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lunedì 7 maggio 2012

CRISTIANESIMI VII, di Pier Francesco Zarcone

IL TEATRO DELL’ECUMENISMO: RECITE VACUE SENZA UN FINALE

Introduzione

Ogni epoca ha le sue mode, dal vestiario all’ideologia, di incidenza e durata variabili. Oggi - per quanto interessati gruppi di potere facciano soffiare i venti dell’intolleranza religiosa in nome del conflitto di civiltà - fra Cristiani è ancora “politicamente corretto”, anzi correttissimo, dichiararsi “ecumenici”. I non-ecumenici vengono visti come reazionari e passatisti, nemici della fraternità e della pace. Strano che nessun credente li abbia tacciati di essere animati dal Diavolo (simbolo massimo di divisione, dal greco dhiavallo, divido). Innanzi tutto vediamo di cosa stiamo parlando.

Il movimento ecumenico e le sue strutture

Paolo VI e Atenagora patriarca di Costantinopoli
Si autodefinisce “ecumenico” (dal greco ikuméne, mondo abitato) il movimento interecclesiale che si propone di operare per il riavvicinamento fra i Cristiani della differenti Chiese e confessioni con l’obiettivo della loro unità a partire dalla comune fede trinitaria. L’impulso operativo venne, a partire dal secolo XIX essenzialmente dalla Chiesa Anglicana, con una fitta serie di iniziative culminate nel 1948 con la costituzione del “Consiglio Mondiale delle Chiese” (Wcc), detto anche “Consiglio Ecumenico delle Chiese” (Coe). Con sede a Ginevra, riunisce 349 Chiese: quelle della Comunione Anglicana, la maggior parte delle Chiese ortodosse, parecchie Chiese protestanti, alcune Chiese battiste, varie Chiese luterane, metodiste e comunque riformate, alcune pentecostali, Vetero-cattoliche e una serie di Chiese indipendenti. Non ne fanno parte la Chiesa avventista, l’Esercito della Salvezza e la Chiesa cattolica. Quest’ultima, però, è attualmente membra di Commissioni del Wcc,tra cui l’importante Commissione teologica “Fede e costituzione”.
Nel 1960 fu istituito il “Segretariato per l'Unità dei Cristiani” (nel 1988 trasformato in “Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani” e oggi denominato “Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani”), e poi la netta chiusura della Chiesa cattolica verso il movimento ecumenico fu superato dal Concilio Vaticano II. La Chiesa di Roma non ha aderito nemmeno alla “Conferenza delle Chiese Europee” (CEC) creata nel 1959 e di cui fanno parte 125 tra le maggiori Chiese protestanti d’Europa, Ortodosse, Anglicane e Vetero-cattoliche., ma nel 1971 essa ha costituito il “Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee” (Ccee) che collabora con la Cec in un Comitato Congiunto. Su questa scia in alcuni paesi sono nati i “Consigli nazionali delle Chiese”.
Questo è in sintesi il quadro istituzionale del movimento ecumenico.

Problemi generali del dialogo ecumenico

Il riavvicinamento fra le Chiese presenta una genericità di contenuto che poi necessariamente gli interessati tendono a specificare, e non sempre in modo univoco. Al riguardo sono individuabili almeno due tendenze, se limitiamo il discorso all’ambito cristiano; cosa che in questa sede è meglio fare sia per problemi di spazio sia per non complicare il discorso.
Una prima tendenza, tutto sommato maggioritaria, punta a realizzare attraverso il dialogo e il confronto obiettivi apparentemente modesti, ma in realtà non sempre di facile concretizzazione: maggiore conoscenza reciproca il più possibile depurata da pregiudizi, maggior rispetto reciproco e forme di collaborazione pratica in ordine a tutta una serie di problemi - spirituali e non - da cui l’umanità è attualmente travagliata, sì da poter essere le Chiese punti di orientamento e riferimento. La seconda tendenza ufficialmente è della Chiesa cattolica: andare al di là del miglioramento relazionale e puntare verso una unità ecclesiale piena e organica. Ovviamente sotto il manto del Papa. Si tratta di un particolare che resta sempre sullo sfondo, quand’anche i riflettori dell’ecumenismo non lo mettano al centro della loro luce.
Indipendentemente dall’una o dall’altra delle citate tendenze, sta di fatto che esse implicano lo svolgimento di un dialogo teologico che effettivamente esiste e continua, seppure teologi delle varie parti (non tutti) vi lavorino senza grandi risultati visibili, al di là di conferenze congiunte, documenti comuni che lasciano le cose come stanno. Semmai - il che non è certo di troppo - si è instaurata una maggiore buona educazione reciproca, quanto meno sul versante della forma e quand’anche ciò non escluda in assoluto i colpi bassi. Tuttavia le difficoltà persistono.

 Il primate anglicano di Canterbury e Benedetto XVI   

Poiché l’ecumenismo non è ancora defunto, vale la pena parlarne un po’ in una serie dedicata a discorsi critici sui Cristianesimi, con la premessa (per onestà) che l’autore di queste righe circa 20 anni fa per “dovere d’ufficio” ha dovuto partecipare in ambito locale al dialogo ecumenico ma, non avendolo fatto con convinzione, quel suo antico operato di tutto può essere tacciato tranne che di condiscendenza con le controparti. Tant’è che poi è stato escluso dalle recite successive, anche per l’ostilità vaticana.
Quando si parla di ecumenismo l’evangelico ammonimento a un discorso basato sul “sì, sì, no, no” - che sta agli antipodi rispetto al diplomatico linguaggio in uso in tutte le Chiese dialoganti - implica la rinuncia al buonismo ipocrita riprodotto per un mix di superficialità e acquiescenza dai media nostrani.
Il primo e apicale problema che colpisce (in negativo) un osservatore che si ponga fuori dall’ecumenismo sta proprio nell’obiettivo proposto, sia pure a livello massimalista: la realizzazione di una Chiesa onnicomprensiva con unità di fede, teologia, ecclesiologia, spiritualità ecc.; obiettivo così ambizioso da risultare impossibile per i motivi che si diranno. Ciò mentre appare del tutto trascurato un obiettivo forse più importante e comunque propedeutico a qualsiasi stabile risultato: cioè approfittare del mutato clima nelle relazioni interecclesiali per dare luogo a un effettivo rinnovamento spirituale delle Chiese, per la loro reale cristianizzazione innanzi tutto a livello istituzionale. Cosa che ne renderebbe più credibili discorsi e azioni. Nel secolo scorso fu chiesto a un monaco ortodosso quale fosse per lui il problema più importante per la Chiesa, e lui rispose “la seconda venuta di Cristo”. Invece ciascuna delle Chiese dialoganti ha mantenuto, con affezione degna di miglior causa, tutti i suoi difetti antecedenti all’avvio del dialogo ecumenico. Non perseguire con decisione l’obiettivo suddetto fa sì che si perda di vista il fatto che prima ancora di ritorno all’unità istituzionale si dovrebbe perseguire il pur non facile obiettivo dell’entrare in comunione spirituale fra Cristiani di diversa confessione. Senza questa comunione, parlare di unione è privo di senso.
Mancando la comunione spirituale, voler comporre sulla carta formulazioni rivolte a redigere l’unità di fede vuol dire riproporre lo stesso obiettivo il cui perseguimento portò, nel corso dei secoli, alla rottura dell’unità.
Infatti, l’unità di fede in sé e per sé nella migliore delle ipotesi vale solo dal punto di vista formale. Si pensi al Credo: questo simbolo della fede oggi fa parte del bagaglio del Cristianesimo astratto (che, vale a dire, è sintesi intellettuale a prescindere dalla varietà del concreto), ma non è sigillo di unità, poiché dopo ci sono le diverse interpretazioni del suo contenuto e quelle relative agli aspetti non trattati nel Credo ma connessi. Tralasciando il fatto che la stessa formulazione del Credo fu il frutto della prima grande rottura, quella con Ario di Alessandria e i suoi seguaci, poi totalmente riassorbita grazie anche a un considerevole ricorso alla forza.
A cascata ci sono quindi i differenti modi di intendere la Chiesa, la sua organizzazione, il sacro, e chi più ne ha ne metta. Con l’aggravante che nel corso dei secoli le “scuole di pensiero e di vita” delle varie Chiese di volta in volta specificatesi hanno sviluppato e sedimentato proprie tradizioni, teologiche, spirituali ed ecclesiali non collimanti con quelle altrui e ormai dotate di carattere identitario.
Schematizzando, le parti in causa nel dialogo sono tre: Chiesa cattolica, Chiesa ortodossa (col suo essere “Chiesa di Chiese”), galassia delle Chiese protestanti. In questa triangolazione le tre parti si rapportano fra loro in modo variabile, a seconda che siano considerate sul piano teologico o sul piano culturale (in senso ampio). Traduciamo.
Teologicamente (e dogmaticamente) la contrapposizione è enorme fra Cattolicesimo e Protestantesimo, mentre è senz’altro minore - pur esistendo, e riguardando aspetti importanti - fra Cattolicesimo e Ortodossia. Al contrario, sul piano culturale Cattolicesimo e Protestantesimo sono fra loro più vicini (si pensi all’enorme influenza culturale esercitata su entrambi da Agostino d’Ippona), cosa che per gli Ortodossi si manifesta nel condividere cattolici e riformati una rilevante perdita di senso del sacro, per quanto a livelli e gradi diversi. E oggi nell’agone ecumenico i rapporti migliori solo fra anglicani (e a volte valdesi) e ortodossi.
Gli illustri teologi e prelati impegnati nelle varie Commissioni teologiche in cui si lima, taglia, cuce e smussa per redigere formulazioni accettabili da tutti (magari poi lette solo dagli addetti ai lavori e da qualche curioso) le differenze teologiche e culturali non appaiono agevolmente superabili. In più, le proposizioni attentamente confezionate a tavolino corrono il rischio di restare lettera morta, o perché rigettate o perché accettate solo superficialmente dalle rispettive Chiese e/o dai loro fedeli. Né va trascurato un particolare fondamentale: nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha praticamente dogmatizzato una tale quantità di questioni teologiche da far domandare a chiunque come si possano avere validi risultati sul piano teologico che non cozzino contro tali dogmi e che siano accettabili per i non-cattolici.
Si pensi alla questione - grande come una casa - del “primato” del Papa, implicante potere di giurisdizione sulla Chiesa unita e infallibilità dogmatica ex cathedra Petri. Primato a tutt’oggi ribadito dal Vaticano - nella teoria e nella pratica - seppure si parli di esigenza di una sua … “riformulazione”. Nuove formule che lascino inalterata la sostanza sarebbero rifiutate da protestanti e ortodossi, e mutare la sostanza (peraltro dogmatizzata) vorrebbe dire smantellare l’attuale configurazione del papato. Ammesso che si trovi un papa disposto a ciò, sopravviverebbe egli mai nei Palazzi apostolici, o farebbe la “prematura” fine di Giovanni Paolo I?
In teoria - ma solo come esercitazione retorica - ci sarebbe una soluzione per superare l’ostacolo della massiccia dogmatizzazione cattolica, ed essa si ispira al precedente della Chiesa ortodossa, che dalla separazione di Roma a oggi non ha più celebrato Concili ecumenici: cioè a dire, la Chiesa cattolica dovrebbe prendere atto della non-ecumenicità dei Concili da essa indetti dal 1054 al Vaticano II. Figuriamoci!!!
Non si può infine trascurare il fatto che sullo svolgimento del dialogo gravano fosche nubi dovute a eccessi di proselitismo o inerenti a non infondati timori per egemonismi non solo teorici, che spesso si manifestano anche “fuori dalle quinte”.

I problemi del dialogo con gli ortodossi

In questo ambito più che mai si deve diffidare dalle prese di posizione ufficiali. Nel lontano dicembre del 1983 uno di maggiori teologi ortodossi vivente, padre Alexandre Schmeman, pubblicò un intervento a tutt’oggi attualissimo (nella sua integralità esso è visibile su internet: “Il momento della verità per l’Ortodossia”, in  http://digilander.libero.it/ortodossia/Ecumenismo11.htm). In quella sede egli mise in guardia il lettore occidentale sul fatto che
«nella Chiesa ortodossa, non si può senz’altro identificare quant’è “ufficiale” con la voce della Chiesa. La storia ci ricorda che nessuna dichiarazione ufficiale ha avuto effetto costringente fintantoché non è stata accolta dall’intero corpo della Chiesa, nonostante sia molto difficile, se non impossibile, definire con precisione come tale accoglimento possa essere realizzato ed espresso. (…) Oggi (…) la posizione “ufficiale” sembra pericolosamente isolata non tanto dai sentimenti o dalle reazioni dell’ortodosso “medio” quanto dalla realtà ortodossa stessa, ossia dalla totalità dell’ esperienza spirituale, teologica e liturgica. Solo questa può, infatti, vivificare e autenticare gli atti della politica ecclesiastica. Ora, la partecipazione ortodossa al Consiglio Ecumenico delle Chiese si situa precisamente al livello della “politica ecclesiastica”».
Benedetto XVI e Bartolomeo patriarca di Costaninopoli
L’altro elemento negativo messo in rilievo da Schmeman riguarda la mancanza (perdurante tutt’oggi) della formazione di un linguaggio comune, talché é pure mancato un incontro effettivo con le altre parti, le protestanti e la cattolica. D’altro canto non si deve trascurare un aspetto importantissimo: la mentalità occidentale prevalente (che però opera anche nelle rispettive Chiese) tende a visualizzare il problema della rottura confessionale cristiana in termini di contrapposizione Cattolicesimo/Riforma protestante. La prospettiva ortodossa, invece, è differente, poiché per essa la rottura è fra Oriente e Occidente cristiani. Questo viene a significare che l’Ortodossia non intende sé stessa come un terzo polo del dialogo, bensì come un secondo polo che si confronta con quello occidentale nella sua globalità. La conseguenza è che per il mondo ortodosso non solo il distacco della Chiesa di Roma dall’unità con la Chiesa orientale è nata da una deviazione della prima dalla Tradizione, ma la stessa Riforma protestante - per dirla sempre con Schmeman -

«appare come una crisi all ’interno della deviazione globale dell’Occidente nei riguardi dell’Ortodossia, come uno sviluppo specificamente occidentale, legato alle condizioni e ai presupposti propri all’Occidente. Ecco perché la questione ecumenica primordiale, il punto di partenza dell’intero movimento ecumenico è, dal punto di vista ortodosso, il seguente: cos’è successo tra Oriente e Occidente? Quando e come è iniziata questa separazione? Qual è la sua vera portata e il suo contenuto? Bisognerebbe, in altri termini, rivalorizzare il passato, questa storia che è terminata, ad un certo momento, d’essere la storia comune del Cristianesimo originale. Il movimento ecumenico per avere tutto il suo senso e la sua fecondità, dovrebbe porre al centro delle sue ricerche quest’iniziale tragedia che fu determinante per la Chiesa universale»

Ma niente di tutto questo si è realizzato, e nella sostanza il movimento ecumenico risulta dominato dalle sole problematiche teologiche e spirituali dell’Occidente. E ormai la formazione il consolidamento di specifiche tradizioni occidentali rende assai meno pregnante il proposito ortodosso di riproporre la Tradizione che era stata comune quando, però, c’era essa sola.

Il persistere di contrasti oggettivi anche sanguinosi

Su questo versante entrano in gioco egemonismi e altre questioni “politiche” di grande rilevanza pratica. Per quanto riguarda i rapporti fra Cattolici e Protestanti - a parte l’Irlanda del Nord, in cui il contrasto religioso “copre” la lotta di classe - oggi i problemi sono essenzialmente correlati con la contrapposizione fra proselitismo cattolico e diffusione di sette evangeliche finanziate dalle case-madri statunitensi, specialmente in America latina.
Più complicati e conflittuali si presentano i rapporti fra cattolici e ortodossi in certe aree. Qui c’è una non terminata tradizione plurimillenaria di lotte e guerre reciproche, il cui ultimo episodio noto risale alla fine del secolo scorso sulla stessa fascia frontaliera che divideva l’Impero romano d’Occidente da quello d’Oriente, prima; e poi il mondo ottomano da quello asburgico e cattolico. La separazione fra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente non è mai andata giù a quest’ultima, che ha sempre cercato di indebolire e fagocitare la prima, in base a pretese di unicità e universalità: cioè di cattolicità orizzontale. Una curiosità linguistica espressa in greco: la diffusa traduzione in italiano dei titoli di cui si fregiano le due Chiese le dà entrambe, per limiti linguistici dell’italiano, come “cattoliche”. Ma così non è. Per gli Ortodossi la Chiesa di Roma è katolikí, cioè universale, ma ogni Chiesa ortodossa (e la Chiesa delle Chiese nella sua unità) invece è katholikí, vale a dire “secondo il tutto”, “in possesso di tutto ciò che le serve”.
Qualsiasi libro di storia dei rapporti fra le due Chiese è pieno di tentativi di sopraffazione, guerre offensive e difensive, guerre civili in cui, a prescindere dalle cause strutturali ciò che dà gusto a scannare l’avversario è la sua appartenenza confessionale. E nella parte orientale dell’Europa la memoria storica dei popoli è di gran lunga meno labile di quella degli Europei occidentali; talché la percezione di “prossimità” di un passato in teoria lontano, rende acuto il timore della sua ripetizione in costanza degli stessi presupposti che lo determinarono.
Sul versante in questione, oltre a tale problema di temporalizzazione, c’è il fatto che l’imperialismo del Vaticano non è mai cessato, e la pratica del proselitismo - spinto o subdolo - crea grosse complicazioni, alimenta la diffidenza di sempre e causa rinnovate ostilità. Nei paesi a maggioranza cattolica o protestante il proselitismo ortodosso è pressoché assente, per cui il fatto di doverlo subire “a casa propria” è molto sgradito. Ovviamente i passaggi da una Chiesa all’altra esistono, e bilateralmente. Tuttavia la prassi ortodossa consiste nel verificare con attenzione motivazioni e fondamento delle richieste di ammissione, e non tutte sono accolte. Ad ogni modo nei paesi oggetto di diaspora ortodossa si è intanto formato un clero nazionale.
Il proselitismo cattolico è forte nei paesi storici dell’Ortodossia, e per l’intensità e (spesso) la prepotenza crea intensi dissapori, denuncia, rappresaglie. Qui la punta di diamante del proselitismo cattolico sono gli esponenti del rito bizantino, sezione particolare del Cattolicesimo di cui condivide la supremazia papale e la teologia, ma con rituale liturgico e vestimenti dei preti uguali a quelli dell’Ortodossia. Dagli ortodossi sono detti spregiativamente “Uniati” o anche “travestiti”. La loro origine risale al Sinodo che nel 1596 sancì a Brest-Litovsk l’unione con Roma di alcuni vescovi dell’Ucraina; essi furono poi imitati da vescovi ruteni subcarpatici, romeni transilvani e galiziani.
L’intenzione era di creare - per gli interessi politico/religiosi polacchi e asburgici - una situazione ecclesiale che attraesse fedeli ortodossi nell’orbita cattolica, ma dando loro l’impressione di non aver abbandonato la Chiesa di origine. Per il mondo ortodosso le conseguenze negative erano di vario tipo, e non si esaurivano nell’intento truffaldino: sul piano dottrinario con gli Uniati si era realizzata un’inammissibile dissociazione fra la realtà teologica di una Chiesa e il suo rituale liturgico, sul piano pratico nell’unica parte dell’Europa orientale non sottoposta al controllo islamico l’Ortodossia veniva a subire gli attacchi del Cattolicesimo. Ovvio che s’incrementasse la sindrome da accerchiamento sorta quanto meno dal saccheggio di Costantinopoli (1204) da parte della cosiddetta Quarta Crociata, e poi mai venuta meno.
La conclusione è che se il proselitismo cattolico di per sé è del tutto sgradito, quelle effettuato tramite gli Uniati è considerato un insulto.
Se nel passato cattolici di rito bizantino e ortodossi hanno avuto i propri martiri (i più noti sono Afanasij di Brest ucciso dai cattolici e Giosafat Kuncewycz ucciso dagli ortodossi; entrambi santificati), oggi la situazione non può essere definita davvero migliore. Vanno messe in conto due realtà: le conseguenze, per ora solo latenti, del bagno di sangue nella ex Jugoslavia della fine del secolo scorso, e le conseguenze attuali del crollo dei regimi “comunisti”. A cominciare dall’Ucraina il ritorno della libertà ha portato a una vera e propria resa dei conti fra cattolici di rito bizantino in precedenza perseguitati e ortodossi. Con l’aggiunta delle conseguenze del proselitismo, si può dire che lì l’ecumenismo è completamente saltato.

La difficoltà del dialogo con il Cattolicesimo e nel Cattolicesimo

In realtà dialogare fra acattolici e cattolici è facile e agevole nei limiti in cui ci si muova nel senso da questi ultimi voluto. O, per meglio dire, nel senso voluto dal Vaticano. Chiunque abbia partecipato a questo dialogo può dare atto del gelo che si crea nell’atmosfera quando si passa, dalle espressioni di felicità quasi beota per ciò che unisce, alla messa a punto di ciò che divide argomentando in favore di posizione che il Cattolicesimo ha sempre contrastato (a dir poco). Naturalmente è possibile trovare teologi cattolici disposti a convenire che sul problema trinitario sarebbe meglio riprendere il discorso nei termini in cui era prima che Agostino di Ippona ci mettesse le mani; oppure propenso a vedere nella “Immacolata Concezione” più una mossa politica del papato che non una posizione teologica fondata biblicamente e tradizionalmente. Incontri del genere per i non-cattolici sono piacevoli, anche fruttuosi, e fanno ben sperare. Poi però - prima o poi - scatta il guareschiano “contrordine fratelli” da oltre Tevere, e allora per il teologo cattolico “ben intenzionato” le possibilità sono due: allinearsi con una certa celerità, oppure resistere e difendere le proprie tesi contro i diktat della propria gerarchia. In entrambi i casi avviene che il versante non-cattolico perde un interlocutore degno di questo nome.
Casi del genere rivelano solo una cosa: esistono per la Chiesa cattolica ben definiti limiti dialogici con le altre Chiese che non vanno superati fino a nuovo ordine (ammesso che esso possa mai arrivare). Ancora più ferrei sono i limiti riguardanti il versante - che qui non trattiamo - dei rapporti con le religioni non-cristiane, con specifico riferimento a quelle orientali. Lo attestano i due casi emblematici del gesuita indiano Anthony De Mello (1931-1987) e del suo confratello belga Jacques Dupuis (1923). Il primo fu condannato nel 1998 dall’organismo pontificio erede diretto dell’Inquisizione, e il secondo nel 2000 ha dovuto fare ciò che avrebbe evitato il rogo a Giordano Bruno: essere umiliato e chinare la testa. Era accaduto che il pensiero teologico di entrambi risultava influenzato da moduli ed elementi di quell’Induismo che essi conoscevano a menadito, ricavandone una sintesi interessante. Ma questo non doveva succedere, ed ecco la repressione. Che senso ha, quindi, parlare e straparlare di ecumenismo?

Il dimenticato insegnamento profetico di Vladimir Solov’ëv

Uno dei primi ecumenisti russi, Vladimir Solov’ëv (1853-1900), in uno scritto del suo ultimo anno di vita - il Racconto dell’Anticristo - ha lasciato un ammonimento tanto profetico quanto inascoltato. Eppure avrebbe fra l’altro il pregio di fare risparmiare un sacco di tempo, perso invece in sterili confronti teologici; in buona sostanza l’ammonimento era: con l’avvento dei tempi bui dell’Anticristo ciascuno nella sua Chiesa sia un buon cristiano, fedele ai suoi valori senza farsi sviare dal male. Nel confronto scontro con l’Anticristo e nei Tempi Ultimi tutti i nodi si scioglieranno perché verranno oltrepassati.
Ma per fare questo bisogna avere tanta fede, credere per “essere”, e non credere per credere e poi tanti saluti.
Molto probabilmente non c’è alternativa. E non sarebbe tale la mera rinuncia alle differenze teologiche per puntare a un ipotetico Cristianesimo soltanto etico, deteologizzato e desacralizzato; anche perché siffatto “pensiero religioso debole”: verrebbe rifiutato da molte Chiese in quanto frutto tipico della secolarizzazione; darebbe spazio ulteriore a religioni e sette orientali, oltre che all’Islam; e non porterebbe a nulla, al contrario di quanto avverrebbe con una vera rinascita spirituale, e dell’ethos che le è connesso. Ma questo non è nell’aria. Chi vivrà vedrà.

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