In ricordo di Vladimir Kibal'čič (1920-2005),
meglio conosciuto come Vlady,
che dipinse le ossessioni di suo padre,
Viktor Kibal'čič (1890-1947),
meglio conosciuto come Victor Serge.
meglio conosciuto come Vlady,
che dipinse le ossessioni di suo padre,
Viktor Kibal'čič (1890-1947),
meglio conosciuto come Victor Serge.
Victor Serge nei primi anni '20 |
A oltre sessant'anni dalla prima edizione, pubblicata a Parigi nel 1951, le Mémoires d'un révolutionnaire hanno superato la prova del tempo. Ecco un testo indispensabile per capire la tragedia delle rivoluzioni sconfitte che è, al tempo stesso, un classico della letteratura e una commovente testimonianza umana. Fin dalle prime pagine, quando emerge quel «mondo senza evasione possibile, dove l'unico rimedio era lottare per un'evasione impossibile», le tappe del dramma si succedono in un ordine implacabile. Il finale era implicito nel principio? Serge crede di no e non accetta il ruolo di vittima: «Una necessità che assomiglia alla complicità - annota - lega frequentemente la vittima al torturatore, il martire al carnefice». Come Nietzsche, sua passione di gioventù, e come Benjamin, che conobbe di sfuggita, l'Autore esprime la necessità di tornare al passato per raccoglierne l'eredità e le speranze perdute. La parola «destino», da lui spesso usata, non implica la fatalità, né esclude la volontà. Quando parla di «noi» non annulla l'individuo, ma si riferisce a un «io» molteplice e collettivo che riassume le passioni e le speranze della sua generazione, oltre ogni espressione di parte. Il risultato è una scrittura polifonica, volta a riscattare la «memoria di mondi perduti», come recitava il titolo originale pensato da Serge, troppo modesto per arrogarsi l'attributo di «rivoluzionario». Alla fine il libro fu pubblicato postumo con il titolo scelto da suo figlio Vlady, autore del magnifico quadro che figura in copertina dell'edizione curata dal mio vecchio amico Roberto Massari.
Le radici libertarie
Scrittore francese di sangue e russo di spirito, romanziere, poeta, storico, giornalista e traduttore, Viktor-Napoléon L'vovič Kibal'čič - alias Victor Serge, Le Rétif, Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Viktor Klein, Aleksej Berlowskij, Sergo, Siegfried, Gottlieb, V. Poderewskij e qualche altro pseudonimo - nacque in esilio, a Bruxelles, il 30 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della Belle Époque, l'esaltazione comunista degli anni Venti e l'incubo totalitario della «mezzanotte del secolo». Attraversò le correnti più importanti del movimento operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l'individualismo, l'anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotskismo, senza mai abbandonare una spiccata sensibilità libertaria. Trascorse una decina d'anni di prigionia in diversi paesi, partecipò a tre rivoluzioni - la spagnola (1917), la russa (1919-20) e la tedesca (1923) - e fu attivo anche in Belgio, Francia, Austria e Messico. Sopravvisse al Gulag e alla barbarie nazista, e fu tra i primi a qualificare l'Urss come un regime totalitario.
Autore di culto, benché quasi sconosciuto al grande pubblico, non sviluppò un sistema dottrinale né lasciò una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale nel senso tradizionale; in ogni tappa critica cercò di dare alle esigenze dello spirito uno sbocco nell'azione. La sua attualità risiede nella riflessione traboccante, letteraria e poetica ancor più che teorica sulla tragedia di una rivoluzione che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che dedicò a questo tema mantenne la freddezza dell'analista distaccato conservando, al contempo, la passione militante e la certezza di un avvenire migliore.
È impossibile avvicinarsi all'opera di Victor Serge senza evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia poverissima, cominciò a guadagnarsi la vita a quindici anni. Fu, in ordine successivo, apprendista fotografo, fattorino, gasista, disegnatore tecnico, tipografo, traduttore, giornalista e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico Nikolaj Kibal'čič, era stato l'esperto in esplosivi di Narodnaja Volja (Volontà del Popolo), la famosa organizzazione rivoluzionaria erede del populismo, che vedeva nella comune rurale russa (il mir) la possibilità di costruire un socialismo contadino. In casa Kibal'čič la poesia sostituiva la preghiera e si narravano storie di attentati, processi e fughe dalla Siberia, in un'atmosfera analoga a quella dei romanzi di Dostoevskij, Černyševskij e Turgenev. Nei tanti alloggi di fortuna poteva mancare il pane, ma vi era sempre un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime della repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert, il fratellino minore, morì di fame e, anni dopo, la madre Vera finì stroncata dalla tubercolosi, la malattia dei poveri.
Da quei genitori atipici che lo colmarono d'affetto, senza mandarlo a scuola, Victor ereditò il raro dono della coscienza sociale, un'insaziabile curiosità intellettuale e una grande indipendenza di spirito. Il padre Lev, che si rifaceva all'evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la cultura scientifica e materialista del suo tempo, mentre Vera, donna di grande sensibilità e raffinatezza, lo iniziò alla poesia e alla letteratura universali. A ciò bisogna aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli di studio, pubblicazioni sindacali, feuilletons, opere di divulgazione scientifica e tutto l'arsenale caratteristico della cultura popolare dell'epoca.
Le prime esperienze militanti, descritte all'inizio delle Mémoires, sono legate all'amicizia con alcuni giovani proletari insieme ai quali aderì al Parti ouvrier belge (Pob), entrando però ben presto in conflitto con gli interessi meschini che vi regnavano. La lettura di Ai giovani di Kropotkin li spinse a cercare contatti con il movimento anarchico, e in particolare con la colonia libertaria «L'Expérience» a Stockel, nei pressi di Bruxelles. È in questo ambiente che Victor maturò quella sensibilità libertaria che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. L'anarchismo lo conquistò perché, a differenza del socialismo, esigeva l'accordo fra gli atti e le parole.
Parigi lo attraeva. Non la Parigi degl'intellettuali e del glamour, ma la Parigi della Comune, la capitale delle rivoluzioni europee. Vi arrivò non ancora ventenne trovando impiego come disegnatore industriale, e si unì ad Anna Henriette Estorges, alias Rirette Maîtrejean, giovane collaboratrice de l'anarchie (con la «a» minuscola), il giornale fondato da Albert Libertad che proclamava un individualismo radicale nemico non solo del vecchio militantismo sacrificale, ma anche del nascente sindacalismo rivoluzionario. Victor pubblicava articoli incendiari sotto lo pseudonimo di Le Rétif («Il Refrattario»), affermando che per fare la rivoluzione non è sufficiente essere sfruttati, bisogna rifiutare coscientemente la servitù volontaria.
Nel frattempo alcuni suoi amici avevano deciso di passare all'azione. Le Rétif difendeva la legittimità della rivolta, ma si opponeva alla violenza cieca e risentita. L'arrivo a Parigi del meccanico lionese Jules Bonnot segnò l'inizio di una stagione di follia eroica. Il dramma ebbe inizio il 21 dicembre 1911 con la rapina alla banca «Société Générale» e terminò qualche mese dopo con la morte in combattimento di Bonnot e di alcuni suoi sodali, la ghigliottina per altri, la condanna ai lavori forzati per altri ancora… Victor fu arrestato il 31 gennaio 1912 con l'accusa iniziale di ricettazione d'armi. Al processo cercarono di presentarlo come il «cervello» della banda. Era una falsità e la manovra fallì; nondimeno fu condannato a cinque anni di prigione, che avrebbe scontato fino all'ultimo giorno. La sua colpa? Non volersi trasformare in delatore.
Un bolscevico affatto particolare
Alla scarcerazione, il 31 gennaio 1917, Le Rétif venne espulso dalla Francia e si rifugiò a Barcellona, dove lavorò come tipografo. Si separò da Rirette e si avvicinò alla Confederación nacional del trabajo (Cnt), di tendenza anarcosindacalista, partecipando fra l'altro all'organizzazione della fallita insurrezione di luglio. Incominciò a usare un nuovo pseudonimo, Victor Serge, e pubblicò sul giornale anarchico Tierra y Libertad una serie di articoli in cui cominciava a prendere le distanze da Nietzsche e, implicitamente, dall'individualismo. La Rivoluzione russa lo chiamava. Rientrato clandestinamente in Francia, fu di nuovo arrestato e internato per diciotto mesi nel campo di concentramento di Précigné, dove creò un gruppo bolscevizzante. Nel gennaio 1919 fu scambiato, insieme ad altri reclusi, con alcuni ufficiali francesi fatti prigionieri in Urss. Sulla nave conobbe la sua futura compagna, Ljuba Rusakova, anche lei in viaggio per la «terra promessa».
Massari editore, 2011 |
A Pietrogrado, capitale della fame, del freddo e della resistenza, fu ricevuto da Zinov'ev e incontrò Maksim Gor'kij, il quale gli disse che i bolscevichi erano ubriachi di potere: «Il commissario del partito è allo stesso tempo poliziotto, censore e vescovo». Victor ne rimase scioccato, però decise di gettarsi egualmente nella mischia. Benché continuasse a considerarsi anarchico aderì al Partito bolscevico, partecipò alla fondazione dell'Internazionale comunista e ne organizzò il primo servizio stampa. È vero che commise molti errori: approvava la dittatura sul proletariato attuata dai bolscevichi e accusava gli anarchici russi di essersi fatti travolgere dagli avvenimenti; non rinnegava però, né mai lo avrebbe fatto, il suo passato; pensava che la Rivoluzione russa avesse cambiato i termini del confronto fra «autoritari» e «libertari» e che, di fronte alla crisi del movimento libertario organizzato, i bolscevichi fossero diventati i veri interpreti della volontà rivoluzionaria delle masse. Oggi sappiamo che si sbagliava; allora fu un abbaglio di molti rivoluzionari, anche anarchici. Allo scoppio della rivolta di Kronštadt (1921), «con molte esitazioni e un'angoscia inesprimibile», decise di allinearsi con il partito, cosa che, non senza ragione, il movimento anarchico non avrebbe mai cessato di rimproverargli.
Ad ogni modo, la sua adesione non fu mai incondizionata e non durò a lungo. Le Mémoires mostrano un Serge perfettamente consapevole dei germi autoritari che il regime sovietico incubava, ma convinto della possibilità di riformarlo. Viveva il sentimento di un doppio dovere: da un lato lottare contro i nemici esterni della rivoluzione, le potenze occidentali e i generali bianchi, e dall'altro battersi contro quelli interni, la burocrazia e il pensiero unico. Alla fine scelse di partire con moglie e figlio per la Germania con l'incarico di giornalista e agente del Comintern, pensando che l'unica possibilità di salvare la Rivoluzione russa fosse affrettare quella europea.
Dopo la sanguinosa sconfitta del Partito comunista tedesco (1923) fuggì a Vienna, dove intraprese lo studio del marxismo, che in realtà non conosceva, e della psicoanalisi, senza tralasciare il lavoro clandestino. Nella vecchia capitale dell'Impero austro-ungarico collaborò, fra gli altri, con Gramsci e con Lukács. Di quest'ultimo elogiò le conoscenze enciclopediche, definendo però totalitaria la sua interpretazione del marxismo.
Nel frattempo Stalin era diventato il numero uno del Cremlino e al bolscevismo di Lenin, che almeno in teoria ammetteva il dissenso, faceva seguito un regime poliziesco basato sul terrore, l'intrigo e la menzogna. Serge aveva la vocazione del dissidente, però non volle rompere radicalmente con il bolscevismo. Quando rientrò in Urss, nel 1925, chiese a Trotsky se l'Opposizione fosse disposta a distruggere l'apparato burocratico, in caso di vittoria: «Neanche per sogno! - rispose il fondatore dell'Armata rossa. - L'apparato bisogna conquistarlo e servirsene!».
Si unì, cionondimeno, all'Opposizione di sinistra (il termine «trotskismo» è un'invenzione di Stalin), ancora una volta perché convinto della necessità di dare battaglia dall'interno. Collaborò con il commissariato agli Affari esteri, nel quale lavorava anche Andreu Nin, e diffuse le tesi trotskiste sulla stampa francese. Partecipò, il 7 novembre 1927, all'ultima manifestazione pubblica dell'Opposizione e, il 16, ai funerali del dirigente bolscevico Adol'f Ioffe, suicidatosi in segno di protesta contro l'esclusione di Trotsky dal partito.
Cronista del disastro sovietico
Il destino di Serge era ormai segnato. Costantemente sorvegliato dalla polizia segreta, il nostro ridusse al minimo l'attività politica. Viveva di traduzioni malpagate, cercando di proteggere il figlio e la moglie che, a poco a poco, stava perdendo la ragione. Un giorno, mentre si riprendeva da una grave malattia, ebbe una visione. A un tratto le sue attività precedenti gli parvero futili e sentì l'urgenza di scrivere romanzi, non tanto per parlare di sé, quanto per dar voce agli uomini straordinari che aveva conosciuto. «Concepisco la letteratura come un mezzo di espressione e di comunione tra gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi di coloro i quali vogliono trasformare la società. Dire ciò che si è, ciò che si vuole, ciò che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, cade, conquista». Altrove aggiunge: «È importante lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la testimonianza rimanga».
Conobbe allora una doppia risurrezione: fisica e spirituale. Tutto lo spingeva alla letteratura: la formazione famigliare, l'enorme talento, una vita romanzesca. Il momento non poteva essere peggiore: i grandi scrittori tacevano, si toglievano la vita (Esenin, Majakovskij) o erano imprigionati. Serge sapeva che in Unione Sovietica non gli avrebbero pubblicato neppure una riga, ma poteva scrivere in francese e mandare i suoi testi agli amici di Parigi che avrebbero trovato la maniera di diffonderli.
La sua produzione fu prodigiosa. L'originalità di questa narrativa consisteva nel rompere i canoni dell'autobiografia tradizionale, incentrata sull'epopea dell'individuo, raccontando l'io collettivo che emerge dalle tormente rivoluzionarie, senza temere di esibirne le contraddizioni: «Ricordare, fissare, comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non è unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici, affinità e contaminazioni (la maggior parte delle quali non si possono esprimere razionalmente) con altri uomini, la terra, gli esseri, il Tutto. Scrivere diventa allora la ricerca di una polipersonalità, una maniera di vivere molti destini, di penetrare l'altro, di comunicare con lui».
L'idea di «polipersonalità» è la chiave di volta dell'opera che presentiamo. Un'opera - bisogna ripeterlo - non autobiografica, bensì testimoniale. Serge parla come partecipe di eventi storici e non come narratore introspettivo. Raramente, di fatto, allude a se stesso. È vero che il suo spirito libertario entra sovente in contraddizione con la fedeltà al bolscevismo. Jean-Luc Sahagian, di simpatie anarchiche, ha pubblicato Victor Serge, l'homme double, un libro in cui lo taccia di doppiezza. L'accusa è profondamente ingiusta, perché il nostro Autore pagò pesantemente le proprie scelte.
Trasformate in letteratura, le innegabili contraddizioni politiche di Serge ci fanno capire come un sincero rivoluzionario possa trasformarsi in un crudele assassino, come per esempio l'agente della Čeka descritto in Ville conquise. Inoltre, diversamente che in altri scrittori, queste contraddizioni non sono occultate, bensì trasformate nell'asse portante di una letteratura in cui i personaggi non riflettono preoccupazioni ideologiche e neppure certezze politiche, ma le passioni, i dubbi, gli slanci e gli sconforti di esseri umani trovatisi ad agire in una situazione che a poco a poco sfugge loro di mano.
Serge riesce a mettere in scena la tragedia rivoluzionaria in tutta la sua potenza, ma anche nella sua crudezza e senza camuffamenti. E tuttavia non è un Autore disincantato. È quindi distante da un Koestler e da un Malraux, prossimo piuttosto a un Orwell ed a un Silone. È un Autore colto e allo stesso tempo accessibile. Nelle sue pagine, oltre all'influenza dei grandi romanzieri russi, di Dostoevskij in primo luogo, e di Vallès, il cantore della Comune, si percepiscono gli echi di Joyce, Dos Passos e Proust, come anche della «letteratura proletaria», la corrente lanciata negli anni Venti da Henry Poulaille.
Frattanto la situazione in Urss precipitava. L'8 marzo 1933 Victor Serge fu nuovamente arrestato e, dopo tre mesi alla Lubjanka, deportato a Orenburg, una città prossima agli Urali, antisala politico-geografica del Gulag. Accompagnato dal figlio Vlady e da Ljuba (la quale presto tornerà a Leningrado per dare alla luce la seconda figlia, Jeannine, che oggi vive a Città del Messico), egli si unì a una confraternita di proscritti, fra i quali vigevano rapporti di solidarietà e comunione spirituale. Nell'arcipelago totalitario Orenburg era un'isola tranquilla: condizioni di precarietà e penuria (Vlady si ammalò di scorbuto), ma poche persecuzioni.
Nel 1935 Serge ricevette la visita di Francesco Ghezzi, un militante dell'Unione sindacale italiana (Usi) fuggito in Russia, che percorse duemila chilometri per informarlo sul «Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura» parigino. In quella sede, con grande scandalo della delegazione sovietica, alcuni valorosi, tra cui Gaetano Salvemini, sollevarono la questione della sua libertà.
Grazie anche all'interessamento del più noto «compagno di strada» dello stalinismo, lo scrittore Romain Rolland, i Kibal'čič poterono lasciare l'Unione Sovietica. Nel loro lungo viaggio, a Mosca, incrociarono Ghezzi, ancora libero benché per poco. Infine, il 17 aprile 1936, dopo aver attraversato Polonia e Germania, arrivarono a Bruxelles, accolti da Nikolaj Lazarevič, anch'egli scampato alle prigioni sovietiche.
Victor riuscì, con molta difficoltà, ad aprirsi uno spazio sulle pagine di un quotidiano socialista di Liegi, La Wallonie, dove tra il giugno 1936 e il maggio 1940 pubblicò oltre duecento articoli, scrivendo di Unione Sovietica, Spagna, antisemitismo, Germania, Austria, solidarietà internazionale, arte e di tanti altri argomenti, che testimoniano della vastità dei suoi interessi. Riallacciò i rapporti epistolari con Trotsky, allora esiliato in Norvegia; tuttavia, per quanto serbasse profondi sentimenti di ammirazione e affetto nei suoi confronti, era lontanissimo dal suo dogmatismo. Inevitabile, la rottura si produsse in occasione del dibattito sul massacro di Kronštadt, che il nostro Autore definiva un tragico errore e che il fondatore dell'Armata rossa rivendicava invece senza esitazioni.
Il 19 luglio 1936 scoppiò la Rivoluzione spagnola, presto seguita dal primo dei «grandi processi» di Mosca, destinato a terminare con l'esecuzione dei «sedici», tra i quali Zinov'ev e Kamenev. In dicembre Serge divenne corrispondente dell'organo del Poum, La Batalla, denunciando dalle sue colonne il pericolo mortale rappresentato dall'intervento sovietico in Spagna. Apertamente boicottato dalla stampa comunista, messo al bando da quella trotskista, considerato con sospetto da quella anarchica, si trovava adesso più solo che mai.
Non smise di lottare. Collaborò intensamente con il «Comité pour l'enquête sur le procès de Moscou et pour la défense de la liberté d'opinion dans la révolution» recandosi clandestinamente a Parigi e, per via epistolare, con la «Commissione Dewey», che si riuniva in Messico per difendere Trotsky dall'accusa, tanto infamante quanto assurda, di essere un agente del nazismo. In meno di un anno pubblicò tre libri: 16 fusillés, De Lénine à Staline e Destin d'une Révolution. Il primo è un esame dettagliato dei documenti ufficiali del processo di Mosca, che ne smonta il meccanismo. Il secondo presenta uno schizzo storico dei vent'anni trascorsi dall'Ottobre rosso, chiarendo che delle conquiste rivoluzionarie non rimaneva ormai più nulla. Il terzo è uno studio della vita sociale, economica e culturale sovietica, nonché una delle prime descrizioni dell'universo concentrazionario.
Le condizioni materiali continuavano a essere difficili. Le traduzioni e le collaborazioni giornalistiche erano pagate poco e la situazione restava giuridicamente precaria. Privati della cittadinanza sovietica, i Kibal'čič erano andati a ingrossare le fila dei paria che vagavano per il mondo in cerca di un visto. Nell'aprile 1937 ottennero finalmente il permesso di risiedere in Francia, però nel frattempo la situazione psichica di Ljuba si era aggravata. Ormai distrutta, la donna passava da una crisi all'altra, fino ad essere ricoverata in una clinica dove sarebbe morta nel 1983, senza essere mai riemersa dagli abissi della follia. Ricordiamo il tragico destino della famiglia Rusakov: la moglie di Aleksandr, Olga, e due figli, Joseph ed Esther, scomparsi nel Gulag, mentre altri due, Anita e Paul Marcel, vi trascorsero una ventina d'anni.
A Parigi, Serge si trovava esposto agli intrighi della Gpu e sfiorò la morte in varie occasioni. Nonostante gli affanni e le incombenze famigliari riuscì a portare avanti il suo ciclo romanzesco pubblicando S'il est minuit dans le siècle, appassionato omaggio ai deportati di Orenburg - che sarebbero tutti scomparsi nel Gulag - nonché una biografia di Stalin, dove descriveva lo smisurato potere del dittatore sovietico. Nel 1938 pubblicò una raccolta di poesie.
Ritornò alla riflessione sulle sue radici anarchiche. La sua Méditation sur l'anarchie offre una commovente ricostruzione delle vicende legate alla «banda Bonnot» (poi ripresa nelle Mémoires), mentre La pensée anarchiste abbozza uno schizzo storico del pensiero libertario. È vero che non risparmiava le critiche - «gli scritti anarchici procurano una singolare impressione di intelligenza ingenua, energia morale, fede e, diciamolo pure, accecamento» - però difendeva la forza etica dell'anarchismo, ammettendo implicitamente i propri errori del passato col definire Nestor Machno «una delle figure più notevoli della Rivoluzione russa».
L'ultimo rifugio di un rivoluzionario
Il 15 giugno 1940 Parigi sprofondava nell'inferno dell'occupazione nazista. Serge riparò a Marsiglia, dove ritrovò Volin, André Breton, Benjamin Péret, Wilfredo Lam, Jean Malaquais, Remedios Varo e tanti altri che fuggivano dalla «peste bruna». Quindici mesi dopo, al termine di un tormentato viaggio - iniziato a Casablanca - attraverso Martinica, Santo Domingo, Cuba e lo Yucatán, giunse a Città del Messico accompagnato dall'inseparabile Vlady. Ormai grigio di capelli e un po' appesantito, dimostrava allora qualcosa in più dei suoi quasi cinquantun'anni. Una forza tranquilla, una grande integrità e una certa stanchezza emanavano dal profondo dei suoi occhi color ambra. L'apparente opulenza, i locali notturni e le luci sfavillanti sconcertavano chi arrivava da un'Europa di guerra e carestia. Serge, però, capì rapidamente che il Messico era «un Paese a due piani, senza classe media: sopra la società del dollaro, sotto la miseria dell'indio».
Le Mémoires finiscono qui, ma la storia prosegue. In Messico Victor Serge visse gli anni più produttivi della sua vita. In primo luogo completò le Mémoires incominciate in Francia e, come si è detto, pubblicate postume da Vlady. Inoltre portò a termine tre romanzi: L'affaire Toulaév, scritto «sulle strade del mondo», dove narra gli intrighi dei processi di Mosca e della guerra di Spagna; Les Derniers Temps, sulla débâcle della Francia nel 1940; Les Années sans pardon, ambientato a Parigi e in Messico, dove, secondo la definizione di Vlady, l'etica si trasforma in estetica.
L'anno scorso, ad Amecameca, sulle pendici del vulcano Popocatépetl, ho trovato parecchi manoscritti inediti nell'archivio dell'archeologa Laurette Séjourné, pseudonimo dell'italiana Laura Valentini, la sua ultima compagna, deceduta molto anziana nel 2003. Tra questi materiali spicca un voluminoso diario, che si può considerare la continuazione delle Mémoires e che sta per essere pubblicato dalla casa editrice Agone di Marsiglia con il titolo di Carnets, riprendendo quello di un'edizione anteriore, incompleta.
Questo diario e la corrispondenza (oltre novecento lettere) mostrano che in Messico Serge moltiplicò straordinariamente i suoi già vasti interessi intellettuali. Insieme ad altri esiliati antitotalitari dette vita al gruppo Socialismo y Libertad, che pubblicava una rivista di notevole qualità anche se sconosciuta, Mundo. Mantenne contatti intensi con i personaggi più disparati: il poeta Octavio Paz, lo scrittore Gustav Regler, il filosofo Emmanuel Mounier, la socialista Angelica Balabanoff, lo psicoanalista Bruno Bettelheim, il marxista consiliare Paul Mattick, l'anarchico Augustin Souchy, l'ex ministro della Difesa della Repubblica spagnola Indalecio Prieto, la libertaria russa Mollie Steimer… Ho trovato anche una lettera a Rirette Maîtrejean, l'amore di gioventù.
Leggeva di tutto. S'interessò di arte (molte le annotazioni su Diego Rivera e i surrealisti), filosofia (importanti gli appunti su Adorno, allora pressoché sconosciuto), letteratura, cinema e storia delle religioni. Scrisse decine di articoli sull'Unione Sovietica e sulla guerra. Pubblicò Hitler contra Stalin, un libro sull'invasione nazista dell'Urss che esiste solo in spagnolo, e ne scrisse due rimasti inediti, uno sul militarismo giapponese e l'altro sulle civiltà indigene mesoamericane.
Le cronache dei suoi viaggi in Messico (Oaxaca, Michoacán, Cuernavaca, Acapulco) trasmettono le impressioni di un consumato antropologo, senza perdere la freschezza del bravo giornalista e la profondità dell'analista politico. Grazie all'amicizia con Fritz Fränkel, uno psichiatra tedesco già organizzatore in Spagna del servizio sanitario delle Brigate internazionali e poi passato all'opposizione, riprese lo studio della psicologia, ancora una volta con l'idea di spiegare e spiegarsi il fallimento della rivoluzione.
La fine giunse inaspettata. Morì su un taxi, da solo, dopo un appuntamento mancato con Vlady, al quale voleva far leggere il suo ultimo poema, Mains. Ecco la testimonianza di Julián Gorkin:
«Lo trovammo a mezzanotte passata, steso in una stanza spoglia dalle pareti grigie. Aveva le scarpe bucate con la suola completamente logora e una camicia da operaio. Un nastro di tela gli chiudeva la bocca, quella bocca che nessun tiranno era riuscito a far tacere. Sembrava un vagabondo raccolto per pietà. E non era forse stato l'eterno vagabondo della vita e di un ideale? Il suo volto esprimeva un'amara ironia, un sentimento di protesta, l'ultima protesta di Victor Serge, l'uomo che per tutta la vita aveva protestato contro le ingiustizie umane».
Attacco cardiaco, secondo il certificato medico. Avvelenamento? Probabilmente no, visto che soffriva di cuore; però Vlady rimase tutta la vita con il dubbio: per eliminare gli oppositori la Gpu usava infatti potenti veleni che non lasciano tracce.
Victor Serge, il vagabondo geniale, lo scrittore russo di lingua francese nato in Belgio, riposa nel cimitero spagnolo di Città del Messico. La sua eredità spirituale s'innalza oltre le nubi che oscurano il nostro tempo.
Città del Messico, 3 maggio 2012
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