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domenica 22 settembre 2013

LE ARMI E LA MORTE, di Marcelo Colussi

Preferisco svegliarmi in un mondo in cui gli Stati Uniti
forniscano il cento per cento delle armi mondiali.
(Lincoln Bloomfield, funzionario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti)

I
Quando i nostri antenati scesero dagli alberi e cominciarono a camminare eretti sulle due gambe circa due milioni e mezzo di anni fa, per la prima volta nella storia fabbricarono un oggetto, un elemento che trascese la natura. Questo inizio dell'umanità fu dato, né più né meno, dall'ottenimento di una pietra affilata; in altri termini: un'arma. È allora contrassegnata da questo inizio la storia della nostra specie? Ci sono le armi all'origine stessa del fenomeno umano?
Sì, senza alcun dubbio. La violenza è umana, non si tratta di un "corpo estraneo" nella nostra costituzione. Ebbene: come siamo passati dall'aggressione necessaria per la sopravvivenza alla violenza umana, al disprezzo per l'altro, all'attuale industria della morte? Anche l'organizzazione attorno al potere è umana; gli animali, al di là dei loro meccanismi istintivi di sopravvivenza, non esercitano poteri. Noi sì. In questa dialettica (chi disse che un "bianco" vale più di un "negro", o che una donna è "meno" di un uomo?…, ma questa dialettica contrassegna le nostre relazioni), l'uso di qualcosa che aumenti la capacità di attacco è vitale. Lo fu sugli alberi, come necessità di assicurarsi la lotta per la sopravvivenza (la pietra affilata, il randello, la lancia), e continua a esserlo anche oggi. Ebbene: le armi attuali non sono in alcun modo al servizio della sopravvivenza biologica; le armi attuali, da quando sappiamo che la storia ha cessato di essere pura sopravvivenza in qualche caverna e nella costante lotta con l'ambiente naturale, allora le armi delle società di classe sono al servizio dell'esercizio del potere dominante, dalla più rustica spada fino alla bomba all'idrogeno.
Sigmund Freud in vecchiaia, come riflessione filosofica più che come formulazione di una pratica clinica, con la sapienza che può conferire tutta una vita di acuta meditazione, parlò di pulsione di morte: ritorno all'inanimato. Da qui che la psicoanalisi possa parlare di un malessere intrinseco a ogni formazione culturale, a ogni società: perché facciamo la guerra? Si potrà dire che l'organizzazione sociale strutturata attorno alle classi sociali porta inesorabilmente a ciò (e, pertanto, alla produzione di armi). Allora resta in piedi la domanda: perché l'essere umano ha costruito queste società stratificate e guerrafondaie e non, al contrario, organizzazioni orizzontali basate sulla solidarietà? Il socialismo è la proposta che punta a costruire queste alternative. Ci riusciremo? Sarà realizzabile quel che proponeva il subcomandante Marcos nel Chiapas «prendiamo le armi per costruire un mondo in cui non siano necessari gli eserciti», o la pulsione di morte ci trascinerà prima all'autodistruzione come specie?
Salvo pochissime, poche insignificanti armi fabbricate per la caccia, l'armamentario a disposizione degli esseri umani è destinato al mantenimento delle differenze di classe. Cioè a dire: gli esseri umani uccidono gli altri esseri umani per il mantenimento del potere, e basicamente per difendere la proprietà privata, per saccheggiare gli altri in nome dell'appropriazione privata. E anche per "risolvere" conflitti quotidiani. Gli sconclusionati che qualche volta, armi alla mano, uccidono altri simili, come di frequente accade negli Stati Uniti, non costituiscono il modello dominante. Le armi sono per altri fini: si fabbrica un carro armato o una mina antipersona per cacciare ciò che poi mangeremo? Ovviamente no.
Contrariamente all'illusione che - per errore o malafede - presenta le armi come garanzia di sicurezza, è invece evidente la funzione da esse realmente svolta nella dinamica sociale: sono il prolungamento artificiale della nostra violenza. Da cosa siamo al sicuro avendo delle armi? A ucciderci, mutilare, terrorizzare, lasciare tracce psicologiche negative e impedire sviluppi più armonici delle società sono proprio le armi. Ovvero, detto diversamente, siamo esseri umani che fanno tutto ciò avvalendosi di quegli strumenti che chiamiamo armi, da una pistola fino a un sottomarino con carica nucleare.
Ma le armi non posseggono vita propria, è chiaro. In realtà sono l'espressione mortifera delle differenze ingiuste che popolano la vita umana, della conflittualità che definisce la nostra condizione. Sono gli esseri umani che le hanno inventate e perfezionate, e che con la logica del mercato come asse della vita sociale, le concepiscono come una mercanzia in più (e vai con la merce!).
E siamo noi - gli esseri umani organizzati in società classiste profondamente contrassegnate dall'affanno per il lucro economico individuale imposto negli ultimi secoli dal capitalismo dominante - a trasformare il commercio delle armi (il che equivale a dire: commercio della morte) in uno dei più lucrativi del mondo moderno, più del petrolio, dell'acciaio o delle comunicazioni.

II
Quando oggi parliamo di "armi" ci riferiamo all'esteso universo delle armi da fuoco (quelle che utilizzano l'esplosione della polvere per provocare lo sparo di un proiettile), che comprende una varietà enorme che va dalle cosiddette piccole armi (revolver e pistole - le più comuni - fucili, carabine, mitragliette, fucili d'assalto, mitragliatrici leggere, schioppi), alle armi leggere (mitragliatrici pesanti, granate a mano, lancia-granate, missili antiaerei portatili, cannoni senza rinculo, bazooka, mortai con meno di 100 mm.), a quelle pesanti (cannoni con enorme diversità di proiettili, bombe, esplosivi vari, missili aerei, proiettili all'uranio impoverito), e ai mezzi per il trasporto e l'operatività (aerei, navi, sottomarini, carri da guerra, missili), aggiungendo a ciò le mine antipersona, le mine anticarro, tutto ciò che costituisce il cosiddetto armamento convenzionale. Vanno pure aggiunte le armi di distruzione di massa, dal potere letale sempre maggiore: armi chimiche (agenti neurotossici, agenti irritanti, agenti asfissianti, agenti sul sangue, tossine, gas lacrimogeni, prodotti psicochimici), armi biologiche (portatrici di peste, febbre aftosa, antrace), armi nucleari (con capacità di cancellare ogni specie di vita nel pianeta).
Stante una tale ampiezza di definizione, se oggi i tecnici della guerra possono parlare di una "guerra di quarta generazione" senza spargimento di sangue, ma conflitto dai risultati ancor più promettenti per il vincitore rispetto a tutte le armi che provocano morte e distruzione, allora bisognerà far rientrare l'enorme batteria di strumenti che permettono questa guerra "nelle menti", guerra mediatica e psicologica. Fanno parte di questo arsenale anche i mezzi di comunicazione nella loro amplissima gamma? In qualche modo, sì: computer, Internet, televisori e telefoni intelligenti sono "armi" che non servono per uccidere, bensì per neutralizzare il nemico. Il tema è complesso, e almeno lasciamolo in sospeso. Come siamo arrivati a una guerra "senza spargimento di sangue" ma più vittoriosa di qualunque invasione militare?
Tutto questo insieme di macchine della morte in qualche modo favorisce la sicurezza; ma per contro costituisce un rischio per l'umanità. Il mito della pistola personale per evitare assalti e conferire una sensazione di sicurezza è solo questo: un mito. Nelle mani della popolazione civile, molto di rado serve a evitare attacchi; in genere causano solo incidenti domestici. E nelle mani dei corpi statali detentori del monopolio della violenza armata i crescenti arsenali - sempre più ampi e mortiferi - non garantiscono un mondo più sicuro, ma al contrario fanno vedere come possibile l'estinzione dell'umanità (l'utilizzazione di tutto il potenziale bellico atomico di cui attualmente dispongono le forze armate, l'onda espansiva arriverebbe fino all'orbita di Plutone, facendo frammentare completamente il pianeta Terra, e nonostante questo straordinario potere di dissuasione non siamo più al sicuro, ma anzi è il contrario). Perché i missili nucleari statunitensi sarebbero "buoni" (pacifici?) e quelli della Corea del Nord o dell'Iran no?
Nonostante la quantità di vite accecate e l'immenso dolore prodotti da questi marchingegni infernali inventati dalla specie umana, la tendenza va nel senso del continuo aumento della loro produzione e verso il perfezionamento della loro capacità distruttiva. Stando così le cose, non si può fare a meno di dire che il commercio della morte cresce. Cresce, e di molto, perché è redditizio. Si comprende allora il senso della citata tesi freudiana?

III
Il commercio delle armi è diverso da ogni altro. Per la sua relazione con la sicurezza nazionale e la politica estera di ogni paese, si svolge in un ambito altamente segreto e il controllo su di esso non è regolato dall'Organizzazione Mondiale del Commercio, bensì dai vari governi. In genere - ed è questo a preoccupare - i governi non sempre sono disposti a controllare le vendite di armi in modo responsabile o non sono capaci di farlo. Di modo che è più frequente che le legislazioni nazionali in materia, laddove esistono, siano inadeguate e con la piaga dei buchi normativi. Inoltre, i meccanismi esistenti non sono obbligatori e si applicano appena. Chi fra quanti ora stiano leggendo questo testo conosce nel dettaglio di quante e quali armi dispone il governo del paese in cui vive? Ne è stato informato qualche volta? E ancor meno: qualche volta è stato consultato al riguardo?
Il commercio delle armi non è trasparente. Per non essere di conoscenza pubblica, si svolge con estrema cautela senza essere soggetto ad alcuna fiscalizzazione. Per questo le diverse iniziative internazionali dopo la Guerra Fredda per il controllo delle relative transazioni sono risultate inutili. Gli interessi economici e politici e per la sicurezza rendono misterioso e pericoloso questo settore, intoccabile in definitiva.
Dall'anno 1998 le spese per le armi hanno cominciato una tendenza al rialzo dopo essere arrivate al livello più basso dopo la Guerra Fredda. Nel 2000 furono di circa 798.000 milioni di dollari (25.000 al secondo; a partire da lì cominciarono ad elevarsi in modo accelerato e la febbre antiterrorista scatenata dall'11 settembre 2001 ha catapultato queste spese in modo spettacolare, sorpassando ampiamente il bilione di dollari l'anno. Oggigiorno tali spese costituiscono l'ambito commerciale di gran lunga più redditizio fra tutti gli altri, quello che muove i maggiori volumi di denaro e che più rapidamente cresce in termini di ricerca scientifica e tecnica.
Nel campo delle armi tutto è negozio, sia fabbricare un sottomarino nucleare sia una pistola. Anche le cosiddette piccole armi, con un potere di fuoco più basso delle tante altre che arrivano al mercato, costituiscono un filone particolarmente redditizio. Più di 70 paesi al mondo fabbricano piccole armi e le loro munizioni, e non mancano mai i compratori, sia governi sia persone singole (fondamentalmente maschi). Le vendite dirette di piccole armi (pistole, revolver e fucili d'assalto) a governi ed entità private corrispondono al 12% delle vendite totali di armi in tutto il pianeta. Il resto è fornito - astuzie della ragione o burle della storia?, direbbe Hegel - dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, cioè coloro che si incaricano (si incaricano?) della pace e sicurezza del mondo: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina. Gli Stati Uniti sono in atto i principali produttori e venditori mondiali di armamenti, di ogni tipo, con un 50% del volume generale delle vendite (sebbene il sogno di più di un funzionario di Washington, come dice la nostra epigrafe, consista nell'aumentare questa percentuale).
Prima di tutto: che fare? Compriamo una pistola per difenderci? Fare appello a campagne di disarmo e astensione dall'uso di armi, almeno di quelle piccole (pistole e revolver), è lodevole. Ma vediamo che ciò non riesce a contenere la crescita di un commercio poderosissimo. Fare appello alla buona coscienza e alla crescita della non violenza è solo una buona intenzione, ma difficilmente riesce a farla finita con le armi. Con questo tratterremo il potere quasi illimitato delle multinazionali come Lockheed Martin, Raytheon, IBM, General Motors?, o di governi che basano le loro strategie di sviluppo nazionale sul commercio delle armi? Ogni nuova guerra che comincia (e di continuo ne inizia una) risponde a fredde strategie mercantili pensate in asettici termini commerciali. Pulsione di morte o no?

IV
La lotta contro la proliferazioni delle armi è eminentemente politica: si tratta di cambiare rapporti di potere. Non è possibile che i mercanti di morte maneggino il destino umano. Non è possibile…, ma accade. È questo che marca la dinamica internazionale. Ebbene: dato che è così, confidando che un altro mondo sia possibile, che le utopie sono possibili, dobbiamo stabilire delle alternative. Naturalmente l'essere umano, sprovvisto di ali, non vola. Ma grazie al nostro incommensurabile desiderio di risultati ormai arriviamo al pianeta Marte! Né ci si ferma. Ogni volta, senza ali proprie, voliamo più lontano. Porsi delle utopie è ciò che ci fa camminare (o volare…, se del caso). Come diceva un a memorabile scritta del Maggio francese del '68: «Siamo realisti. Chiediamo l'impossibile».
Oggigiorno la produzione di armi non è un affare marginale, legato a circuiti delinquenziali che si muovono nell'ombra: è il principale settore economico dell'umanità. E come conseguenza significa che ogni minuto muoiono due persone nel mondo per l'uso di un qualche tipo di armi (quasi 3.000 al giorno, mentre il sempre mal definito e impreciso "terrorismo" internazionale, se parliamo in termini statistici, causa 11 decessi al giorno). Smontare questa tendenza umana all'uso delle armi appare un'impresa titanica, quasi impossibile: vuol dire farla finita con la violenza, con le ingiustizie. E qui la riflessione freudiana riscuote significato, in quanto ci permette di vedere le dimensioni monumentali di quel che è in gioco. Si tratta di lottare contro la nostra natura? Come procedere contro questa energia primaria, originaria?
Che la morte sia un destino ineluttabile, anche un dato naturalmente radicato, è un'elucubrazione. Forse sì (è un'ipotesi teorica, e come tale può servire per spiegare il mondo. O forse no, e c'è da respingerla); forse sì, diciamo, e la distruzione completa del pianeta ci aspetta oltre l'angolo per mezzo della catastrofe termonucleare che potrebbe realizzarsi. Si suppone che siamo "molto" razionali, per quanto non si sappia quale "pazzo" possa dare l'ordine di lanciare il primo attacco nucleare. Non potrebbero esserci errori? Le azioni sbagliate (spingere un bottone per errore, ad esempio) sono normali nella nostra specie. Ma nonostante il fatto che la grandezza dell'impegno proposto possa essere titanica, è assolutamente vitale proseguirla come requisito per la permanenza della specie, e per una permanenza più degna. Forse è impossibile porre fine alla violenza come condizione umana, per quanto si educhi alla convivenza tollerante. I paesi più "educati" sono quelli che più fanno guerre, e con le armi più letali. Ma è imprescindibile continuare la lotta contro le ingiustizie e avere di mira una convivenza solidale. Il contrario vorrebbe dire avallare il darwinismo sociale e la sopravvivenza del più forte.
Progettare "la possibilità di un altro mondo" non significa che terminerà la conflittualità, che vivremo in un paradiso bucolico libero dalle contraddizioni e che l'amore senza limiti si spargerà generoso su tutti gli abitanti del pianeta (qualcuno ci crederà ancora?). Ma si mette l'allerta sul fatto che è necessario puntare verso una società che provi vergogna e pertanto reagisca di fronte al negozio della morte. La causa della giustizia non può accettare la morte come business. O sì? Trionferà alla fine la pulsione di morte? Scommettiamo con fermezza sulla possibilità di cambiamento del corso della storia. Se possiamo arrivare al pianeta Marte e liberare l'energia dell'atomo, o addomesticarci e cessare di essere animali, non sarà possibile darci un punto fermo nel proseguire ad ammazzarci?

[traduzione dal castigliano di Pier Francesco Zarcone]

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