La
premessa
La Siria è ormai
parte di un grande gioco imperialista che va oltre il problema del regime
dittatoriale degli Assad e di un potere interno occupato da minoranze
religiose. In questo gioco internazionale sono soggetti attivi elementi
fondamentali dell’Islamismo maggioritario sunnita, che operano nel quadro di
una mai interrotta guerra all’Islamismo sciita. Quest’ultimo aveva ripreso una
politica di riscossa dopo la rivoluzione khomeinista in Iran. L’intento sunnita
– con azioni anche sanguinose dall’Iraq
alla Siria, dal Qatar all’Arabia Saudita e al Bahrein, dall’Afghanistan al
Pakistan – è palesemente di riassoggettare (eliminare sarebbe il massimo) le
componenti sciite fuori dall’Iran privandole della possibilità di essere
soggetti attivi, e quindi di ridurre lo Sciismo a mero fenomeno iraniano stante
l’estrema difficoltà di sradicarlo da quel paese.
Purtroppo si deve
lamentare ancora una volta l’inadeguatezza informativa dei media italiani, proni alla propaganda statunitense, di modo che il
lettore medio capisce poco o niente degli avvenimenti in atto. L’esempio tipico
è dato dal modo di presentare l’integralismo islamico: di esso non si capisce
mai la matrice ideologico/religiosa e inoltre gli allarmi che suscita lasciano
sempre indenne l’Arabia Saudita (a tutt’oggi coccolata dagli Usa), proprio il
paese che finanzia e appoggia l’integralismo, pur giocando col fuoco, giacché
la cosa prima o poi si ritorcerà contro la monarchia dei Saud. Circa la matrice
ideologico/religiosa dell’integralismo islamico non capita quasi mai di vedere
sottolineato il suo sunnismo originario o, se lo si dice, si glissa subito. È
facile e comodo fare di ogni erba un fascio, ma allora si ha propaganda
politica e/o bellica, non informazione, e proprio sulla scia di questa facilità
è diventato “normale” assimilare anche l’Iran alla realtà dell’integralismo
islamico. Errore pratico e teorico.
Una attenta
statistica mostrerebbe innanzi tutto che la prassi terrorista e sanguinaria
dell’integralismo islamico appartiene al 99,9% al gruppi sunniti, e non a
quelli sciiti. A meno che non si voglia considerare terrorismo l’azione
militare dell’Hezbollah libanese
contro l’entità sionista israeliana, negandole il carattere di lotta di
liberazione e difesa. Quando si parla degli attentati in Iraq in genere non si
specifica che i massacratori sono gruppi sunniti e le vittime sono sciite; e lo
stesso dicasi per i similari casi in Pakistan. Infine la lotta di liberazione
degli Sciiti del Qatar e dell’Arabia Saudita viene ridotta a questione politica
debordata in questione di ordine pubblico, e il naturale appoggio di Hezbollah al regime di Assad appare più
come espressione di comune malvagità che non di coesione di fronte a un nemico
mortale comune.
Sul piano teorico
si evita di evidenziare aspetti importanti che differenziano una società sciita
dal modello perseguito invece dagli estremisti sunniti. Il tutto potrebbe
ridursi alla frase “gli sciiti e i Talebani o i salafiti non sono la stessa
cosa”, ma non basterebbe; non si trascuri di comparare le diversità in campo.
La rivoluzione iraniana ha creato un assetto statale in buona parte improntato
all’esperienza costituzionale dell’Occidente, addirittura con una Costituzione
che proclama la sovranità popolare (seppure coniugandola con la cornice
islamica), elezioni, previsione di diritti per le minoranze, e quant’altro.
Importante il fatto che nelle Università la presenza femminile è maggiore di
quella maschile, mentre l’integralismo sunnita non manderebbe nemmeno alle
elementari le bambine.
Sugli aspetti per
noi negativi si potrebbe scrivere un libro, ma è pur vero che dallo Sciismo
provengono tentativi di costituire una società islamica dei secoli XX e XXI,
mentre l’integralismo sunnita vorrebbe riportare tutto al suo modo di intendere
i primordi dell’Islam; modo che la storia di quel periodo smentisce globalmente
svelando per quello che è la truffa integralista: trasformazione in mito di un
passato mai esistito. Ma questa invenzione la si vuole realizzare con qualsiasi
mezzo contro chiunque, oppositori islamici compresi, i quali, se visti come
apostati, possono essere ammazzati a cuor leggero. Il poco promettente motto
che circola oggi nelle zone siriane in mano ai “liberatori” anti-Assad – “gli
Alawiti nella bara e i Cristiani a Beirut” – è sunnita, e non c’è l’inverso di
matrice sciita.
Lo Sciismo in estremissima sintesi
Di fronte al
fenomeno Islam l’uomo medio è culturalmente disarmato, poiché la scuola al
riguardo gli dà assai poco e l’informazione dominante privilegia stereotipi e
banalità. Non che sull’altro fronte la situazione sia migliore: e se da noi
emerge sempre l’immagine del Moro con la scimitarra in mano, sensuale e
saccheggiatore, sul versante musulmano è diffusa l’immagine del Crociato
assetato di sangue e di donne islamiche, magari modernizzata nella versione del
colonialista avido e oppressore.
In questa generale
scarsa conoscenza di un mondo di cui si ha paura spicca la totale ignoranza
dello Sciismo, fin dai primordi componente minoritaria dell’Islam; minoritaria
ma importantissima. Storicamente i contatti con lo Sciismo – anche come nemico
musulmano - si sono interrotti abbastanza presto. Il califfato fatimida (sciita) che aveva
dominato gran parte del Nordafrica (Egitto compreso), la Sicilia e la Grande
Siria finì con l’avvento di Saladino. Poi lo scontro è avvenuto con i Sunniti,
che nell’Impero ottomano trovarono il maggior baluardo offensivo e difensivo.
Lo Sciismo è poco conosciuto anche nel resto dell’Occidente, seppure nei paesi
di lingua francese la monumentale opera di Henry Corbin abbia cercato di
colmare la lacuna. La grande importanza dianzi attribuita allo Sciismo è
motivabile molto semplicemente. Se oggi gli storici parlano della grande
civiltà islamica fiorita durante il Medio Evo europeo lo si deve essenzialmente
ad alcuni fattori: la liberale civiltà musulmana della penisola iberica
originata con il califfato omayyade di Córdoba, e poi proseguita dai regni
islamici nati dalla sua disgregazione; il primo periodo del califfato abasside
di Baghdad, prima cioè che l’intolleranza sunnita vi facesse cadere una cappa
di mortifero totalitarismo culturale; la produzione teosofica e filosofica
degli Sciiti.
Nata dai contrasti
in ordine ai diritti di ‘Alī, genero del profeta Muhāmmad, a succedergli quale
Califfo a capo della comunità islamica (addirittura c’è stata l’accusa dei
seguaci di ‘Alī ai Sunniti di aver soppresso passaggi del Corano attestanti la
primazia di ‘Alī), la divaricazione fra Sunniti (da Sunna, tradizione) e Sciiti (da shi’ia, partito, di ‘Alī) si è progressivamente trasformata da
politica in conflitto anche religioso, a motivo della formazione di una
teologia sciita a sé stante, in cui è parte fondamentale l’elaborazione della
figura dell’imām in termini
metafisici – nello Sciismo prende il posto del Califfo, ma con grande pregnanza
esoterica. Se si volesse fare uno stravagante parallelo con il mondo cristiano
– pur con tutte le possibili stravaganze, insufficienze ed erroneità
dell’iniziativa – si potrebbe azzardare un l’accostamento da un lato fra i
Sunniti e il Cristianesimo europeo occidentale (Cattolici e Protestanti), e da
un altro lato fra Sciiti e Ortodossi. Ma questo serve solo a intenderci in
linea di massima.
Per
l’approfondimento di come si siano diversificate, e diventate nemiche, due
realtà entrambe nate dall’Islam originario, esiste una vasta bibliografia[1],
utilissima per capire le diverse mentalità di esse, ed è meglio farvi
riferimento giacché addentrarsi nei meandri della teologia islamica esula dai
nostri fini specifici. Qui possiamo contentarci del prendere atto che sia gli
Sciiti sia i Sunniti si considerano incarnazione del vero Islam e vedono nella
rispettiva controparte il radicamento dell’eresia.
Non tutte le eresie
sono però uguali sul piano delle potenzialità. Per capire perché gli Sciiti
siano stati sempre perseguitati dal potere sunnita e dalle masse fanatiche da
esso mobilitate, bisogna guardare all’insieme della storia sciita, e non
polarizzarsi su forme e modalità assunte dallo Sciismo iraniano dopo che – nel
sec. XVIII – con la vittoria delle dinastia dei Savafidi diventò in Iran una
specie di Chiesa di Stato, con l’egemonia di ayatollah e mullah
diventati un corpo parasacerdotale. Rispetto al Sunnismo, lo Sciismo – nelle
sue varie componenti ideologiche – ha operato come portatore di una carica non
legalista, spiritualista, ricercatrice dei significati profetici e spirituali
nel Corano, originando il fenomeno del Sufismo (penetrato anche in certi
settori del Sunnismo) con i suoi caratteri eclettici e anche libertari sul
piano spirituale. Non a caso l’eresia ultraspiritualista dei Bahai è nata in ambiente sciita
iraniano.
In aggiunta a
questa pericolosità ne sono esistite altre due, non del tutto venute meno: le
tendenze – anomale per i Sunniti – alla radicalità sociale e
all’autorganizzazione anche sotto un potere non sciita e nemico. Significativo
il fatto che i Sultani ottomani (che erano anche Califfi) dovettero dare luogo
a vaste campagne militari per sottomettere nei loro territori gli Sciiti (i
cosiddetti “berretti rossi”).
I frutti dell’imperialismo franco/britannico e la riscossa sciita
Dopo la Grande
Guerra, con l’occupazione e la divisione imperialista dei territori arabi
appartenuti all’Impero ottomano i dominatori autoctoni – sia pure subordinati
alle potenze occidentali – furono Sunniti, anche dove gli Sciiti erano
maggioranza, come in Iraq e nel Qatar. In Libano i Francesi si comportarono
come se questi fastidiosi eretici musulmani non esistessero. Nell’immaginario
collettivo, non solo degli occidentali, lo Sciismo appariva un fenomeno
iraniano, quindi periferico e trascurabile. E nulla mutò fino alla rivoluzione
khomeinista. Lo spartiacque nella storia dello Sciismo contemporaneo sta lì. In
Iran gli Sciiti (non solo loro a dire il vero, ma questo ha finito col
diventare trascurabile) hanno abbattuto un regime occidentalizzato e costruito
il loro Stato islamico: criticabile dal punto di vista sunnita, ma comunque nel
panorama mondiale era sorta la Repubblica Islamica dell’Iran. E se ce l’avevano
fatta gli Sciiti…
Parallelamente si
svilupparono due fenomeni destinati a scontrarsi: l’espansionismo ideologico
iraniano verso le aree del mondo arabo occupate da Sciiti e il rinvigorirsi
dell’estremismo sunnita grazie anche allo sconsiderato appoggio fornitogli
dagli Usa in funzione antisovietica in Afghanistan.
Il primo fenomeno
non poteva non preoccupare i governi sunniti del Vicino Oriente, giacché era
cominciato con la contestazione della custodia dei luoghi santi dell’Islam
tenuta dai Saud, sunniti estremisti in quanto wahabiti. E che gli Sciiti arabi
non fossero più dormienti lo aveva dimostrato in Libano – con le armi e con l’organizzazione sociale – il movimento sciita Amal di Nabih Berry, a cui poi avrebbe fatto seguito, più poderosamente, Hezbollah. In concreto per l’Iran si
apriva una potenziale e vasta area suscettibile di esserne influenzata (vedi
mappa).
In questo contesto
diventava strategica per la riscossa sciita la Siria: per quanto a governo
laico (il Natale, per esempio, è festa nazionale) è un paese gestito dagli
Alawiti ovvero – senza tanto entrare nel dettaglio teologico – da una
minoranza, in precedenza perseguitata, suscettibile di essere considerata un
ramo eterodosso dello Sciismo. E difatti il regime siriano ha poi fatto carte
false per ottenere da Teheran la “patente” ufficiale di Sciismo.
Per i governi
arabi, e in particolare per quelli del Golfo Persico, da subito la rivoluzione
iraniana – al di là di ogni plauso di facciata – fu considerata un pericolo, in
termini sia religiosi sia politici, e questo sentimento si è espresso nel
rilevante appoggio saudita dato all’Iraq di Saddam Husayn nella guerra contro
l’Iran, pur essendo il regime di Baghdad un nemico altrettanto palese. Per
quanto l’esito di quella guerra possa essere visto in base alla metafora della
bottiglia per metà vuota ma per metà piena, sta di fatto che il regime di
Khomeini non era affatto caduto, e per i regimi sunniti era questo a contare,
al di là delle fanfaluche propagandistiche. In più il libanese Hezbollah si sarebbe poi aureolato di
gloria nello scontro militare con l’entità sionista. Mentre restavano una bomba
a tempo le vessate minoranze sciite del
Bahrain, del Qatar e anche dell’Arabia Saudita (lì, ahimè, concentrate proprio
nelle maggiori zone petrolifere). Nel contesto in tal modo costituitosi
diventava quindi essenziale intervenire per l’indebolimento dell’asse
Teheran-Damasco, vitale per entrambi i paesi in causa.
Come al solito, si
è intervenuti (o è stato possibile farlo) sul partner più debole: la Siria,
oltre tutto colpevole di essersi alleata con l’Hezbollah. Per conseguenza, l’egemonia siriana sul Libano, tanto
apprezzata in precedenza quando c’era da far finire la guerra civile libanese -
ormai incancrenita senza vincitori, e di ostacolo ai lucrosi investimenti per
la ricostruzione - diventava all’improvviso da demonizzare, nonché causa di
tutti i mali libanesi. Visto l’andazzo, e l’assenza di risultati ottenuti, il
vecchio Hafez al-Assad avrebbe fatto meglio a salvarsi l’anima e non dare alcun
appoggio alla coalizione che scatenò la Prima guerra del Golfo. Poi – e
all’improvviso; cioè in assenza di significativi mutamenti nella situazione
siriana che lo facessero presagire – si sono sviluppate manifestazioni di
piazza con iniziali e ineccepibili rivendicazioni di stampo democratico a cui
il regime ha dato un’autolesionista e spropositata risposta armata. Quando
erano iniziate le manifestazioni il regime siriano – al momento con una forza
ancora intatta – avrebbe potuto giocare le carte della politica, tra cui quella
della divisione del fronte avverso. Non avendolo fatto, ora parliamo di uno
scenario diverso da quello che purtroppo si sarebbe potuto avere.
I Sunniti giocano a carte scoperte
Un passo biblico nella versione latina dice “Quos Deus perdere vult eos dementat”. Probabilmente Dio vuole perdere quanti fanno finta di non vedere in ordine alla rivolta siriana. Eppure anche aderenti a
essa dimostrano di avere ben chiaro il pericolo che li accompagna. Prendiamo un
personaggio fino a ieri ignoto, e oggi ricercato da molti media occidentali: il giovane generale Manaf Tlass, bello, colto, playboy affermato, esponente della ricca burgoisie
dorée di Damasco fino a ieri integrata nel regime, e oggi il più alto in
grado fra i disertori dell’Esercito Siriano. Nella loro sindrome di
semplificazione varie testate lo presentano come il potenziale nuovo uomo forte
della Siria dopo l’eventuale caduta di Assad. La cosa non è certa alla luce sia
in base alle caratteristiche e alle origini del personaggio (mai dire mai,
tuttavia), sia per certe sue dichiarazioni. Quando proclama (giustamente) la
necessità di una soluzione della crisi tale da garantire da divisioni e lotte
settarie, egli esprime un auspicio nato da una preoccupazione concreta. D’altro
canto Tlass non può non sapere che nell’autoproclamato Esercito Libero Siriano i disertori sunniti dell’esercito regolare sono solo una componente, con
tutta probabilità non maggioritaria, e che il resto è fatto da jihadisti
siriani e mercenari musulmani (si dice legati alla rete di al-Qaida) finanziati da Arabia Saudita, Qatar e Usa, con basi in
Turchia e addestramento della Cia. Su questa base non pare proprio che la
situazione si stia evolvendo in modo da dissipare quei timori.
E poi ci sono le
esternazioni di membri jihadisti della rivolta, che potrebbero essere
raggruppate sotto il titolo “Alla faccia della chiarezza!”. Fulgido esempio ne
è quanto dichiarato di recente al giornale libanese L’Orient le Jour dal salafita Muhammad Sensaui, il quale al posto
di frontiera di Bab al-Hawa,
tra Siria e Turchia ha espresso in termini inequivocabili il progetto per cui
combatte: «Noi faremo uno Stato islamico fino al Libano, dove ci sono puttane e
casinò».
Del pari l’ex dentista Muhammad Firas, convertitosi in capo di un gruppo di
miliziani di Allah, ha detto francamente quel che tutti sanno e tutti temono:
«Si vedrà dopo la caduta del regime chi è il più forte sul terreno e chi potrà
governare il paese». Traduzione libera: la lotta per il potere sarà
sanguinosa e prevarranno le armi. Speriamo che abbia ragione Hassan Abu
Haniyeh, esperto giordano di gruppi islamisti, secondo il quale l’attuale
apporto militare dei jihadisti avrebbe carattere secondario; e speriamo che poi
continui così. Ma sta di fatto che i mezzi d’informazione non-italiani
sottolineano il costante afflusso di estremisti islamici da Kuwait, Qatar, Libia,
Arabia Saudita, e addirittura da Gran Bretagna, Belgio e Stati Uniti.
Come fa il regime di
Assad a resistere ancora
Nel precedente articolo sulla Siria si accennava al fatto che una parte
della borghesia sunnita ancora sostiene il regime. Esso perde pezzi singoli (da
ultimo nientemeno che un Primo ministro, Riad Hijab), ma le diserzioni
individuali, di civili come di militari, sono solo relativamente pericolose, al
contrario di quanto accadrebbe con le defezioni di intere unità, che
porterebbero dalla parte degli insorti armamenti e catene di comando. Finora
non ci sono state defezioni di particolare entità da parte delle Forze armate,
in cui sono presenti anche militari di origine sunnita. Che lo zoccolo duro
delle Forze armate sia fatto da Alawiti è fuori discussione, ma è pur vero che
2/3 degli ufficiali sotto il grado di colonnello non lo sono, e finché il
20-30% di questi ultimi resterà fedele, le Forze armate saranno in grado di
funzionare. A tutt’oggi Assad può contare – oltre che sulle fedelissime forze
d’élite – Guardia Repubblicana e Quarta Divisione Blindata – su un esercito
regolare maggioritariamente non alawita, sui servizi di sicurezza e sull’alta
gerarchia militare.
Il fatto (già accennato nel precedente articolo) dell’essersi
progressivamente trasformato il conflitto interno siriano in lotta soprattutto
di tipo religioso, secondo Aram Nerguizian, analista dello statunitense Strategic and International Studies,
potrebbe anche costituire un elemento di forza per Assad, ma nei limiti in cui
egli riesca a porsi politicamente in maniera tale da non alienarsi
definitivamente la componente maggioritaria della popolazione; altrimenti
diverrebbe fonte di debolezza.
Teheran è nel mirino, e per questo deve mantenere
l’appoggio ad Assad
Per Teheran non
solo è di primario interesse strategico il mantenimento dell’attuale regime
siriano, ma è di interesse tattico che la sua resistenza non venga meno prima
delle nuove elezioni presidenziali statunitensi. Il perché è semplice: se ci
sarà un attacco aereo israeliano contro le installazioni nucleari iraniane esso
avverrà prima di quella data, giacché obiettivo del governo di Netanyahu è che
Obama non venga rieletto, e tutti sono convinti che l’intervento armato
dell’entità sionista sarebbe un colpo assai duro per l’attuale politica di Washington
e potrebbe ridare forza e vigore alla destra statunitense. Ovviamente se questo
attacco avvenisse dopo un cambio di regime a Damasco, o in contemporanea con
ciò, anche Teheran ne riceverebbe un colpo durissimo. A ciò si aggiunga che vi
sono apprendisti stregoni sionisti, con appoggio a Washington, che sperano in
una risposta iraniana così forte contro Israele da costringere gli Stati Uniti
a intervenire militarmente: cioè nella guerra fra Usa e Iran.
Poiché il tempo non
scorre a favore dell’asse sciita, ecco che l’Iran lo scorso 9 agosto ha
ospitato a Teheran una riunione internazionale sulla crisi siriana, presieduta
dal ministro degli Esteri Ali Akbar Salehi, a cui hanno partecipato rappresentanti
di 29 paesi e degli organismi Onu esistenti nel paese. Si tratta degli Stati
che non appoggiano i ribelli: Afghanistan, Algeria, Armenia, Bielorussia,
Benin, Cina, Cuba, Ecuador, Georgia, India, Indonesia, Iran, Iraq, Kazakistan,
Kirghizistan, Maldive, Nicaragua, Oman, Pakistan, Russia, Sri Lanka, Sudan, Tagikistan,
Tunisia, Turkmenistan, Venezuela e Zimbabwe.
Il ministro
iraniano Salehi dopo l’incontro collettivo ha invitato governo e ribelli
siriani a un colloquio da tenersi in Iran, e alcune organizzazioni dei ribelli
hanno già dichiarato la propria volontà di prendervi parte. Inoltre l’Iran ha
proposto una tregua nei combattimenti dopo la fine del Ramadan, vale a dire dal
19 agosto, per la creazione di un clima più favorevole a colloqui fra le parti
L’Iran, quindi, sta dando vita a una manovra diplomatica a vasto raggio per una
soluzione della crisi siriana non devastante nell’area del Vicino Oriente e
riaffermare il proprio ruolo in questo scacchiere. Ci riuscirà?
Intanto si stanno
alterando le relazioni con la Turchia da parte dell’Iran, innanzitutto: il
Capo di Stato maggiore iraniano Hassan Firouzabadi ha formalmente accusato
Ankara di incoraggiare il bagno di sangue in Siria fornendo armi ai ribelli,
avvertendo che dopo la Siria l’estremismo (indoviniamo quale?) potrebbe
rivolgersi contro la Turchia. Ankara ha reagito, Teheran ha sospeso l'esenzione
dei visti per i cittadini turchi. Ma dulcis
in fundo il governo di Baghdad, a guida sciita, ha annunciato una
rivalutazione delle relazioni con la Turchia.