agricola, ed essere ritornato dal bagno, nel mare, al fondo della collina, si sedeva con noi e ci faceva confidenze che non avevo mai letto sulle interviste.
Per esempio è in una di quelle sere maliarde che mi ha raccontato il segreto di quella sua voce incantatora, di quel suo timbro ricco di armonici, mi ha detto: “Se faccio un Do lo faccio con la sua terza e la sua quinta, e questo è un dono naturale. Da giovane non ero intonatissimo e solo col tempo e l'educazione sono riuscito a intonarmi. Quando dicono che ho creato la mia voce non posso negarlo”.  Quella voce che non si può dimenticare ci ha accompagnato per tutto quest'anno.
Credo che ci accompagnerà sempre.”

Così si ricordava Fabrizio De André:
“Quando durante la guerra ero sfollato in Piemonte, Genova per me era un mito. A cinque anni la vidi per la prima volta e me ne innamorai subito, tremendamente. Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Anche se a colmare la distanza fra quel quasi e quel tutto contribuirono le canzoni di Brassens. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei carruggi, gli esclusi che avrei ritrovato in Sardegna, ma che ho conosciuto per la prima volta nelle riserve della città vecchia, le ‘graziose’ di via del Campo e i balordi che, per mangiare, potrebbero anche dar via la loro madre. I fiori che sbocciano dal letame, i senzadio per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso, sempre pronto ad accoglierli.»
(Dal libro su Fabrizio de André - La mostra – SilvanaEditoriale)

“Le domande sul futuro sono sempre un inutile esercizio.”.
Genovese, classe 1940, Fabrizio De André nasce il 18 febbraio a mezzogiorno, mentre Hitler sta per invadere la Norvegia; scopre a sedici anni la sua vocazione di musicista. Dai banchi di scuola agli esordi musicali con un gruppo jazz di cui faceva parte anche un sassofonista di nome Luigi Tenco. La passione per la musica maturata nelle serate trascorse con gli amici genovesi, Gino Paoli, Remo Borzini, Paolo Villaggio. Nel 1958 esce il primo disco, un 45 giri dal titolo Nuvole Barocche, ma il successo e la notorietà sono rimandati di qualche anno...
Da Nuvole Barocche ad Anime Salve: il curriculum artistico di Fabrizio De André è indubbiamente tra i più sofferti e fragili, quello che ha incarnato “il male di vivere” di almeno un paio di generazioni. Narratore fine e delicato, è forse il più “maledetto” (nella concezione dei Verlaine, dei Rimbaud e dei Villon) fra i cantautori italiani, che ha saputo tra gli anni Sessanta e Settanta capire meglio il “ribellismo adolescenziale, contro i valori costituiti” senza prediche o messaggi politici. Le sue canzoni sono piccoli ritratti di gente senza storia, che pure contribuirà a farla; storie di “poveri eroi, solitari campioni di un’umanità che brancola nel buio e cerca luce e, troppo spesso, vittima del proprio cammino, inciampa fra i sassi che costellano le vie dell’esistenza”, come scrive Cesare G. Romana nella presentazione al “vol.III”
Voce che ci ha raccontato un pezzo d’Italia con musica e parole intrecciate ad arte, create per capire dove viviamo attraverso un fitto gioco di testa e cuore.
De André (“Dolce menestrello della nostra adolescenza”- F.Pivano) ha cercato di scoprire quale fosse il rapporto tra musica e poesia, ha scandagliato la straordinaria ricchezza della tradizione popolare, ha saputo integrare nella sua musica le sensazioni, le idee della musica internazionale, il folk, il rock, la musica americana e quella francese, senza tradire mai la musica del nostro paese. Ha scritto canzoni meravigliose e uniche, canzoni in grado di accompagnare la nostra vita e di farcene vivere qualcun’altra, scrutando l’uomo nei capitoli più amari, nei risvolti fallimentari della sua storia: essenzialmente storia di traguardi agognati, irraggiungibili, per una fragile volontà spesso segnata dalla violenza del destino.
Così abbiamo l’inquieto paesaggio de La città vecchia … “dove il sole del buon Dio / non dà i suoi raggi / ha già troppi impegni / per scaldar la gente / d’altri paraggi…”
o la dolente Ballata dell’eroe che “era partito per fare la guerra / per dare il suo aiuto alla sua terra…” con il crudo ritorno di una lei che “aspettava il ritorno d’un soldato vivo, / d’un eroe morto che ne farà / se accanto nel letto le è rimasta la gloria / di una medaglia alla memoria”.
L'amore intrecciato alla morte, l'amore che “strappa i capelli” e l'amore che taglia le vene, ma  anche - gioiosamente -  “donna” come motore potente della vita, vento che scuote l'esistenza individuale e cambia la storia: l'innocenza di Marinella o di Bocca di Rosa che “metteva l'amore sopra ogni cosa”; gli “occhi grigi come la strada” della “bambina” di Via del Campo; Suzanne che “ti indica i colori tra la spazzatura e i fiori”, Teresa di Rimini “figlia di pirati”, Sally che venne con un tamburello, la Dolcenera che arriva con l'alluvione, (…) e Maria bambina, un giglio sul vestitino, “che nel tempio resti china”.
Esiste in De André una solitudine, un’incompiutezza, una spiritualità irrisolta; un chiedere, spesso vanamente, l’aiuto di un essere superiore. Il “profilarsi l’ombra di una speranza” che è essenzialmente spirituale, quasi dubbio di Dio, al quale chiede, però, continua attenzione... come nella Preghiera in gennaio, accoratamente dedicata a Luigi Tenco:

“lascia che sia fiorito,
Signore, il suo sentiero
quando a te la sua anima
e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare
quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno giorno
risplendono le stelle…
l’inferno esiste solo
per chi ne ha paura…”

o, invocato in Spiritual: Dio del cielo,/se mi vorrai amare,/scendi dalle stelle,/vienimi a cercare…

Il primo De André è racchiuso in questa speranza che sa di fatalità, fra i personaggi sbeffeggiati quotidianamente dalla smorfia feroce della vita. La sua visione del mondo è quasi medioevale, e non per le Marinelle, i Geordie, o  i Carlo Martello; quanto per quel senso di fatalismo, a metà strada fra il sacro e il profano, che la pervade. La sua è l’umanità dei secoli bui, il suo canto è quello di un popolo beffato dalla sua stessa sopravvivenza.
E dove raggiunge il massimo della sua poetica è in Tutti morimmo a stento”, una galleria di personaggi, un vasto mosaico sulla solitudine e sull'infelicità dell'uomo... E proprio la morte (come negazione della vita, ossia della dignità, della felicità,di tutto quanto gli antichi comprendevano nel termine humanitas), fornisce il fondale inquietante di questo canto, che allinea tutto il triste campionario di un'umanità derelitta (Cesare G. Romana, presentazione al disco).
Abbiamo così il disperato urlo del Cantico dei drogati:

Ho licenziato Dio,
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell'anima e nel cuore...
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Tu che m'ascolti insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.

..., il livore de la Ballata degli impiccati (mutuata da Villon):

Tutti morimmo a stento
di una morte senza abbandono
recitando l'ultimo credo
di chi muore senza perdono...
Chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna e il modo
soffocato dall'identica stretta
poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l'ultimo credo
di chi muore senza perdono...
Chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna e il modo
soffocato dall'identica stretta
impari a conoscere il nodo...

… l'allucinate litania del Girotondo: /se verrà la guerra, Marcondiro’ndero…/Sul mare e sulla terra chi ci salverà?/, in un mondo dove “solo i bambini sono rimasti vivi , a continuare un assurdo girotondo che li trascina gradualmente alla pazzia ”.
E poi il finale del Recitativo, inquietante percorso da un Corale, per cui non esiste più speranza per nessuno e l'unico, estremo appuntamento è quello con la morte.
Tutto l’album è percorso da un rigore estremo, da un viaggio verso la terra da cui è possibile far ritorno, anche se la visione globale del tutto è ammorbidita da un bisogno di perdono.
Stesso discorso, seppur visto in un’ottica diversa, lo si può fare per la Buona Novella, lavoro nato da una ricerca sui vangeli apocrifi armeni, greci e bizantini non riconosciuti dalla Chiesa. C'è la narrazione dell'inizio e della fine di Cristo in terra, fatta più che altro raccontando i personaggi che gli sono stati più vicini. Una lunare metafora, dove la dominante è il rapporto dell’uomo con il potere: quella di un Cristo (rivoluzionario) mutuato in uomo che predica fratellanza.
Da un lato, Maria e Giuseppe ambedue pedine di un disegno più ampio - ignari protagonisti di una tragedia non voluta - dall’altro, “Maria nella bottega del falegname” mentre accarezza quel legno su cui morirà suo figlio.
La Via della Croce, percorsa da una folla, umana già sconfitta, vera protagonista di questa via crucis:
…il potere vestito di umana sembianza
Ormai ti considera morto abbastanza
E già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
Degli umili e degli straccioni.
Ma gli occhi dei poveri ora piangono altrove,
non sono venuti ad esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come te stesso…

E poi il bellissimo, lancinante Testamento di Tito forse uno dei brani più politici scritti da De André, di inesausta durezza e lucidità, dove le tavole della legge vengono comprate attraverso il dolore, e il comandamento più grande rimane proprio quello che comandamento non è: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

…ma adesso che scende la sera e il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti
Io nel vedere quest’uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l’amore.

E il Laudate Dominum si trasforma in un universale “Laudate Hominem” in cui il Cristo non è il protagonista ma solo il pretesto narrativo che animerà e farà emergere – nella sua tragica possenza – lo stesso popolo già ascoltato nei dischi precedenti che sarà protagonista anche in Non al Denaro non all’Amore né al Cielo, ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Non può stupire la scelta di De André, che sempre di frammenti di drammi si è occupato, di “scene di villaggio”, di tipi umani colti nei momenti decisivi e rivelatori della loro anima, così da diventare simboli della condizione dell’uomo in una società priva di forti riferimenti collettivi, proprio come i protagonisti  dell’opera di Masters. Un prologo e otto ritratti di una società in cancrena; una lacerata fotografia di idiosincrasie, paure, ambiguità, falsità di una società che diventa metafora del mondo.
Il “matto, il giudice, il blasfemo, il malato di cuore, il medico, il chimico, l’ottico e il suonatore Jones”, gli stessi sconfitti della vita di sempre.
Tutti “dormono, dormono sulla collina” e la terra annulla tutto, lasciando solo il rimpianto e un filo di pentimento. Anche qui, a trionfare sulla vita, è solo chi è capace di un gesto d’amore; come il suonatore Jones, quello che in un vortice di polvere ci vedeva “la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa” e che “offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, Non al Denaro, non all’Amore né al Cielo”.

La contestatissima Storia di un impiegato (1973), un “clamoroso fallimento privo di qualsiasi sforzo di rinnovamento e di qualunque ripensamento autocritico”, scriverà – voce non isolata - Simone Dessi (ma per Dori Ghezzi intervistata da Mollica, è il miglior disco…), scritto con Fabrizio Bentivoglio e Nicola Piovani, esalta il maggio e la violenza come coscienza di lotta, ma la storia di quell’impiegato, che tenterà una propria via rivoluzionaria con un attentato non riuscito, finirà in galera.
“La pietà si appoggia/al suo bombardamento preferito/ e perdona la bomba”. Con queste parole di Gregory Corso, il poeta statunitense che nel 1960 aveva provocatoriamente scritto una poesia d’amore alla bomba atomica “incalzatrice della storia / freno del tempo Tu Bomba / giocattolo dell’Universo”, De andré suggella la Storia di un impiegato perché sia chiara, sin dall’inizio, la contraddizione implicita in ogni sovvertimento che il più delle volte non porta a una società nuova, ma alla sostituzione di un potere ad un altro. Una lucida previsione di quello che sarebbe stato lo scenario politico italiano negli anni Settanta, durante i quali il terrorismo avrebbe rafforzato il potere delle istituzioni che “perdonavano” le bombe, mentre spariva dietro l’orizzonte qualsiasi prospettiva di cambiamento

...Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio era normale
loro avevano il tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa primavera…

... anche la rabbia soffocata dal grido degli studenti nella Canzone del maggio (liberamente tratta da un canto del Sessantotto francese):

Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti....
Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

...sfocerà in un attentato non riuscito e in una maturazione di classe (sic) in galera. Allora l'io narrante (“nella mia ora di libertà”) diviene per la prima volta “noi”, e in galera è possibile recuperare il senso di un impegno per cui il protagonista rinuncia al cortile che dovrebbe spartire con il suo piantone, a favore di una ribellione finalmente collettiva.

Nel 1978 esce Rimini (scritto a quattro mani con Massimo Bubola), specchio di un certo tipo di società borghese, in cui fanno capolino le prime esperienze sarde. Interessi che prenderanno corpo nei dischi successivi (L’Indiano e Creuza de ma), rivolti a quelle etnie diverse e antiche – gli indiani d'America, i Sardi – che ancora si conservano, in qualche forma linguistica o epica, nella cultura moderna; alla musicalità del dialetto; alle maggiori possibilità sonore della lingua parlata rispetto a quella scritta, cristallizzata dall'uso ufficiale. Un album di difficile chiave interpretativa (dicono), probabilmente un'apologia sul naufragio della borghesia, coi suoi ultimi superstiti in piedi, sul cassero della nave, mentre questa affonda.
Rimini, è rimasta uguale com'era nei Vitelloni di Fellini”, dice De André dopo aver presentato la canzone nei concerti del 1979, ma la Rimini del cantautore genovese è un mondo a parte, è il luogo dove s’incontrano i destini più diversi, dove si incrociano l'America, la Sardegna e il Messico,
“ i naufragi di parole e il mare aperto” (e anche Marco Pantani, “il pirata”):

Teresa ha gli occhi secchi
guarda verso il mare
per lei figlia di pirati
penso che sia normale
Teresa parla poco
ha labbra screpolate
mi indica un amore perso
a Rimini d'estate

Lei dice bruciato in piazza
dalla santa inquisizione
forse perduto a Cuba
nella rivoluzione
o nel porto di New York
nella caccia alle  streghe
oppure in nessun posto
ma nessuno le crede............................Riminiiii

Per ritrovare un De André più sociale, bisognerà aspettare il 1981 quando il trasferimento in Sardegna e il sequestro di cui furono vittime il cantautore e la sua compagna Dori Ghezzi (un'esperienza vissuta con spirito d'avventura), porterà all'album senza titolo comunemente conosciuto come L'indiano, per il disegno di copertina. Scritto con la collaborazione di Massimo Bubola, questa volta dedicato alle minoranze (sarde o pellerossa che siano) alla loro quotidiana lotta per la sopravvivenza. È forse anche il primo passo di un cammino che porterà De André alla scoperta di un nuovo suono, di una mediterraneità che diventa ricerca delle proprie radici e che si tramuterà (1984) nel capolavoro Creuza de ma interamente cantato in genovese. Un disco eccezionale, da fargli meritare il titolo di disco del decennio. È un flusso continuo di suoni strumentali e vocali.
È il frutto di una lunga e appassionata ricerca sulle affinità morfologiche che si ritrovano nel patrimonio musicale di tutti i popoli del bacino del mediterraneo, africani, europei o asiatici, e non solo di quelli, poiché le strade di diffusione delle culture risalgono ai tempi arcaici, travalicano le vie dei commerci e disegnano un atlante nuovo e insospettato delle forme della creatività umana. Ancora tipi umani tante volte incontrati: l'emarginato sociale, in questo caso la A Pittima che riscuote i crediti; le prostitute in uscita domenicale e la regina “de e bagascie”, Jamin-a, cantata in un capolavoro di hard-core: la guerra raccontata attraverso la “piccola” morte di un bambino palestinese Sidun (straziante) nel tragico orizzonte del Libano:

il mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele
tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell'afa umida
dell'estate dell'estate
e ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca
cacciatori di agnelli
a inseguire la gente come selvaggina
finchè il sangue selvatico
non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
perchè di nostro dalla pianura al modo
non possa più crescere albero ne spiga ne figlio
ciao bambino mio l'eredità
è nascosta
in questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte.

...e la scaltrezza  di un marinaio genovese che da prigioniero dei turchi diventa Sinàn Capudàn Pascià. Una galleria di situazioni aperta e conclusa da due canzoni di mare, la malinconica Da me riva, uno sguardo verso terra mentre naviga “un po' più a largo del dolore”, e l'onda calma e continua di Creuza de ma, già ricordata.

Quasi non fosse possibile scrivere altro, De André - sei anni dopo – esce con l'album Le Nuvole
(Ispirandosi all'omonima commedia di Aristofane). Nuvole come arte del confondere e raggirare; nuvole come espressione di un cielo denegato; nuvole illusorie che promettono e non mantengono le immagini della favola e peranco “ci lasciano la voglia di pioggia”. De André svela una società che non ha più alcun discorso, la coglie dopo una catastrofe che non è neppure avvenuta, ove i miti-feticci hanno preso il posto della verità e del dubbio: “cantami di questo tempo/l'astio e il malcontento/di chi è sottovento/...Millecinquecento scatole d'argento/fine Settecento ti regalerò”... Piccoli personaggi senza volto si alternano nei testi delle canzoni soffrendo e offrendo lo spettacolo della loro propria confusione, della loro disperata e però banale protesta: una galleria di mostriciattoli senza il conforto di alcun discorso, migliore o peggiore che sia, di alcuna legge da accettare o da confutare. Personaggi senza identità sprofondano in un quotidiano senza futuro. Secondini, commercianti, cuochi, contadini... inseguono il loro illusorio tornaconto e seppelliscono anche il sentire, sempre che ne conservino uno, occultandolo in una palude di oggetti ai quali hanno delegato l'identità.
Il racconto di De André esplica un’ironia amarissima, dalla quale traspare una rabbia impotente. Per resistere, per continuare ad essere liberi occorre tenere un cannone nel cortile di casa:
l'assedio non regala tregua, non è più appannaggio esclusivo di istituzioni folli, di politiche assurde, di economie assassine. È il risultato di una confusione senza limiti. Persino l'uomo che s'innamora di un'asina non desta stupore, semmai stupide rituali invidie e impedimenti paradossali. Persino il dolore per la morte di un figlio può essere facilmente sedato con opportune “pillole” in libera offerta sul mercato.
Due facciate, due visioni del mondo. La prima per raccontare del potere e della sua arroganza, della cancrena e della putrefazione di una società, come in Don Raffaè: Tutto il giorno con quattro infamoni / briganti, papponi, cornuti e lacchè / Tutte l'ore cò 'sta fetenzia / che sputa minaccia e s'a piglia co' me / ma alla fine m'assetto papale / mi sbottono e mi leggo 'o giornale / mi consiglio con don Raffaè / mi spiega che penso e bevimm'o cafè / ah che bello 'o cafè / pure in carcere 'o sanno fa / co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella / compagno di cella / ci ha dato mammà …
L'altra, in dialetti di mare (sardo, napoletano, genovese) per raccontare delle vittime di questo potere: storie comuni di gente comune che chiede solo che le nuvole non vengano a portar pioggia in un campo che ha bisogno di sole. Nuvole malefiche cupe ed oppressive, foriere di male.
Le cicale friniscono all'inizio e alla fine del primo lato: suoni fastidiosi e stridenti. Ingombranti, quasi come le coscienze mute di chi, inutilmente, ha tentato di usare una voce diversa.
La domenica delle salme, è la catarsi di tutto questo. L'ultima invettiva, il cerchio che si chiude, la parola che non ha più ragion d'essere. De André non offre requie o speranza: ancor di più la sua indignazione è totale. Nell'inferno deandreiano non ci sono più né santi né peccatori e il coro di “vibrante protesta” diventa questo stridìo, in cui si perde anche quello che avrebbe dovuto essere il ruolo di chi canta, mandato impietosamente, dopo una mezz'oretta “a cagare”.

È il dileggio di tutta una categoria : quella che aveva “voci potenti”, lingue allenate a battere il tamburo, “adatte per il vaffanculo”, e che invece s'è smarrita a cantare per “l'Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti”

e dai padri Maristi
voi avete voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avete voci potenti
adatte per il vaffanculo...

mentre il cuore d'Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in coro
di vibrante protesta.                

Nuvole

Nuvole che lasciano voglia di pioggia e non fermentano alcunchè: ripetono l'andare e il tornare dentro lo scenario senza desideri.

Alla fine dello stesso anno il giornalista Cesare Romana gli dedica un libro, Amico fragile, che rievoca non solo gli anni fortunati della carriera musicale, ma anche i giorni lontani e i ricordi sbiaditi della giovinezza. “È un po' la storia della mia vita da quando, durante la guerra, la mia famiglia era rifugiata nelle campagne di Asti e mio padre, alla macchia, era ricercato dai fascisti.
Passando attraverso l'infanzia, l'adolescenza, la scoperta del sesso, dell'amore, della musica, della politica e dei spassosi e qualche volta tragici equilibrismi. Il titolo è anche quello di una delle mie canzoni nelle quali mi riconosco di più”.

Nel 1996 pubblica Anime salve - che secondo De André significa etimologicamente “anime solitarie” e per estensione “spiriti liberi” (cfr. Musica del 17 maggio 1997) - scritto e musicato con Ivano Fossati: “non ce lo siamo mai detto però...(questo disco) era un concept album sul tema della solitudine” (La Repubblica, 19 settembre 1996).
Possiamo però dire che ai temi della solitudine si lega anche il conflitto tra destino e salvezza, tra destino e libertà, tra destino imposto e scelte individuali, tra poteri e minoranze resistenti e renitenti.
Per comprendere meglio sono da ricordare i versi di Smisurata preghiera:

...per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
… ricorda signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti...

E si prega che questo miracolo pietoso avvenga proprio “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/col suo marchio speciale di speciale disperazione”, per chi “tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/per consegnare alla morte una goccia di splendore/di umanità, di verità”.

A questi “servi disobbedienti alle leggi del branco”, alla loro ricerca di una propria verità, in nulla arrogante ma vissuta con preziosa dignità umana si contrappone (come sempre in De André), la “maggioranza” che detiene il dominio e il potere: “Alta sui naufragi/dal belvedere delle torri/.../a guidare la colonna di dolore e di fumo/..../coltivando tranquilla/l'orribile varietà/delle proprie superbie/la maggioranza sta”.
La parola “maggioranza” per De André ha un significato particolare: “Oggi maggioranza ha un significato numerico, ma deriva dal termine latino maior, che al plurale fa maiores. I maiores nel mondo latino erano coloro che detenevano i privilegi ed esercitavano l'autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di numero, ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all'aumento in loro favore dei privilegi, dell'autorità, del potere, (ormai) pressoché illimitati... I minores... saremmo poi tutti noi al di là del mestiere che facciamo... Credo che la gente si sia per questo identificata con le minoranze emarginate, le protagoniste di Anime salve; ed è per questo che
“una larga parte di popolazione comincia a sentirsi minoranza” (cfr Musica del 17 maggio 1997).

Tra questi servi disobbedienti e queste minoranze troviamo un Cristo vestito di stracci che “capace” di fare miracoli, di contrapporre a costo della vita il suo “vasto programma di eternità” e di
universale pietà, alla rabbia meschina di coloro che detengono il potere e lo usano per i propri miserabili vantaggi.

In un intervento scritto nel dicembre 1996 De André dice: “c'è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza… Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un'entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive, un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosìddetta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell'amore” (Buscadero, dicembre 1996).

Tutto il disco – una canzone dopo l'altra - è un racconto di solitudini e di libertà, un susseguirsi di storie di emarginati e di minoranze, raccontate con un fortissimo slancio lirico di solidarietà umana.
Non stupisce che una canzone sia dedicata al popolo Khorakhanè, tribù rom nomade ma di origine serbo-montenegrina, che ha fatto della libertà, dell'essere vento, del non avere proprietà né terra, la propria religione. De André e Fossati, con la straordinaria presenza di Dori Ghezzi, cantano la loro immane tragedia, il momento in cui “un uomo t’incontra e non si riconosce”, il momento in cui “ogni terra si accende e si arrende la pace”, il momento in cui “i figli cadevano dal calendario/Iugoslavia Polonia Ungheria/i soldati prendevano tutti/e tutti buttavano via...”
Ancora una volta De André si accosta ai destini degli uomini, alle loro disperate solitudini e abissali disperazioni, con grande vicinanza e trepidazione lasciando però il giudizio a “chi sa raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”. Viene da chiedersi: esiste un destino che non sia, in fondo, ridicolo o assurdo? Esiste cioè, per usare le parole di un'altra canzone di De André e Fossati - Disamistade - “un modo di vivere senza dolore”, un modo per fermare “questa corsa del tempo e sparigliare destini e fortune”? Probabilmente no... inutile cercare di sfuggire al proprio destino...
Il tema del destino, della fortuna, della sorte, è un continuo in tutto il lp Anime salve.
Lo troviamo in Ho visto Nina volare, in Dolcenera dove il cataclisma improvviso muta l'acqua da benedetta in acqua di malasorte; in Le acciughe fanno il pallone, di rara sensibilità: “passano le villeggianti/con gli occhi di vetro scuro/passano sotto le reti/che asciugano sul muro/e in mare c'è una fortuna/che viene dall'oriente/che tutti l'hanno vista/e nessuno la prende... se prendo il pesce d'oro/ve la farò vedere/se prendo il pesce d'oro/mi sposerò all'altare”; in Anime Salve (canzone), perché anime solitarie, “salve perché capaci di “illudersi e fallire”, di guardarsi piangere e ridere, di arrivare e partire, di vincere e perdere nel gioco alterno della vita e della fortuna...
Ossia di vivere questo tempo (“che grande che bello questo tempo”) nella sua fugace ma straordinaria bellezza: “sono state giornate di finestre adornate, canti di stagione... sono state giornate furibonde, senza atti d'amore... solo passaggi... passaggi... passaggi di tempo”.

LE CANZONI DI DE ANDRÉ
RESTANO A BRILLARE
AL SOLE DI OGGI
COME IL PRIMO GIORNO
IN CUI SONO NATE

gennaio 2014

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