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martedì 24 settembre 2013

FUORILEGGE IN EGITTO I FRATELLI MUSULMANI, di Pier Francesco Zarcone

Un evento epocale e dalle conseguenze forse non imprevedibili
Il 23 settembre, i mezzi di informazione hanno dato notizia che la Corte del Cairo per le Questioni Urgenti – su istanza del partito di sinistra Tagammu - ha disposto la messo al bando della Fratellanza Musulmana, la chiusura di tutte le sue sedi e di “qualunque istituzione che ne derivi oppure riceva assistenza finanziaria da essa”, nonché “la confisca di tutti i soldi, beni e immobili del gruppo”, suggerendo che il governo crei una commissione indipendente per gestire il denaro della confraternita fino all’emissione di ordini appositi da parte della Corte.  Ancora non è stata resa nota la motivazione del grave provvedimento: si sa però che il ricorso di Tagammu accusava la Fratellanza di essere un gruppo terroristico che sfrutta la religione a fini politici. Per inciso, già in altri tribunali egiziani erano state depositate denunce similari. La predetta decisione della citata Corte cairota consente alle nuove(-vecchie) autorità egiziane di agire legalmente contro la rete della Fratellanza nel settore dei social media sferrando un pesantissimo colpo agli strumenti di sostegno di base della confraternita. Il legale della Fratellanza, ‘Ali Kamal, ha annunciato appello alla Corte superiore, e staremo a vedere.
Va intanto notato che anche in passato erano stati presentati ricorsi contro la Fratellanza sostenendosi che essa fosse priva dei requisiti legali sulle Organizzazioni Non-Governative. Le doglianze dovevano avere un qualche fondamento se a marzo di quest'anno, con Muhammed Morsi ancora Presidente, la Fratellanza aveva ottenuto lo status di associazione.
La decisione della Corte del Cairo era nell’aria, e in fondo può essere considerato un esito logico della deposizione di Morsi. Pur tuttavia si tratta di un provvedimento che sconvolge il quadro politico in Egitto e anche nel resto del mondo arabo. In Egitto si torna alla situazione dell’epoca nasseriana, quando la Fratellanza fu dichiarata fuorilegge e costretta a operare nella clandestinità per vari decenni. L’analogia però è solo formale. La grande differenza consiste nel fatto che la Fratellanza Musulmana di oggi era riuscita a vincere le elezioni politiche, portare alla Presidenza della Repubblica un suo uomo e, dopo la sua deposizione, riempire le piazze di propri sostenitori quantitativamente pari alle masse che avevano provocato l’intervento dei militari. In più nel mondo arabo oggi abbiamo che i nuclei locali della Fratellanza Musulmana sono al governo in Marocco, Tunisia, Giordania e Turchia (con Erdoğan & C), oltre a essere parte attiva nella guerra civile in Siria.
Gli Stati Uniti, che già avevano appoggiato la Fratellanza nella transizione del dopo-Mubarak ed erano stati colti contropiede dal golpe militare, subiscono un nuovo rovescio politico, giacché si erano assai spesi nelle raccomandazioni affinché – pur nella situazione creata da al-Sisi – alla Fratellanza non venisse tolto lo spazio politico e continuasse a svolgere un ruolo come soggetto della restauranda “democrazia” a venire.
La messa al bando dei Fratelli Musulmani non può certo essere considerata una mossa pacificatrice, tenuto conto del consenso di massa che avevano raccolto. Per cui non è improbabile che le faccia seguito un’ondata di terrorismo islamista, con quel che seguirà, oppure – e ancor peggio – una guerra civile del tipo che travagliò l’Algeria alla fine del secolo scorso. Non che in questi due casi i militari corrano il rischio di essere sconfitti, ma la società civile egiziana dovrà patire lacrime e sangue e l’instabilità politica si installerà (per chissà quanto tempo) in un paese fondamentale per tutto il mondo arabo, e in più strategicamente importante nello scacchiere internazionale.     

Cosa c’è dietro? O meglio: chi c’è dietro?
Poiché nei paesi arabi l’indipendenza della magistratura appartiene alla sfera del “dover essere”, e poiché non sembra sensato pensare che la decisione della Corte del Cairo – per il suo peso politico e per le conseguenze possibili – sia nata autarchicamente nella testa dei suoi membri, è ragionevole pensare che essa sia stata concertata con il nuovo governo e con i vertici militari, o comunque che da essi abbia ricevuto il placet necessario. Irrealistico, invece, è ritenere che abbia avuto l’appoggio anche degli Stati Uniti. Pur tuttavia non si può credere all’inesistenza di un appoggio esterno di un certo peso, e individuarne la provenienza non è difficile.
A questo punto una premessa si impone. Chi considera il mondo islamico essenzialmente dall’esterno ha l’impressione di un ambito religioso abbastanza monolitico, mentre così non è affatto. Per chi poi riesce a evitare l’identità “Islam=radicalismo politico-religioso” - propugnata dai media portavoce dello “scontro di civiltà” - ma giudica pur sempre dall’esterno, è ancora più difficile non vedere nel radicalismo islamico un blocco compatto. Ancora una volta si deve dire che la realtà è più complicata delle apparenze.
Tenuto conto della situazione globale del mondo arabo, scommettere che dietro la messa al bando della “casa-madre” egiziana della Fratellanza ci siano Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti vorrebbe dire giocare sul sicuro. Senza l’appoggio di questi Stati al-Sisi non sarebbe oggi il vero padrone dell’Egitto, e la cosa si spiega innanzi tutto con la forte ostilità dei governi di questi paesi verso la Fratellanza Musulmana. Un’ostilità “strana ma non troppo”. Ma si dirà: integralisti islamici sono i Fratelli Musulmani, e integralisti sono i governi saudita, kuwaitiano e degli Emirati; e allora perché si combattono? A questo punto va fatta, sul piano interpretativo, una considerazione di carattere generale.
Se è normale preoccuparsi per le affinità ideologiche fra soggetti che si collocano in un campo avverso, pur tuttavia non tutte (e non sempre) queste affinità comportano anche solidarietà di intenti. In definitiva, a incidere sono pur sempre gli interessi materiali: se sono contrastanti, allora le affinità ideologiche passano in terza linea, lasciando il campo libero a inimicizie degne di avversari ideologicamente antitetici. È proprio il nostro caso, al punto che ciò che sta accadendo in Egitto è anche considerabile l’indiretto benservito delle monarchie della Penisola araba. Ricordiamo che  il defunto principe ereditario saudita e ministro dell'Interno, Nayef, nel 2002 disse: “Lo ribadisco senza esitazione, che i nostri problemi, tutti, derivano dai Fratelli Musulmani”.
Se mettiamo da parte la connotazione integralista che accomuna tutti i soggetti in questione, non sfugge che la Fratellanza Musulmana (nelle sue varie sezioni locali) – pur non essendo portatrice di un progetto politico tale da rassicurare le opposizioni circa la possibilità di alternanza, e pur essendo discutibile l’effettività delle sue aperture sociali, al di là del profilo caritativo-assistenziale – certo non le è attribuibile l’orientamento favorevole alla monarchia assoluta e socialmente poco sensibile che invece impera nella penisola araba (Yemen a parte).
La Fratellanza Musulmana, appoggiata durante il periodo nasseriano cominciò a essere malvista nella penisola araba all’epoca dell’aggressione iraqena al Kuwait nel 1990. L’atteggiamento da essa assunto la fece accusare di appoggio a Saddam Hussein. Poi c’è stata la caduta di Mubarak: se in questo la Fratellanza praticamente non ha svolto nessun ruolo, tuttavia l’ha accolto favorevolmente e ne ha approfittato a beneficio proprio, mentre Mubarak era in stretti e buoni rapporti con l’Arabia Saudita, considerato da Riyadh un buon alleato. L’appoggio dato dagli Usa alla Fratellanza non ha migliorato gli umori dei monarchi arabi. I Fratelli Musulmani sono visti come un gruppo idoneo a installare nella penisola araba movimenti popolari di contestazione delle monarchie assolute, in quanto dotato di un potenziale rivoluzionario reso più pericoloso dalla sua impostazione religiosa. E difatti nella penisola araba i Fratelli Musulmani a centinaia si trovano nelle locali prigioni.
D’altro canto le monarchie della penisola non sono propriamente immuni da turbolenze interne: in Bahbrain la contestazione della maggioranza sciita contro il monarca sunnita è stata momentaneamente tamponata dall’intervento armato saudita; nella stessa Arabia Saudita dal 2011 si agita la minoranza sciita (il 10% della popolazione) per ottenere la fine delle discriminazioni a suo danno, nella regione petrolifera di Qatif e Al-Hassa opera un movimento sciita che si batte per l’indipendenza della zona e inoltre anche tra il 90% dei sudditi sunniti esistono fermenti preoccupanti per la monarchia: settori giovanili in via di forte politicizzazione che poco gradiscono che le ricchezze derivate dal petrolio siano per lo più appannaggio di una mastodontica e parassitaria famiglia reale. Non stupisce quindi che re Abdallah abbia motivato il sostegno al golpe di al-Sisi (peraltro addetto militare dell’ambasciata in Arabia Saudita per alcuni anni) con il sostegno alla «lotta al terrorismo, all’estremismo ed alla sedizione», e che il principe Saud al-Faysal abbia accusato i Fratelli Musulmani di «aver incendiato edifici pubblici, ammassato armi ed utilizzato donne e bambini come scudi umani nel tentativo di guadagnare il favore dell’opinione pubblica».  
Ma questo non è sufficiente a dare una spiegazione completa, poiché sullo scacchiere egiziano si gioca anche una partita contro il Qatar, che con il precedente emiro Hamad bin Khalifa at-Thani (deposto  il 25 giugno di quest’anno da un golpe di palazzo patrocinato dagli Stati Uniti, e sostituito dal figlio, Tamim ben Hamad at-Thani) aveva sviluppato una politica del tutto autonoma e in concorrenza con gli interessi della monarchia saudita e degli altri paesi della penisola, altresì svolgendo un ruolo iperattivo nella crisi libica e come “protettore politico ed economico del Presidente Morsi”.  Nei progetti del vecchio monarca del Qatar la Fratellanza Musulmana egiziana, dotata di consistente consenso popolare, e con succursali al governo in altri paesi arabi, appariva come una realtà idonea a diventare epicentro politico in una vasta area dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente con cui era opportuno instaurare proficui e solidi rapporti. Tanto più che il Qatar non corre i rischi politici paventati dalle altre monarchie peninsulari a motivo del fatto di avere una popolazione autoctona scarsissima (220.000 cittadini) e del tutto spoliticizzata. La grande forza mediatica del Qatar nel mondo arabo viene dall’emittente al-Jazeera (la penisola), di cui non a caso i militari egiziani hanno chiuso la sede in Egitto. Infine preoccupano le spregiudicate manovre qatariane a tutto campo: con Israele, con Hamas, con Teheran, con gli Stati Uniti, con i talibani afghani, ecc.
In definitiva non ci sarebbe da stupirsi se il prossimo round toccasse alla Fratellanza Musulmana della Tunisia.
Certo è che tutti questi avvenimenti egiziani saranno visti con piacere dai monarchi di Marocco e Giordania e da Bashar a-Assad, quanto meno per la speranza che l’attuale sconfitta dei Fratelli musulmani in Egitto si propaghi – come un’onda d’urto – nei loro paesi. Ancora una volta si deve aspettare

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