Cronista del disastro sovietico
Il destino di Serge era ormai segnato. Costantemente sorvegliato dalla polizia segreta, il nostro ridusse al minimo l'attività politica. Viveva di traduzioni malpagate, cercando di proteggere il figlio e la moglie che, a poco a poco, stava perdendo la ragione. Un giorno, mentre si riprendeva da una grave malattia, ebbe una visione. A un tratto le sue attività precedenti gli parvero futili e sentì l'urgenza di scrivere romanzi, non tanto per parlare di sé, quanto per dar voce agli uomini straordinari che aveva conosciuto. «Concepisco la letteratura come un mezzo di espressione e di comunione tra gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi di coloro i quali vogliono trasformare la società. Dire ciò che si è, ciò che si vuole, ciò che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, cade, conquista». Altrove aggiunge: «È importante lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la testimonianza rimanga».
Conobbe allora una doppia risurrezione: fisica e spirituale. Tutto lo spingeva alla letteratura: la formazione famigliare, l'enorme talento, una vita romanzesca. Il momento non poteva essere peggiore: i grandi scrittori tacevano, si toglievano la vita (Esenin, Majakovskij) o erano imprigionati. Serge sapeva che in Unione Sovietica non gli avrebbero pubblicato neppure una riga, ma poteva scrivere in francese e mandare i suoi testi agli amici di Parigi che avrebbero trovato la maniera di diffonderli.
La sua produzione fu prodigiosa. L'originalità di questa narrativa consisteva nel rompere i canoni dell'autobiografia tradizionale, incentrata sull'epopea dell'individuo, raccontando l'io collettivo che emerge dalle tormente rivoluzionarie, senza temere di esibirne le contraddizioni: «Ricordare, fissare, comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non è unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici, affinità e contaminazioni (la maggior parte delle quali non si possono esprimere razionalmente) con altri uomini, la terra, gli esseri, il Tutto. Scrivere diventa allora la ricerca di una polipersonalità, una maniera di vivere molti destini, di penetrare l'altro, di comunicare con lui».
L'idea di «polipersonalità» è la chiave di volta dell'opera che presentiamo. Un'opera - bisogna ripeterlo - non autobiografica, bensì testimoniale. Serge parla come partecipe di eventi storici e non come narratore introspettivo. Raramente, di fatto, allude a se stesso. È vero che il suo spirito libertario entra sovente in contraddizione con la fedeltà al bolscevismo. Jean-Luc Sahagian, di simpatie anarchiche, ha pubblicato Victor Serge, l'homme double, un libro in cui lo taccia di doppiezza. L'accusa è profondamente ingiusta, perché il nostro Autore pagò pesantemente le proprie scelte.
Trasformate in letteratura, le innegabili contraddizioni politiche di Serge ci fanno capire come un sincero rivoluzionario possa trasformarsi in un crudele assassino, come per esempio l'agente della Čeka descritto in Ville conquise. Inoltre, diversamente che in altri scrittori, queste contraddizioni non sono occultate, bensì trasformate nell'asse portante di una letteratura in cui i personaggi non riflettono preoccupazioni ideologiche e neppure certezze politiche, ma le passioni, i dubbi, gli slanci e gli sconforti di esseri umani trovatisi ad agire in una situazione che a poco a poco sfugge loro di mano.
Serge riesce a mettere in scena la tragedia rivoluzionaria in tutta la sua potenza, ma anche nella sua crudezza e senza camuffamenti. E tuttavia non è un Autore disincantato. È quindi distante da un Koestler e da un Malraux, prossimo piuttosto a un Orwell ed a un Silone. È un Autore colto e allo stesso tempo accessibile. Nelle sue pagine, oltre all'influenza dei grandi romanzieri russi, di Dostoevskij in primo luogo, e di Vallès, il cantore della Comune, si percepiscono gli echi di Joyce, Dos Passos e Proust, come anche della «letteratura proletaria», la corrente lanciata negli anni Venti da Henry Poulaille.
Frattanto la situazione in Urss precipitava. L'8 marzo 1933 Victor Serge fu nuovamente arrestato e, dopo tre mesi alla Lubjanka, deportato a Orenburg, una città prossima agli Urali, antisala politico-geografica del Gulag. Accompagnato dal figlio Vlady e da Ljuba (la quale presto tornerà a Leningrado per dare alla luce la seconda figlia, Jeannine, che oggi vive a Città del Messico), egli si unì a una confraternita di proscritti, fra i quali vigevano rapporti di solidarietà e comunione spirituale. Nell'arcipelago totalitario Orenburg era un'isola tranquilla: condizioni di precarietà e penuria (Vlady si ammalò di scorbuto), ma poche persecuzioni.
Nel 1935 Serge ricevette la visita di Francesco Ghezzi, un militante dell'Unione sindacale italiana (Usi) fuggito in Russia, che percorse duemila chilometri per informarlo sul «Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura» parigino. In quella sede, con grande scandalo della delegazione sovietica, alcuni valorosi, tra cui Gaetano Salvemini, sollevarono la questione della sua libertà.
Grazie anche all'interessamento del più noto «compagno di strada» dello stalinismo, lo scrittore Romain Rolland, i Kibal'čič poterono lasciare l'Unione Sovietica. Nel loro lungo viaggio, a Mosca, incrociarono Ghezzi, ancora libero benché per poco. Infine, il 17 aprile 1936, dopo aver attraversato Polonia e Germania, arrivarono a Bruxelles, accolti da Nikolaj Lazarevič, anch'egli scampato alle prigioni sovietiche.
Victor riuscì, con molta difficoltà, ad aprirsi uno spazio sulle pagine di un quotidiano socialista di Liegi, La Wallonie, dove tra il giugno 1936 e il maggio 1940 pubblicò oltre duecento articoli, scrivendo di Unione Sovietica, Spagna, antisemitismo, Germania, Austria, solidarietà internazionale, arte e di tanti altri argomenti, che testimoniano della vastità dei suoi interessi. Riallacciò i rapporti epistolari con Trotsky, allora esiliato in Norvegia; tuttavia, per quanto serbasse profondi sentimenti di ammirazione e affetto nei suoi confronti, era lontanissimo dal suo dogmatismo. Inevitabile, la rottura si produsse in occasione del dibattito sul massacro di Kronštadt, che il nostro Autore definiva un tragico errore e che il fondatore dell'Armata rossa rivendicava invece senza esitazioni.
Il 19 luglio 1936 scoppiò la Rivoluzione spagnola, presto seguita dal primo dei «grandi processi» di Mosca, destinato a terminare con l'esecuzione dei «sedici», tra i quali Zinov'ev e Kamenev. In dicembre Serge divenne corrispondente dell'organo del Poum, La Batalla, denunciando dalle sue colonne il pericolo mortale rappresentato dall'intervento sovietico in Spagna. Apertamente boicottato dalla stampa comunista, messo al bando da quella trotskista, considerato con sospetto da quella anarchica, si trovava adesso più solo che mai.
Non smise di lottare. Collaborò intensamente con il «Comité pour l'enquête sur le procès de Moscou et pour la défense de la liberté d'opinion dans la révolution» recandosi clandestinamente a Parigi e, per via epistolare, con la «Commissione Dewey», che si riuniva in Messico per difendere Trotsky dall'accusa, tanto infamante quanto assurda, di essere un agente del nazismo. In meno di un anno pubblicò tre libri: 16 fusillés, De Lénine à Staline e Destin d'une Révolution. Il primo è un esame dettagliato dei documenti ufficiali del processo di Mosca, che ne smonta il meccanismo. Il secondo presenta uno schizzo storico dei vent'anni trascorsi dall'Ottobre rosso, chiarendo che delle conquiste rivoluzionarie non rimaneva ormai più nulla. Il terzo è uno studio della vita sociale, economica e culturale sovietica, nonché una delle prime descrizioni dell'universo concentrazionario.
Le condizioni materiali continuavano a essere difficili. Le traduzioni e le collaborazioni giornalistiche erano pagate poco e la situazione restava giuridicamente precaria. Privati della cittadinanza sovietica, i Kibal'čič erano andati a ingrossare le fila dei paria che vagavano per il mondo in cerca di un visto. Nell'aprile 1937 ottennero finalmente il permesso di risiedere in Francia, però nel frattempo la situazione psichica di Ljuba si era aggravata. Ormai distrutta, la donna passava da una crisi all'altra, fino ad essere ricoverata in una clinica dove sarebbe morta nel 1983, senza essere mai riemersa dagli abissi della follia. Ricordiamo il tragico destino della famiglia Rusakov: la moglie di Aleksandr, Olga, e due figli, Joseph ed Esther, scomparsi nel Gulag, mentre altri due, Anita e Paul Marcel, vi trascorsero una ventina d'anni.
A Parigi, Serge si trovava esposto agli intrighi della Gpu e sfiorò la morte in varie occasioni. Nonostante gli affanni e le incombenze famigliari riuscì a portare avanti il suo ciclo romanzesco pubblicando S'il est minuit dans le siècle, appassionato omaggio ai deportati di Orenburg - che sarebbero tutti scomparsi nel Gulag - nonché una biografia di Stalin, dove descriveva lo smisurato potere del dittatore sovietico. Nel 1938 pubblicò una raccolta di poesie.
Ritornò alla riflessione sulle sue radici anarchiche. La sua Méditation sur l'anarchie offre una commovente ricostruzione delle vicende legate alla «banda Bonnot» (poi ripresa nelle Mémoires), mentre La pensée anarchiste abbozza uno schizzo storico del pensiero libertario. È vero che non risparmiava le critiche - «gli scritti anarchici procurano una singolare impressione di intelligenza ingenua, energia morale, fede e, diciamolo pure, accecamento» - però difendeva la forza etica dell'anarchismo, ammettendo implicitamente i propri errori del passato col definire Nestor Machno «una delle figure più notevoli della Rivoluzione russa».
L'ultimo rifugio di un rivoluzionario
Il 15 giugno 1940 Parigi sprofondava nell'inferno dell'occupazione nazista. Serge riparò a Marsiglia, dove ritrovò Volin, André Breton, Benjamin Péret, Wilfredo Lam, Jean Malaquais, Remedios Varo e tanti altri che fuggivano dalla «peste bruna». Quindici mesi dopo, al termine di un tormentato viaggio - iniziato a Casablanca - attraverso Martinica, Santo Domingo, Cuba e lo Yucatán, giunse a Città del Messico accompagnato dall'inseparabile Vlady. Ormai grigio di capelli e un po' appesantito, dimostrava allora qualcosa in più dei suoi quasi cinquantun'anni. Una forza tranquilla, una grande integrità e una certa stanchezza emanavano dal profondo dei suoi occhi color ambra. L'apparente opulenza, i locali notturni e le luci sfavillanti sconcertavano chi arrivava da un'Europa di guerra e carestia. Serge, però, capì rapidamente che il Messico era «un Paese a due piani, senza classe media: sopra la società del dollaro, sotto la miseria dell'indio».
Le Mémoires finiscono qui, ma la storia prosegue. In Messico Victor Serge visse gli anni più produttivi della sua vita. In primo luogo completò le Mémoires incominciate in Francia e, come si è detto, pubblicate postume da Vlady. Inoltre portò a termine tre romanzi: L'affaire Toulaév, scritto «sulle strade del mondo», dove narra gli intrighi dei processi di Mosca e della guerra di Spagna; Les Derniers Temps, sulla débâcle della Francia nel 1940; Les Années sans pardon, ambientato a Parigi e in Messico, dove, secondo la definizione di Vlady, l'etica si trasforma in estetica.
L'anno scorso, ad Amecameca, sulle pendici del vulcano Popocatépetl, ho trovato parecchi manoscritti inediti nell'archivio dell'archeologa Laurette Séjourné, pseudonimo dell'italiana Laura Valentini, la sua ultima compagna, deceduta molto anziana nel 2003. Tra questi materiali spicca un voluminoso diario, che si può considerare la continuazione delle Mémoires e che sta per essere pubblicato dalla casa editrice Agone di Marsiglia con il titolo di Carnets, riprendendo quello di un'edizione anteriore, incompleta.
Questo diario e la corrispondenza (oltre novecento lettere) mostrano che in Messico Serge moltiplicò straordinariamente i suoi già vasti interessi intellettuali. Insieme ad altri esiliati antitotalitari dette vita al gruppo Socialismo y Libertad, che pubblicava una rivista di notevole qualità anche se sconosciuta, Mundo. Mantenne contatti intensi con i personaggi più disparati: il poeta Octavio Paz, lo scrittore Gustav Regler, il filosofo Emmanuel Mounier, la socialista Angelica Balabanoff, lo psicoanalista Bruno Bettelheim, il marxista consiliare Paul Mattick, l'anarchico Augustin Souchy, l'ex ministro della Difesa della Repubblica spagnola Indalecio Prieto, la libertaria russa Mollie Steimer… Ho trovato anche una lettera a Rirette Maîtrejean, l'amore di gioventù.
Leggeva di tutto. S'interessò di arte (molte le annotazioni su Diego Rivera e i surrealisti), filosofia (importanti gli appunti su Adorno, allora pressoché sconosciuto), letteratura, cinema e storia delle religioni. Scrisse decine di articoli sull'Unione Sovietica e sulla guerra. Pubblicò Hitler contra Stalin, un libro sull'invasione nazista dell'Urss che esiste solo in spagnolo, e ne scrisse due rimasti inediti, uno sul militarismo giapponese e l'altro sulle civiltà indigene mesoamericane.
Le cronache dei suoi viaggi in Messico (Oaxaca, Michoacán, Cuernavaca, Acapulco) trasmettono le impressioni di un consumato antropologo, senza perdere la freschezza del bravo giornalista e la profondità dell'analista politico. Grazie all'amicizia con Fritz Fränkel, uno psichiatra tedesco già organizzatore in Spagna del servizio sanitario delle Brigate internazionali e poi passato all'opposizione, riprese lo studio della psicologia, ancora una volta con l'idea di spiegare e spiegarsi il fallimento della rivoluzione.
La fine giunse inaspettata. Morì su un taxi, da solo, dopo un appuntamento mancato con Vlady, al quale voleva far leggere il suo ultimo poema, Mains. Ecco la testimonianza di Julián Gorkin:
«Lo trovammo a mezzanotte passata, steso in una stanza spoglia dalle pareti grigie. Aveva le scarpe bucate con la suola completamente logora e una camicia da operaio. Un nastro di tela gli chiudeva la bocca, quella bocca che nessun tiranno era riuscito a far tacere. Sembrava un vagabondo raccolto per pietà. E non era forse stato l'eterno vagabondo della vita e di un ideale? Il suo volto esprimeva un'amara ironia, un sentimento di protesta, l'ultima protesta di Victor Serge, l'uomo che per tutta la vita aveva protestato contro le ingiustizie umane».
Attacco cardiaco, secondo il certificato medico. Avvelenamento? Probabilmente no, visto che soffriva di cuore; però Vlady rimase tutta la vita con il dubbio: per eliminare gli oppositori la Gpu usava infatti potenti veleni che non lasciano tracce.
Victor Serge, il vagabondo geniale, lo scrittore russo di lingua francese nato in Belgio, riposa nel cimitero spagnolo di Città del Messico. La sua eredità spirituale s'innalza oltre le nubi che oscurano il nostro tempo.
Città del Messico, 3 maggio 2012