Un evento epocale e dalle conseguenze forse non imprevedibili
Il 23 settembre, i mezzi di
informazione hanno dato notizia che la Corte del Cairo per le Questioni
Urgenti – su istanza del partito di sinistra Tagammu - ha disposto la messo al bando della
Fratellanza Musulmana, la chiusura di tutte le sue sedi e di “qualunque
istituzione che ne derivi oppure riceva assistenza finanziaria da essa”, nonché
“la confisca di tutti i soldi, beni e immobili del gruppo”, suggerendo che il
governo crei una commissione indipendente per gestire il denaro della
confraternita fino all’emissione di ordini appositi da parte della Corte. Ancora non è stata resa nota la motivazione
del grave provvedimento: si sa però che il ricorso di Tagammu accusava la
Fratellanza di essere un gruppo terroristico che sfrutta la religione a
fini politici. Per inciso, già in altri tribunali egiziani erano state depositate
denunce similari. La predetta decisione della citata Corte cairota consente
alle nuove(-vecchie) autorità egiziane di agire legalmente contro la rete della
Fratellanza nel settore dei social media
sferrando un pesantissimo colpo agli strumenti di sostegno di base della
confraternita. Il legale della Fratellanza, ‘Ali Kamal, ha annunciato appello
alla Corte superiore, e staremo a vedere.
Va intanto notato che anche in
passato erano stati presentati ricorsi contro la Fratellanza sostenendosi che
essa fosse priva dei requisiti legali sulle Organizzazioni Non-Governative. Le
doglianze dovevano avere un qualche fondamento se a marzo di quest'anno, con
Muhammed Morsi ancora Presidente, la Fratellanza aveva ottenuto lo status di
associazione.
La decisione della Corte del
Cairo era nell’aria, e in fondo può essere considerato un esito logico della
deposizione di Morsi. Pur tuttavia si tratta di un provvedimento che sconvolge
il quadro politico in Egitto e anche nel resto del mondo arabo. In Egitto si
torna alla situazione dell’epoca nasseriana, quando la Fratellanza fu
dichiarata fuorilegge e costretta a operare nella clandestinità per vari
decenni. L’analogia però è solo formale. La grande differenza consiste nel
fatto che la Fratellanza Musulmana di oggi era riuscita a vincere le elezioni
politiche, portare alla Presidenza della Repubblica un suo uomo e, dopo la sua
deposizione, riempire le piazze di propri sostenitori quantitativamente pari
alle masse che avevano provocato l’intervento dei militari. In più nel mondo
arabo oggi abbiamo che i nuclei locali della Fratellanza Musulmana sono al
governo in Marocco, Tunisia, Giordania e Turchia (con Erdoğan & C), oltre a
essere parte attiva nella guerra civile in Siria.
Gli Stati Uniti, che già
avevano appoggiato la Fratellanza nella transizione del dopo-Mubarak ed erano
stati colti contropiede dal golpe militare, subiscono un nuovo rovescio
politico, giacché si erano assai spesi nelle raccomandazioni affinché – pur
nella situazione creata da al-Sisi – alla Fratellanza non venisse tolto lo
spazio politico e continuasse a svolgere un ruolo come soggetto della
restauranda “democrazia” a venire.
La messa al bando dei Fratelli
Musulmani non può certo essere considerata una mossa pacificatrice, tenuto
conto del consenso di massa che avevano raccolto. Per cui non è improbabile che
le faccia seguito un’ondata di terrorismo islamista, con quel che seguirà,
oppure – e ancor peggio – una guerra civile del tipo che travagliò l’Algeria
alla fine del secolo scorso. Non che in questi due casi i militari corrano il
rischio di essere sconfitti, ma la società civile egiziana dovrà patire lacrime
e sangue e l’instabilità politica si installerà (per chissà quanto tempo) in un
paese fondamentale per tutto il mondo arabo, e in più strategicamente
importante nello scacchiere internazionale.
Cosa c’è dietro? O meglio: chi
c’è dietro?
Poiché nei paesi arabi
l’indipendenza della magistratura appartiene alla sfera del “dover essere”, e
poiché non sembra sensato pensare che la decisione della Corte del Cairo – per
il suo peso politico e per le conseguenze possibili – sia nata autarchicamente
nella testa dei suoi membri, è ragionevole pensare che essa sia stata
concertata con il nuovo governo e con i vertici militari, o comunque che da
essi abbia ricevuto il placet
necessario. Irrealistico, invece, è ritenere che abbia avuto l’appoggio anche
degli Stati Uniti. Pur tuttavia non si può credere all’inesistenza di un
appoggio esterno di un certo peso, e individuarne la provenienza non è
difficile.
A questo punto una premessa si
impone. Chi considera il mondo islamico essenzialmente dall’esterno ha
l’impressione di un ambito religioso abbastanza monolitico, mentre così non è
affatto. Per chi poi riesce a evitare l’identità “Islam=radicalismo
politico-religioso” - propugnata dai media
portavoce dello “scontro di civiltà” - ma giudica pur sempre dall’esterno,
è ancora più difficile non vedere nel radicalismo islamico un blocco compatto.
Ancora una volta si deve dire che la realtà è più complicata delle apparenze.
Tenuto conto della situazione
globale del mondo arabo, scommettere che dietro la messa al bando della
“casa-madre” egiziana della Fratellanza ci siano Arabia Saudita, Kuwait ed
Emirati Arabi Uniti vorrebbe dire giocare sul sicuro. Senza l’appoggio di
questi Stati al-Sisi non sarebbe oggi il vero padrone dell’Egitto, e la cosa si
spiega innanzi tutto con la forte ostilità dei governi di questi paesi verso la
Fratellanza Musulmana. Un’ostilità “strana ma non troppo”. Ma si dirà:
integralisti islamici sono i Fratelli Musulmani, e integralisti sono i governi
saudita, kuwaitiano e degli Emirati; e allora perché si combattono? A questo
punto va fatta, sul piano interpretativo, una considerazione di carattere
generale.
Se è normale preoccuparsi per
le affinità ideologiche fra soggetti che si collocano in un campo avverso, pur
tuttavia non tutte (e non sempre) queste affinità comportano anche solidarietà
di intenti. In definitiva, a incidere sono pur sempre gli interessi materiali:
se sono contrastanti, allora le affinità ideologiche passano in terza linea,
lasciando il campo libero a inimicizie degne di avversari ideologicamente
antitetici. È proprio il nostro caso, al punto che ciò che sta accadendo in
Egitto è anche considerabile l’indiretto benservito delle monarchie della
Penisola araba. Ricordiamo che il defunto principe ereditario saudita e ministro dell'Interno, Nayef,
nel 2002 disse: “Lo ribadisco senza esitazione, che i nostri problemi, tutti,
derivano dai Fratelli Musulmani”.
Se mettiamo da parte la
connotazione integralista che accomuna tutti i soggetti in questione, non
sfugge che la Fratellanza Musulmana (nelle sue varie sezioni locali) – pur non
essendo portatrice di un progetto politico tale da rassicurare le opposizioni
circa la possibilità di alternanza, e pur essendo discutibile l’effettività delle
sue aperture sociali, al di là del profilo caritativo-assistenziale – certo non
le è attribuibile l’orientamento favorevole alla monarchia assoluta e
socialmente poco sensibile che invece impera nella penisola araba (Yemen a
parte).
La Fratellanza Musulmana,
appoggiata durante il periodo nasseriano cominciò a essere malvista nella
penisola araba all’epoca dell’aggressione iraqena al Kuwait nel 1990.
L’atteggiamento da essa assunto la fece accusare di appoggio a Saddam Hussein.
Poi c’è stata la caduta di Mubarak: se in questo la Fratellanza praticamente
non ha svolto nessun ruolo, tuttavia l’ha accolto favorevolmente e ne ha
approfittato a beneficio proprio, mentre Mubarak era in stretti e buoni
rapporti con l’Arabia Saudita, considerato da Riyadh un buon alleato. L’appoggio dato dagli
Usa alla Fratellanza non ha migliorato gli umori dei monarchi arabi. I Fratelli
Musulmani sono visti come un gruppo idoneo a installare nella penisola araba
movimenti popolari di contestazione delle monarchie assolute, in quanto dotato
di un potenziale rivoluzionario reso più pericoloso dalla sua impostazione
religiosa. E difatti nella penisola araba i Fratelli Musulmani a centinaia si
trovano nelle locali prigioni.
D’altro
canto le monarchie della penisola non sono propriamente immuni da turbolenze
interne: in Bahbrain la contestazione della maggioranza sciita contro il
monarca sunnita è stata momentaneamente tamponata dall’intervento armato
saudita; nella stessa Arabia Saudita dal 2011 si agita la minoranza sciita (il
10% della popolazione) per ottenere la fine delle discriminazioni a suo danno,
nella regione petrolifera di Qatif e Al-Hassa opera un movimento sciita che si
batte per l’indipendenza della zona e inoltre anche tra il 90% dei sudditi sunniti
esistono fermenti preoccupanti per la monarchia: settori giovanili in via di
forte politicizzazione che poco gradiscono che le ricchezze derivate dal petrolio
siano per lo più appannaggio di una mastodontica e parassitaria famiglia reale. Non
stupisce quindi che re Abdallah abbia motivato il sostegno al golpe di al-Sisi
(peraltro addetto militare dell’ambasciata in Arabia Saudita per alcuni anni)
con il sostegno alla «lotta al terrorismo, all’estremismo ed alla sedizione», e
che il principe Saud al-Faysal abbia accusato i Fratelli Musulmani di «aver
incendiato edifici pubblici, ammassato armi ed utilizzato donne e bambini come
scudi umani nel tentativo di guadagnare il favore dell’opinione pubblica».
Ma
questo non è sufficiente a dare una spiegazione completa, poiché sullo scacchiere
egiziano si gioca anche una partita contro il Qatar, che con il precedente
emiro Hamad bin Khalifa at-Thani (deposto il 25 giugno di quest’anno da un golpe di
palazzo patrocinato dagli Stati Uniti, e sostituito dal figlio, Tamim ben Hamad at-Thani) aveva sviluppato una politica del tutto autonoma e in concorrenza con
gli interessi della monarchia saudita e degli altri paesi della penisola,
altresì svolgendo un ruolo iperattivo nella crisi libica e come “protettore
politico ed economico del Presidente Morsi”. Nei
progetti del vecchio monarca del Qatar la Fratellanza Musulmana egiziana,
dotata di consistente consenso popolare, e con succursali al governo in altri
paesi arabi, appariva come una realtà idonea a diventare epicentro politico in
una vasta area dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente con cui era
opportuno instaurare proficui e solidi rapporti. Tanto più che il Qatar non
corre i rischi politici paventati dalle altre monarchie peninsulari a motivo
del fatto di avere una popolazione autoctona scarsissima (220.000 cittadini) e
del tutto spoliticizzata. La grande forza mediatica del Qatar nel mondo arabo
viene dall’emittente al-Jazeera (la
penisola), di cui non a caso i militari egiziani hanno chiuso la sede in
Egitto. Infine preoccupano le spregiudicate manovre qatariane a tutto campo:
con Israele, con Hamas, con Teheran, con gli Stati Uniti, con i talibani
afghani, ecc.
In
definitiva non ci sarebbe da stupirsi se il prossimo round toccasse alla
Fratellanza Musulmana della Tunisia.
Certo
è che tutti questi avvenimenti egiziani saranno visti con piacere dai monarchi
di Marocco e Giordania e da Bashar a-Assad, quanto meno per la speranza che l’attuale
sconfitta dei Fratelli musulmani in Egitto si propaghi – come un’onda d’urto –
nei loro paesi. Ancora una volta si deve aspettare
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