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lunedì 13 agosto 2012

SIRIA: UNA RESA DEI CONTI INTRAISLAMICA FRA SUNNITI E SCIITI, di Pier Francesco Zarcone

La premessa
La Siria è ormai parte di un grande gioco imperialista che va oltre il problema del regime dittatoriale degli Assad e di un potere interno occupato da minoranze religiose. In questo gioco internazionale sono soggetti attivi elementi fondamentali dell’Islamismo maggioritario sunnita, che operano nel quadro di una mai interrotta guerra all’Islamismo sciita. Quest’ultimo aveva ripreso una politica di riscossa dopo la rivoluzione khomeinista in Iran. L’intento sunnita – con azioni anche sanguinose dall’Iraq alla Siria, dal Qatar all’Arabia Saudita e al Bahrein, dall’Afghanistan al Pakistan – è palesemente di riassoggettare (eliminare sarebbe il massimo) le componenti sciite fuori dall’Iran privandole della possibilità di essere soggetti attivi, e quindi di ridurre lo Sciismo a mero fenomeno iraniano stante l’estrema difficoltà di sradicarlo da quel paese.
Purtroppo si deve lamentare ancora una volta l’inadeguatezza informativa dei media italiani, proni alla propaganda statunitense, di modo che il lettore medio capisce poco o niente degli avvenimenti in atto. L’esempio tipico è dato dal modo di presentare l’integralismo islamico: di esso non si capisce mai la matrice ideologico/religiosa e inoltre gli allarmi che suscita lasciano sempre indenne l’Arabia Saudita (a tutt’oggi coccolata dagli Usa), proprio il paese che finanzia e appoggia l’integralismo, pur giocando col fuoco, giacché la cosa prima o poi si ritorcerà contro la monarchia dei Saud. Circa la matrice ideologico/religiosa dell’integralismo islamico non capita quasi mai di vedere sottolineato il suo sunnismo originario o, se lo si dice, si glissa subito. È facile e comodo fare di ogni erba un fascio, ma allora si ha propaganda politica e/o bellica, non informazione, e proprio sulla scia di questa facilità è diventato “normale” assimilare anche l’Iran alla realtà dell’integralismo islamico. Errore pratico e teorico.
Una attenta statistica mostrerebbe innanzi tutto che la prassi terrorista e sanguinaria dell’integralismo islamico appartiene al 99,9% al gruppi sunniti, e non a quelli sciiti. A meno che non si voglia considerare terrorismo l’azione militare dell’Hezbollah libanese contro l’entità sionista israeliana, negandole il carattere di lotta di liberazione e difesa. Quando si parla degli attentati in Iraq in genere non si specifica che i massacratori sono gruppi sunniti e le vittime sono sciite; e lo stesso dicasi per i similari casi in Pakistan. Infine la lotta di liberazione degli Sciiti del Qatar e dell’Arabia Saudita viene ridotta a questione politica debordata in questione di ordine pubblico, e il naturale appoggio di Hezbollah al regime di Assad appare più come espressione di comune malvagità che non di coesione di fronte a un nemico mortale comune.
Sul piano teorico si evita di evidenziare aspetti importanti che differenziano una società sciita dal modello perseguito invece dagli estremisti sunniti. Il tutto potrebbe ridursi alla frase “gli sciiti e i Talebani o i salafiti non sono la stessa cosa”, ma non basterebbe; non si trascuri di comparare le diversità in campo. La rivoluzione iraniana ha creato un assetto statale in buona parte improntato all’esperienza costituzionale dell’Occidente, addirittura con una Costituzione che proclama la sovranità popolare (seppure coniugandola con la cornice islamica), elezioni, previsione di diritti per le minoranze, e quant’altro. Importante il fatto che nelle Università la presenza femminile è maggiore di quella maschile, mentre l’integralismo sunnita non manderebbe nemmeno alle elementari le bambine.
Sugli aspetti per noi negativi si potrebbe scrivere un libro, ma è pur vero che dallo Sciismo provengono tentativi di costituire una società islamica dei secoli XX e XXI, mentre l’integralismo sunnita vorrebbe riportare tutto al suo modo di intendere i primordi dell’Islam; modo che la storia di quel periodo smentisce globalmente svelando per quello che è la truffa integralista: trasformazione in mito di un passato mai esistito. Ma questa invenzione la si vuole realizzare con qualsiasi mezzo contro chiunque, oppositori islamici compresi, i quali, se visti come apostati, possono essere ammazzati a cuor leggero. Il poco promettente motto che circola oggi nelle zone siriane in mano ai “liberatori” anti-Assad – “gli Alawiti nella bara e i Cristiani a Beirut” – è sunnita, e non c’è l’inverso di matrice sciita.

Lo Sciismo in estremissima sintesi
Di fronte al fenomeno Islam l’uomo medio è culturalmente disarmato, poiché la scuola al riguardo gli dà assai poco e l’informazione dominante privilegia stereotipi e banalità. Non che sull’altro fronte la situazione sia migliore: e se da noi emerge sempre l’immagine del Moro con la scimitarra in mano, sensuale e saccheggiatore, sul versante musulmano è diffusa l’immagine del Crociato assetato di sangue e di donne islamiche, magari modernizzata nella versione del colonialista avido e oppressore.
In questa generale scarsa conoscenza di un mondo di cui si ha paura spicca la totale ignoranza dello Sciismo, fin dai primordi componente minoritaria dell’Islam; minoritaria ma importantissima. Storicamente i contatti con lo Sciismo – anche come nemico musulmano - si sono interrotti abbastanza presto. Il califfato fatimida (sciita) che aveva dominato gran parte del Nordafrica (Egitto compreso), la Sicilia e la Grande Siria finì con l’avvento di Saladino. Poi lo scontro è avvenuto con i Sunniti, che nell’Impero ottomano trovarono il maggior baluardo offensivo e difensivo. Lo Sciismo è poco conosciuto anche nel resto dell’Occidente, seppure nei paesi di lingua francese la monumentale opera di Henry Corbin abbia cercato di colmare la lacuna. La grande importanza dianzi attribuita allo Sciismo è motivabile molto semplicemente. Se oggi gli storici parlano della grande civiltà islamica fiorita durante il Medio Evo europeo lo si deve essenzialmente ad alcuni fattori: la liberale civiltà musulmana della penisola iberica originata con il califfato omayyade di Córdoba, e poi proseguita dai regni islamici nati dalla sua disgregazione; il primo periodo del califfato abasside di Baghdad, prima cioè che l’intolleranza sunnita vi facesse cadere una cappa di mortifero totalitarismo culturale; la produzione teosofica e filosofica degli Sciiti.  
Nata dai contrasti in ordine ai diritti di ‘Alī, genero del profeta Muhāmmad, a succedergli quale Califfo a capo della comunità islamica (addirittura c’è stata l’accusa dei seguaci di ‘Alī ai Sunniti di aver soppresso passaggi del Corano attestanti la primazia di ‘Alī), la divaricazione fra Sunniti (da Sunna, tradizione) e Sciiti (da shi’ia, partito, di ‘Alī) si è progressivamente trasformata da politica in conflitto anche religioso, a motivo della formazione di una teologia sciita a sé stante, in cui è parte fondamentale l’elaborazione della figura dell’imām in termini metafisici – nello Sciismo prende il posto del Califfo, ma con grande pregnanza esoterica. Se si volesse fare uno stravagante parallelo con il mondo cristiano – pur con tutte le possibili stravaganze, insufficienze ed erroneità dell’iniziativa – si potrebbe azzardare un l’accostamento da un lato fra i Sunniti e il Cristianesimo europeo occidentale (Cattolici e Protestanti), e da un altro lato fra Sciiti e Ortodossi. Ma questo serve solo a intenderci in linea di massima.
Per l’approfondimento di come si siano diversificate, e diventate nemiche, due realtà entrambe nate dall’Islam originario, esiste una vasta bibliografia[1], utilissima per capire le diverse mentalità di esse, ed è meglio farvi riferimento giacché addentrarsi nei meandri della teologia islamica esula dai nostri fini specifici. Qui possiamo contentarci del prendere atto che sia gli Sciiti sia i Sunniti si considerano incarnazione del vero Islam e vedono nella rispettiva controparte il radicamento dell’eresia.
Non tutte le eresie sono però uguali sul piano delle potenzialità. Per capire perché gli Sciiti siano stati sempre perseguitati dal potere sunnita e dalle masse fanatiche da esso mobilitate, bisogna guardare all’insieme della storia sciita, e non polarizzarsi su forme e modalità assunte dallo Sciismo iraniano dopo che – nel sec. XVIII – con la vittoria delle dinastia dei Savafidi diventò in Iran una specie di Chiesa di Stato, con l’egemonia di ayatollah e mullah diventati un corpo parasacerdotale. Rispetto al Sunnismo, lo Sciismo – nelle sue varie componenti ideologiche – ha operato come portatore di una carica non legalista, spiritualista, ricercatrice dei significati profetici e spirituali nel Corano, originando il fenomeno del Sufismo (penetrato anche in certi settori del Sunnismo) con i suoi caratteri eclettici e anche libertari sul piano spirituale. Non a caso l’eresia ultraspiritualista dei Bahai è nata in ambiente sciita iraniano.  
In aggiunta a questa pericolosità ne sono esistite altre due, non del tutto venute meno: le tendenze – anomale per i Sunniti – alla radicalità sociale e all’autorganizzazione anche sotto un potere non sciita e nemico. Significativo il fatto che i Sultani ottomani (che erano anche Califfi) dovettero dare luogo a vaste campagne militari per sottomettere nei loro territori gli Sciiti (i cosiddetti “berretti rossi”).

I frutti dell’imperialismo franco/britannico e la riscossa sciita
Dopo la Grande Guerra, con l’occupazione e la divisione imperialista dei territori arabi appartenuti all’Impero ottomano i dominatori autoctoni – sia pure subordinati alle potenze occidentali – furono Sunniti, anche dove gli Sciiti erano maggioranza, come in Iraq e nel Qatar. In Libano i Francesi si comportarono come se questi fastidiosi eretici musulmani non esistessero. Nell’immaginario collettivo, non solo degli occidentali, lo Sciismo appariva un fenomeno iraniano, quindi periferico e trascurabile. E nulla mutò fino alla rivoluzione khomeinista. Lo spartiacque nella storia dello Sciismo contemporaneo sta lì. In Iran gli Sciiti (non solo loro a dire il vero, ma questo ha finito col diventare trascurabile) hanno abbattuto un regime occidentalizzato e costruito il loro Stato islamico: criticabile dal punto di vista sunnita, ma comunque nel panorama mondiale era sorta la Repubblica Islamica dell’Iran. E se ce l’avevano fatta gli Sciiti…
Parallelamente si svilupparono due fenomeni destinati a scontrarsi: l’espansionismo ideologico iraniano verso le aree del mondo arabo occupate da Sciiti e il rinvigorirsi dell’estremismo sunnita grazie anche allo sconsiderato appoggio fornitogli dagli Usa in funzione antisovietica in Afghanistan.
Il primo fenomeno non poteva non preoccupare i governi sunniti del Vicino Oriente, giacché era cominciato con la contestazione della custodia dei luoghi santi dell’Islam tenuta dai Saud, sunniti estremisti in quanto wahabiti. E che gli Sciiti arabi non fossero più dormienti lo aveva dimostrato in Libano – con le armi e con l’organizzazione sociale – il movimento sciita Amal di Nabih Berry, a cui poi avrebbe fatto seguito, più poderosamente, Hezbollah. In concreto per l’Iran si apriva una potenziale e vasta area suscettibile di esserne influenzata (vedi mappa).
In questo contesto diventava strategica per la riscossa sciita la Siria: per quanto a governo laico (il Natale, per esempio, è festa nazionale) è un paese gestito dagli Alawiti ovvero – senza tanto entrare nel dettaglio teologico – da una minoranza, in precedenza perseguitata, suscettibile di essere considerata un ramo eterodosso dello Sciismo. E difatti il regime siriano ha poi fatto carte false per ottenere da Teheran la “patente” ufficiale di Sciismo.
Per i governi arabi, e in particolare per quelli del Golfo Persico, da subito la rivoluzione iraniana – al di là di ogni plauso di facciata – fu considerata un pericolo, in termini sia religiosi sia politici, e questo sentimento si è espresso nel rilevante appoggio saudita dato all’Iraq di Saddam Husayn nella guerra contro l’Iran, pur essendo il regime di Baghdad un nemico altrettanto palese. Per quanto l’esito di quella guerra possa essere visto in base alla metafora della bottiglia per metà vuota ma per metà piena, sta di fatto che il regime di Khomeini non era affatto caduto, e per i regimi sunniti era questo a contare, al di là delle fanfaluche propagandistiche. In più il libanese Hezbollah si sarebbe poi aureolato di gloria nello scontro militare con l’entità sionista. Mentre restavano una bomba a tempo le vessate  minoranze sciite del Bahrain, del Qatar e anche dell’Arabia Saudita (lì, ahimè, concentrate proprio nelle maggiori zone petrolifere). Nel contesto in tal modo costituitosi diventava quindi essenziale intervenire per l’indebolimento dell’asse Teheran-Damasco, vitale per entrambi i paesi in causa.
Come al solito, si è intervenuti (o è stato possibile farlo) sul partner più debole: la Siria, oltre tutto colpevole di essersi alleata con l’Hezbollah. Per conseguenza, l’egemonia siriana sul Libano, tanto apprezzata in precedenza quando c’era da far finire la guerra civile libanese - ormai incancrenita senza vincitori, e di ostacolo ai lucrosi investimenti per la ricostruzione - diventava all’improvviso da demonizzare, nonché causa di tutti i mali libanesi. Visto l’andazzo, e l’assenza di risultati ottenuti, il vecchio Hafez al-Assad avrebbe fatto meglio a salvarsi l’anima e non dare alcun appoggio alla coalizione che scatenò la Prima guerra del Golfo. Poi – e all’improvviso; cioè in assenza di significativi mutamenti nella situazione siriana che lo facessero presagire – si sono sviluppate manifestazioni di piazza con iniziali e ineccepibili rivendicazioni di stampo democratico a cui il regime ha dato un’autolesionista e spropositata risposta armata. Quando erano iniziate le manifestazioni il regime siriano – al momento con una forza ancora intatta – avrebbe potuto giocare le carte della politica, tra cui quella della divisione del fronte avverso. Non avendolo fatto, ora parliamo di uno scenario diverso da quello che purtroppo si sarebbe potuto avere.

I Sunniti giocano a carte scoperte
Un passo biblico nella versione latina dice “Quos Deus perdere vult eos dementat”. Probabilmente Dio vuole perdere quanti fanno finta di non vedere in ordine alla rivolta siriana. Eppure anche aderenti a essa dimostrano di avere ben chiaro il pericolo che li accompagna. Prendiamo un personaggio fino a ieri ignoto, e oggi ricercato da molti media occidentali: il giovane generale Manaf Tlass, bello, colto, playboy affermato, esponente della ricca burgoisie dorée di Damasco fino a ieri integrata nel regime, e oggi il più alto in grado fra i disertori dell’Esercito Siriano. Nella loro sindrome di semplificazione varie testate lo presentano come il potenziale nuovo uomo forte della Siria dopo l’eventuale caduta di Assad. La cosa non è certa alla luce sia in base alle caratteristiche e alle origini del personaggio (mai dire mai, tuttavia), sia per certe sue dichiarazioni. Quando proclama (giustamente) la necessità di una soluzione della crisi tale da garantire da divisioni e lotte settarie, egli esprime un auspicio nato da una preoccupazione concreta. D’altro canto Tlass non può non sapere che nell’autoproclamato Esercito Libero Siriano i disertori sunniti dell’esercito regolare sono solo una componente, con tutta probabilità non maggioritaria, e che il resto è fatto da jihadisti siriani e mercenari musulmani (si dice legati alla rete di al-Qaida) finanziati da Arabia Saudita, Qatar e Usa, con basi in Turchia e addestramento della Cia. Su questa base non pare proprio che la situazione si stia evolvendo in modo da dissipare quei timori.
E poi ci sono le esternazioni di membri jihadisti della rivolta, che potrebbero essere raggruppate sotto il titolo “Alla faccia della chiarezza!”. Fulgido esempio ne è quanto dichiarato di recente al giornale libanese L’Orient le Jour dal salafita Muhammad Sensaui, il quale al posto di frontiera di Bab al-Hawa, tra Siria e Turchia ha espresso in termini inequivocabili il progetto per cui combatte: «Noi faremo uno Stato islamico fino al Libano, dove ci sono puttane e casinò».
Del pari l’ex dentista Muhammad Firas, convertitosi in capo di un gruppo di miliziani di Allah, ha detto francamente quel che tutti sanno e tutti temono: «Si vedrà dopo la caduta del regime chi è il più forte sul terreno e chi potrà governare il paese». Traduzione libera: la lotta per il potere sarà sanguinosa e prevarranno le armi. Speriamo che abbia ragione Hassan Abu Haniyeh, esperto giordano di gruppi islamisti, secondo il quale l’attuale apporto militare dei jihadisti avrebbe carattere secondario; e speriamo che poi continui così. Ma sta di fatto che i mezzi d’informazione non-italiani sottolineano il costante afflusso di estremisti islamici da Kuwait, Qatar, Libia, Arabia Saudita, e addirittura da Gran Bretagna, Belgio e Stati Uniti.

Come fa il regime di Assad a resistere ancora
Nel precedente articolo sulla Siria si accennava al fatto che una parte della borghesia sunnita ancora sostiene il regime. Esso perde pezzi singoli (da ultimo nientemeno che un Primo ministro, Riad Hijab), ma le diserzioni individuali, di civili come di militari, sono solo relativamente pericolose, al contrario di quanto accadrebbe con le defezioni di intere unità, che porterebbero dalla parte degli insorti armamenti e catene di comando. Finora non ci sono state defezioni di particolare entità da parte delle Forze armate, in cui sono presenti anche militari di origine sunnita. Che lo zoccolo duro delle Forze armate sia fatto da Alawiti è fuori discussione, ma è pur vero che 2/3 degli ufficiali sotto il grado di colonnello non lo sono, e finché il 20-30% di questi ultimi resterà fedele, le Forze armate saranno in grado di funzionare. A tutt’oggi Assad può contare – oltre che sulle fedelissime forze d’élite – Guardia Repubblicana e Quarta Divisione Blindata – su un esercito regolare maggioritariamente non alawita, sui servizi di sicurezza e sull’alta gerarchia militare.
Il fatto (già accennato nel precedente articolo) dell’essersi progressivamente trasformato il conflitto interno siriano in lotta soprattutto di tipo religioso, secondo Aram Nerguizian, analista dello statunitense Strategic and International Studies, potrebbe anche costituire un elemento di forza per Assad, ma nei limiti in cui egli riesca a porsi politicamente in maniera tale da non alienarsi definitivamente la componente maggioritaria della popolazione; altrimenti diverrebbe fonte di debolezza.

Teheran è nel mirino, e per questo deve mantenere l’appoggio ad Assad
Per Teheran non solo è di primario interesse strategico il mantenimento dell’attuale regime siriano, ma è di interesse tattico che la sua resistenza non venga meno prima delle nuove elezioni presidenziali statunitensi. Il perché è semplice: se ci sarà un attacco aereo israeliano contro le installazioni nucleari iraniane esso avverrà prima di quella data, giacché obiettivo del governo di Netanyahu è che Obama non venga rieletto, e tutti sono convinti che l’intervento armato dell’entità sionista sarebbe un colpo assai duro per l’attuale politica di Washington e potrebbe ridare forza e vigore alla destra statunitense. Ovviamente se questo attacco avvenisse dopo un cambio di regime a Damasco, o in contemporanea con ciò, anche Teheran ne riceverebbe un colpo durissimo. A ciò si aggiunga che vi sono apprendisti stregoni sionisti, con appoggio a Washington, che sperano in una risposta iraniana così forte contro Israele da costringere gli Stati Uniti a intervenire militarmente: cioè nella guerra fra Usa e Iran.
Poiché il tempo non scorre a favore dell’asse sciita, ecco che l’Iran lo scorso 9 agosto ha ospitato a Teheran una riunione internazionale sulla crisi siriana, presieduta dal ministro degli Esteri Ali Akbar Salehi, a cui hanno partecipato rappresentanti di 29 paesi e degli organismi Onu esistenti nel paese. Si tratta degli Stati che non appoggiano i ribelli: Afghanistan, Algeria, Armenia, Bielorussia, Benin, Cina, Cuba, Ecuador, Georgia, India, Indonesia, Iran, Iraq, Kazakistan, Kirghizistan, Maldive, Nicaragua, Oman, Pakistan, Russia, Sri Lanka, Sudan, Tagikistan, Tunisia, Turkmenistan, Venezuela e Zimbabwe.
Il ministro iraniano Salehi dopo l’incontro collettivo ha invitato governo e ribelli siriani a un colloquio da tenersi in Iran, e alcune organizzazioni dei ribelli hanno già dichiarato la propria volontà di prendervi parte. Inoltre l’Iran ha proposto una tregua nei combattimenti dopo la fine del Ramadan, vale a dire dal 19 agosto, per la creazione di un clima più favorevole a colloqui fra le parti L’Iran, quindi, sta dando vita a una manovra diplomatica a vasto raggio per una soluzione della crisi siriana non devastante nell’area del Vicino Oriente e riaffermare il proprio ruolo in questo scacchiere. Ci riuscirà?
Intanto si stanno alterando le relazioni con la Turchia da parte dell’Iran, innanzitutto: il Capo di Stato maggiore iraniano Hassan Firouzabadi ha formalmente accusato Ankara di incoraggiare il bagno di sangue in Siria fornendo armi ai ribelli, avvertendo che dopo la Siria l’estremismo (indoviniamo quale?) potrebbe rivolgersi contro la Turchia. Ankara ha reagito, Teheran ha sospeso l'esenzione dei visti per i cittadini turchi. Ma dulcis in fundo il governo di Baghdad, a guida sciita, ha annunciato una rivalutazione delle relazioni con la Turchia.

[1] Qui ne ricordiamo solo due: P.F. Zarcone, Islam, Quaderni di Utopia Rossa, Massari Editore, Bolsena 2009, e Leonardo Capezzone-Marco Salati, L'Islam sciita. Storia di una minoranza, Edizioni Lavoro, Roma 2006.

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