Ogni servitù è volontaria e dipende solo dal consenso di coloro sui quali si esercita il potere.
Da qui questa frase sublime [di Étienne de La Boétie]: «Siate risoluti a non
servire e sarete liberi».
(Michel
Onfray)
I.
I funesti profeti della società liquida
Non c’è cinema che
non sia dell’anima... ecco perché sugli schermi della terra passano film che
non hanno niente da dire e l’insieme della produzione cinematografica mondiale
non è che una messe di banalità illustrate a consumo di folle istupidite dalle
illusioni mercantili, foraggiate dai grandi interessi (rapaci) dell’economia
politica che indica la rotta ai governi ricchi... gli impoveriti sono sempre
più impoveriti dagli indici delle Borse internazionali che giocano a nascondino
con la verità... la sciatteria impera e la servitù volontaria di grandi pezzi
di popolo continua a sostenere la bruttezza di quella società della catastrofe
che incide sull’intero pianeta. Tuttavia, ovunque ci sono seminagioni di
ribellione e oltre alle “primavere dei gelsomini”, nuove generazioni di
indignati prendono in considerazione che non basta più gridare ma dare
l’assalto all’impalcatura del potere con altri strumenti di persuasione... la
cattiva eternità dei dominatori va abbattuta e sempre più gente (migranti,
profughi, disoccupati, precari, esclusi, “quasi adatti”) si riversa nelle
strade a danzare leggera su parole di piombo.
La maggior parte
dei funesti profeti della cultura (bastardi della politica, tenutari delle fedi
monoteiste, saprofiti delle gogne bancarie) stanno al giogo... lavorano
all’instaurazione dell’obbedienza e i loro atti in favore delle gerarchie
padronali sono riconducibili a crimini di leso linguaggio della verità e della
bellezza... l’immensa memoria del sapere umano è violata e i popoli della
caduta (o del tramonto annunciato) del capitalismo postmoderno (delocalizzazione del
lavoro, democrazie rappresentative, crisi delle ideologie, regimi comunisti che
violano i più elementari diritti umani) sono il riflesso di una “società liquida, esasperata dall’incertezza e
dall’instabilità” (Zygmunt Bauman) che umilia la dignità dell’esistenza e i
principi dell’identità umana sono affogati nella globalizzazione negativa che
vanifica le speranze di accoglienza, fraternità, solidarietà delle minoranze.
La mixofobia dei poteri forti produce paura e odio verso lo straniero e
depressione delle economie... solo una rottura radicale dello stato di cose esistenti
può indurre gli uomini, le donne a comprendere che non hanno più nulla da perdere,
se non le proprie catene... l’unica uguaglianza è quella dei diritti umani e
alla base dei diritti umani c’è il diritto alla diversità e la conquista del
bene comune.
La macchina/cinema
è un baraccone indecente dove esibire la demenza senile della propria storia...
qui ogni demiurgo è celebrato e ogni servo riabilitato nel cinismo del successo...
ogni apologeta infatti dovrebbe essere passato per le armi o assassinato per entusiasmo...
“le cattive cause esigono talento o temperamento. Il discepolo, per definizione,
non possiede né l’uno né l’altro” (Cioran, diceva). L’utopia libertaria serve a
progettare l’avvenire, l’immaginazione artistica prepara il domani (in
anarchia) della comunità che viene. Il cinema che conta, dopotutto, è solo
amore dell’uomo per l’uomo.
Il vecchio leone di
Hollywood, Clint Eastwood, grande restauratore del “cinema classico” americano,
fervente repubblicano (anche se qualche volta si è lasciato andare a “simpatie”
democratiche, si fa per dire), che si è autodefinito “libertario di destra”
(una sciocchezza monumentale, in quanto i libertari autentici disconoscono
l’autoritarismo di ogni forma statuale e di ogni fede religiosa)... ha
illustrato la vita di J. Edgar Hoover, uno degli uomini più potenti degli Stati
Uniti d’America per oltre 50 anni (1924-1972), usando la modulistica
dell’agiografia patinata... con J.
Edgar
(2011) ha portato sullo schermo il camaleontismo di questo fascista omofobo
(anche se omosessuale), capo indiscusso dell’Fbi, che è restato in carica
durante i mandati di 8 presidenti (ricattandoli tutti). Un intoccabile,
paladino dell’anticomunismo più becero, che ha usato la schedatura di politici,
affaristi, criminali a proprio favore, fino ad esercitare, orientare, influenzare
l’oscura vita politica di un’intera nazione.
II.
J. Edgar
In J. Edgar Clint Eastwood
racconta (con un buonismo da cartolina illustrata) l’ascesa di questo
funzionario pubblico al potere... la fondazione dell’Ufficio federale (1924), i
legami particolari con la madre e il rapporto omosessuale con Clyde Tolson, suo
fedele collaboratore... frequentatore di salotti buoni, curato nel vestire,
redattore di dossier sovente falsificati, Hoover esce dal film come un
difensore dei cittadini americani e passando dalle vessazioni rimaste impunite
del “maccattartismo” contro la lebbra del comunismo nel cinema hollywoodiano
(che Eastwood sorvola), diventa celebre per avere fatto uccidere il nemico
numero 1 dell’America (Dillinger, 1934) e assicurato alla forca l’assassino del
figlio di Lindbergh (l’eroe dei cieli, che aveva trasvolato dell’Oceano
Atlantico in solitario, 1927). In mezzo c’era da dire che Hoover aveva fatto
dell’intercettazione telefonica non solo un dispositivo per conoscere le
inclinazioni sessuali dei politici e tenerli in pugno e oltre a denunciare il
“pericolo rosso” (una sua ossessione) che vedeva perfino nei cessi del
ristorante dove ha mangiato tutta una vita (insieme a Tolson), si è prodigato
per arginare l’emersione libertaria delle giovani generazioni e la rivolta
planetaria che prese il via nell’università di Berkley nel ’64, quando gli
studenti la occuparono e si affrancarono all’impegno
internazionalista/insurrezionale di Ernesto “Che” Guevara. (Nota a margine: nel
’68 9 premi nobel lavoravano in quella università, ed è stata sede di uno tra i
più importanti movimenti culturali e politici del mondo che ha combattuto
contro il razzismo e la guerra).
Il film di Eastwood
si sofferma molto sulla parte privata di Hoover (Leonardo Di Caprio si cala nel
personaggio con autorevolezza, anche se il trucco, come quello di Tolson, è
davvero pesante, quasi una maschera)... Judi Dench (Anne Marie Hoover) rispetta
i canoni recitativi della madre oppressiva e Armie Hammer (Clyde Tolson) figura
l’amante di Hoover con la grazia necessaria... tuttavia la storia di questo
falso puritano non avvince, né il regista sembra incline a buttarlo giù dal suo
trono di carte segrete (mai trovate dopo la sua morte). Alcuni documentari (e
qualche film) però sembrano deputare lo scandalo Watergate (l’albergo in cui
furono effettuate intercettazioni telefoniche abusive dei politici) a certe
schede consegnate da un uomo di Hoover (William Mark Felt) ai giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e
Carl Bernstein, che provocarono la caduta del presidente regnante Richard
Nixon.
Eastwood sembra
affascinato dalla figura di Hoover... filma Di Caprio come un sognatore
anomalo... traccia sì le sue debolezze, ma è la statura di uomo potente che
butta sullo schermo... ne fa un patriota... manipolatore ma idealista, meschino
ma risoluto, l’effigie di un grande poliziotto che lavora per salvare l’America
dai suoi detrattori. La sceneggiatura di Dustin Lance Black è di quelle scritte
con lo sguardo rivolto alla pubblica opinione e l’uomo di “sani principi”
finisce in una statua nei parchi pubblici. Il montaggio di Gary Roach esegue
una partitura lenta, agevola lunghe sequenze a descrizioni ambientali
depositate in una pregevole scenografia (James J. Murakami) e insieme alla
fotografia livida di Tom Stern architettano un film lungo (137 minuti),
pesante, anche fastidioso, che idolatra uno dei peggiori interpreti della
democrazia americana. Eastwood sembra non sapere che ci sono teocrazie che si
distruggono mostrandole, semplicemente. La libertà di pensiero, per
definizione, non prega mai (semmai incendia gli scranni dell’ordine
costituito).
In J. Edgar c’è una sorta di
legittimazione dell’operato di Hoover... esperto non solo in impronte digitali,
abile ricattatore dei potenti, sagace propugnatore di se stesso e della sua
immagine pubblica... più di ogni cosa a Eastwood sembra interessare la leggenda
mediatica dell’inventore dell’FBI (oltre a quella privata), anche quando è un
fantoccio risibile con la stampa, la radio, la televisione... partecipa alla
sua mitografia e di quel mostro infarcito di autoritarismo qual era, ne fa un
padre tutore della patria. Nel cinema, ma non solo, quando vi sono certezze,
viene a meno la poesia. La cura della realtà è la prerogativa di coloro che non
vogliono oscurare la verità. Il linguaggio aulico che il regista dissemina qua
e là nel film è solo bassa letteratura camuffata dal senso forte
dell’inquadratura e quando l’uniformità di qualsiasi forma di comunicazione
canta solo se stessa, equivale al nulla.
Eastwood rilegge
Hoover con lo sguardo di Hoover... tra
l’ingenuo e l’eroico, il sarcastico e l’informe... non coglie l’esaltazione, la
schizofrenia, l’insignificanza di un uomo incapace di amare e di essere amato,
tutto sistemato nelle armature del sistema, senza una stilla di vita
autentica... un mistificatore, il servo contento di un padrone gabbato...
Hoover, ricordiamolo, esprime come pochi la “banalità del male” della quale
scriveva Hannah Arendt riguardo a Karl Adolf Heichmann,
impiccato (giustamente) per crimini commessi contro l’umanità (era stato uno
dei responsabili della Shoah e aveva sostenuto che obbediva soltanto a ordini
superiori). Gli uomini di potere passano, le loro devastazioni sociali restano.
I velinari della
stampa italiana (ma non solo) hanno applaudito il film di Eastwood con lodi
sperticate e lo hanno imbalsamato in onorificenze sacrali... nessuno si è accorto
(o non ha voluto vedere) che il regista americano ha evitato di mettere a fuoco
con esattezza il cuore della tragedia di un uomo, il marketing del suo operato
e la criminosa svendita di legalità in cambio di consenso e di potere. J. Edgar è un’operazione di
restauro della verità tradita e svenduta agli abusi e ai soprusi delle idee
dominanti... è parte della struttura consortile del mercato cinematografico che
fa dell’immaginario collettivo la filosofia della rassegnazione e
dell’indifferenza. Questo modo di fare cinema lavora ad una fenomenologia
dell’uniformazione e del conformismo e ciò che più conta, alimenta l’esercizio
del potere e ne giustifica gli orrori.
J. Edgar è deprecabile sotto ogni aspetto... sembra mostrare la lotta di un funzionario del governo contro il crimine... Eastwood lascia sullo sfondo mezzo secolo di storia americana, ispeziona la sua metodologia investigativa, spregiudicata ma efficace... il ritratto geniale che restituisce però non è quello di un burocrate perfido, soprattutto rimanda a un esercizio di ammirazione per il conservatore che odora di potere come un cane da riporto... c’è una compiaciuta complicità con la furbizia di Hoover, per il quale la sola società possibile è quella che tiene dissidenti e sudditi al loro posto... nelle fogne. Un po’ poco per quello che è stato definito un “grande film”.
Il cinema che
amiamo è quello che lavora a una filosofia del risveglio, dell’interrogazione e
fa dell’esperienza veridica l’immagine fondante di tutte le insurrezioni (e
uscita per sempre dalla perduta infanzia)... un cinema libertario nel quale apprendiamo
il buon uso dell’indignazione, dove la relazione tra verità e bellezza partecipa
alla vita politica e diventa ricerca, conoscenza e si fa storia... percepire significa essere percepiti e ogni opera d’arte autentica mostra che l’uso della libertà è avere il diritto di usarla. La libertà è l’esatta misura del dovuto a ogni essere umano e la bellezza è la forma compiuta della giustizia. L’organizzazione politica di una società libera e giusta è tutta qui.
Piombino,
dal vicolo dei gatti in amore, 2 volte febbraio 2012