IL TEATRO DELL’ECUMENISMO: RECITE VACUE SENZA UN FINALE
Introduzione
Ogni epoca ha le sue mode, dal vestiario all’ideologia, di incidenza e
durata variabili. Oggi - per quanto interessati gruppi di potere facciano
soffiare i venti dell’intolleranza religiosa in nome del conflitto di civiltà -
fra Cristiani è ancora “politicamente corretto”, anzi correttissimo,
dichiararsi “ecumenici”. I non-ecumenici vengono visti come reazionari e
passatisti, nemici della fraternità e della pace. Strano che nessun credente li
abbia tacciati di essere animati dal Diavolo (simbolo massimo di divisione, dal
greco dhiavallo, divido). Innanzi
tutto vediamo di cosa stiamo parlando.
Il movimento ecumenico e le sue strutture
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Paolo VI e Atenagora patriarca di Costantinopoli |
Si autodefinisce “ecumenico” (dal greco ikuméne, mondo abitato) il movimento interecclesiale che si propone
di operare per il riavvicinamento fra i Cristiani della differenti Chiese e
confessioni con l’obiettivo della loro unità a partire dalla comune fede
trinitaria. L’impulso operativo venne, a partire dal secolo XIX essenzialmente
dalla Chiesa Anglicana, con una fitta serie di iniziative culminate nel 1948
con la costituzione del “Consiglio Mondiale delle Chiese” (Wcc), detto anche
“Consiglio Ecumenico delle Chiese” (Coe). Con sede a Ginevra, riunisce 349
Chiese: quelle della Comunione Anglicana, la maggior parte delle Chiese ortodosse, parecchie Chiese protestanti,
alcune Chiese battiste,
varie Chiese luterane, metodiste
e comunque riformate, alcune pentecostali,
Vetero-cattoliche e una serie di Chiese
indipendenti. Non ne fanno parte la Chiesa avventista,
l’Esercito della Salvezza e la Chiesa cattolica. Quest’ultima, però,
è attualmente membra di Commissioni del Wcc,tra cui l’importante Commissione
teologica “Fede e costituzione”.
Nel 1960 fu istituito il “Segretariato per l'Unità dei Cristiani” (nel
1988 trasformato in “Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani” e oggi denominato “
Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani”), e poi la
netta chiusura della Chiesa cattolica verso il movimento ecumenico fu superato
dal Concilio Vaticano II.
La Chiesa di Roma non ha aderito nemmeno
alla “Conferenza delle Chiese Europee”
(CEC) creata nel 1959 e di cui fanno parte 125 tra le maggiori Chiese
protestanti d’Europa, Ortodosse, Anglicane e Vetero-cattoliche., ma nel 1971
essa ha costituito il “Consiglio delle Conferenze
Episcopali Europee” (Ccee) che collabora con la Cec in un Comitato
Congiunto. Su questa scia in alcuni paesi sono nati i “Consigli nazionali delle
Chiese”.
Questo è in sintesi il quadro istituzionale del movimento ecumenico.
Problemi generali del dialogo
ecumenico
Il riavvicinamento fra le Chiese presenta una genericità di contenuto
che poi necessariamente gli interessati tendono a specificare, e non sempre in
modo univoco. Al riguardo sono individuabili almeno due tendenze, se limitiamo
il discorso all’ambito cristiano; cosa che in questa sede è meglio fare sia per
problemi di spazio sia per non complicare il discorso.
Una prima tendenza, tutto sommato maggioritaria, punta a realizzare
attraverso il dialogo e il confronto obiettivi apparentemente modesti, ma in
realtà non sempre di facile concretizzazione: maggiore conoscenza reciproca il
più possibile depurata da pregiudizi, maggior rispetto reciproco e forme di
collaborazione pratica in ordine a tutta una serie di problemi - spirituali e
non - da cui l’umanità è attualmente travagliata, sì da poter essere le Chiese
punti di orientamento e riferimento. La seconda tendenza ufficialmente è della
Chiesa cattolica: andare al di là del miglioramento relazionale e puntare verso
una unità ecclesiale piena e organica. Ovviamente sotto il manto del Papa. Si
tratta di un particolare che resta sempre sullo sfondo, quand’anche i
riflettori dell’ecumenismo non lo mettano al centro della loro luce.
Indipendentemente dall’una o dall’altra delle citate tendenze, sta di
fatto che esse implicano lo svolgimento di un dialogo teologico che
effettivamente esiste e continua, seppure teologi delle varie parti (non tutti)
vi lavorino senza grandi risultati visibili, al di là di conferenze congiunte,
documenti comuni che lasciano le cose come stanno. Semmai - il che non è certo
di troppo - si è instaurata una maggiore buona educazione reciproca, quanto
meno sul versante della forma e quand’anche ciò non escluda in assoluto i colpi
bassi. Tuttavia le difficoltà persistono.
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Il primate anglicano di Canterbury e
Benedetto XVI |
Poiché l’ecumenismo non è ancora defunto, vale la pena parlarne un po’
in una serie dedicata a discorsi critici sui Cristianesimi, con la premessa
(per onestà) che l’autore di queste righe circa 20 anni fa per “dovere
d’ufficio” ha dovuto partecipare in ambito locale al dialogo ecumenico ma, non
avendolo fatto con convinzione, quel suo antico operato di tutto può essere
tacciato tranne che di condiscendenza con le controparti. Tant’è che poi è
stato escluso dalle recite successive, anche per l’ostilità vaticana.
Quando si parla di ecumenismo l’evangelico ammonimento a un discorso
basato sul “sì, sì, no, no” - che sta agli antipodi rispetto al diplomatico
linguaggio in uso in tutte le Chiese dialoganti - implica la rinuncia al
buonismo ipocrita riprodotto per un mix di superficialità e acquiescenza dai
media nostrani.
Il primo e apicale problema che colpisce (in negativo) un osservatore
che si ponga fuori dall’ecumenismo sta proprio nell’obiettivo proposto, sia
pure a livello massimalista: la realizzazione di una Chiesa onnicomprensiva con
unità di fede, teologia, ecclesiologia, spiritualità ecc.; obiettivo così
ambizioso da risultare impossibile per i motivi che si diranno. Ciò mentre
appare del tutto trascurato un obiettivo forse più importante e comunque
propedeutico a qualsiasi stabile risultato: cioè approfittare del mutato clima
nelle relazioni interecclesiali per dare luogo a un effettivo rinnovamento
spirituale delle Chiese, per la loro reale cristianizzazione innanzi tutto a
livello istituzionale. Cosa che ne renderebbe più credibili discorsi e azioni.
Nel secolo scorso fu chiesto a un monaco ortodosso quale fosse per lui il
problema più importante per la Chiesa, e lui rispose “la seconda venuta di
Cristo”. Invece ciascuna delle Chiese dialoganti ha mantenuto, con affezione
degna di miglior causa, tutti i suoi difetti antecedenti all’avvio del dialogo
ecumenico. Non perseguire con decisione l’obiettivo suddetto fa sì che si perda
di vista il fatto che prima ancora di ritorno all’unità istituzionale si
dovrebbe perseguire il pur non facile obiettivo dell’entrare in comunione
spirituale fra Cristiani di diversa confessione. Senza questa comunione,
parlare di unione è privo di senso.
Mancando la comunione spirituale, voler comporre sulla carta
formulazioni rivolte a redigere l’unità di fede vuol dire riproporre lo stesso
obiettivo il cui perseguimento portò, nel corso dei secoli, alla rottura
dell’unità.
Infatti, l’unità di fede in sé e per sé nella migliore delle ipotesi
vale solo dal punto di vista formale. Si pensi al Credo: questo simbolo della
fede oggi fa parte del bagaglio del Cristianesimo astratto (che, vale a dire, è
sintesi intellettuale a prescindere dalla varietà del concreto), ma non è
sigillo di unità, poiché dopo ci sono le diverse interpretazioni del suo
contenuto e quelle relative agli aspetti non trattati nel Credo ma connessi.
Tralasciando il fatto che la stessa formulazione del Credo fu il frutto della
prima grande rottura, quella con Ario di Alessandria e i suoi seguaci, poi
totalmente riassorbita grazie anche a un considerevole ricorso alla forza.
A cascata ci sono quindi i differenti modi di intendere la Chiesa, la
sua organizzazione, il sacro, e chi più ne ha ne metta. Con l’aggravante che
nel corso dei secoli le “scuole di pensiero e di vita” delle varie Chiese di
volta in volta specificatesi hanno sviluppato e sedimentato proprie tradizioni,
teologiche, spirituali ed ecclesiali non collimanti con quelle altrui e ormai
dotate di carattere identitario.
Schematizzando, le parti in causa nel dialogo sono tre: Chiesa
cattolica, Chiesa ortodossa (col suo essere “Chiesa di Chiese”), galassia delle
Chiese protestanti. In questa triangolazione le tre parti si rapportano fra
loro in modo variabile, a seconda che siano considerate sul piano teologico o
sul piano culturale (in senso ampio). Traduciamo.
Teologicamente (e dogmaticamente) la contrapposizione è enorme fra
Cattolicesimo e Protestantesimo, mentre è senz’altro minore - pur esistendo, e
riguardando aspetti importanti - fra Cattolicesimo e Ortodossia. Al contrario,
sul piano culturale Cattolicesimo e Protestantesimo sono fra loro più vicini
(si pensi all’enorme influenza culturale esercitata su entrambi da Agostino
d’Ippona), cosa che per gli Ortodossi si manifesta nel condividere cattolici e
riformati una rilevante perdita di senso del sacro, per quanto a livelli e
gradi diversi. E oggi nell’agone ecumenico i rapporti migliori solo fra
anglicani (e a volte valdesi) e ortodossi.
Gli illustri teologi e prelati impegnati nelle varie Commissioni
teologiche in cui si lima, taglia, cuce e smussa per redigere formulazioni
accettabili da tutti (magari poi lette solo dagli addetti ai lavori e da
qualche curioso) le differenze teologiche e culturali non appaiono agevolmente
superabili. In più, le proposizioni attentamente confezionate a tavolino
corrono il rischio di restare lettera morta, o perché rigettate o perché
accettate solo superficialmente dalle rispettive Chiese e/o dai loro fedeli. Né
va trascurato un particolare fondamentale: nel corso dei secoli la Chiesa
cattolica ha praticamente dogmatizzato una tale quantità di questioni
teologiche da far domandare a chiunque come si possano avere validi risultati
sul piano teologico che non cozzino contro tali dogmi e che siano accettabili
per i non-cattolici.
Si pensi alla questione - grande come una casa - del “primato” del
Papa, implicante potere di giurisdizione sulla Chiesa unita e infallibilità
dogmatica ex cathedra Petri. Primato
a tutt’oggi ribadito dal Vaticano - nella teoria e nella pratica - seppure si
parli di esigenza di una sua … “riformulazione”. Nuove formule che lascino
inalterata la sostanza sarebbero rifiutate da protestanti e ortodossi, e mutare
la sostanza (peraltro dogmatizzata) vorrebbe dire smantellare l’attuale
configurazione del papato. Ammesso che si trovi un papa disposto a ciò,
sopravviverebbe egli mai nei Palazzi apostolici, o farebbe la “prematura” fine
di Giovanni Paolo I?
In teoria - ma solo come esercitazione retorica - ci sarebbe una
soluzione per superare l’ostacolo della massiccia dogmatizzazione cattolica, ed
essa si ispira al precedente della Chiesa ortodossa, che dalla separazione di
Roma a oggi non ha più celebrato Concili ecumenici: cioè a dire, la Chiesa
cattolica dovrebbe prendere atto della non-ecumenicità dei Concili da essa
indetti dal 1054 al Vaticano II. Figuriamoci!!!
Non si può infine trascurare il fatto che sullo svolgimento del dialogo
gravano fosche nubi dovute a eccessi di proselitismo o inerenti a non infondati
timori per egemonismi non solo teorici, che spesso si manifestano anche “fuori
dalle quinte”.
I problemi del dialogo con
gli ortodossi
In questo
ambito più che mai si deve diffidare dalle prese di posizione ufficiali. Nel
lontano dicembre del 1983 uno di maggiori teologi ortodossi vivente, padre
Alexandre Schmeman, pubblicò un intervento a tutt’oggi attualissimo (nella sua
integralità esso è visibile su internet: “Il momento della verità per
l’Ortodossia”, in
http://digilander.libero.it/ortodossia/Ecumenismo11.htm). In quella sede egli mise in guardia il lettore occidentale sul fatto che
«nella Chiesa
ortodossa, non si può senz’altro identificare quant’è “ufficiale” con la voce
della Chiesa. La storia ci ricorda che nessuna dichiarazione ufficiale ha avuto
effetto costringente fintantoché non è stata accolta dall’intero corpo della
Chiesa, nonostante sia molto difficile, se non impossibile, definire con
precisione come tale accoglimento possa essere realizzato ed espresso. (…) Oggi
(…) la posizione “ufficiale” sembra pericolosamente isolata non tanto dai
sentimenti o dalle reazioni dell’ortodosso “medio” quanto dalla realtà ortodossa
stessa, ossia dalla totalità dell’ esperienza spirituale, teologica e liturgica.
Solo questa può, infatti, vivificare e autenticare gli atti della politica
ecclesiastica. Ora, la partecipazione ortodossa al Consiglio Ecumenico delle
Chiese si situa precisamente al livello della “politica ecclesiastica”».
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Benedetto XVI e Bartolomeo patriarca di Costaninopoli |
L’altro elemento negativo messo in rilievo da Schmeman riguarda la
mancanza (perdurante tutt’oggi) della formazione di un linguaggio comune,
talché é pure mancato un incontro effettivo con le altre parti, le protestanti
e la cattolica. D’altro canto non si deve trascurare un aspetto importantissimo:
la mentalità occidentale prevalente (che però opera anche nelle rispettive
Chiese) tende a visualizzare il problema della rottura confessionale cristiana
in termini di contrapposizione Cattolicesimo/Riforma protestante. La
prospettiva ortodossa, invece, è differente, poiché per essa la rottura è fra
Oriente e Occidente cristiani. Questo viene a significare che l’Ortodossia non
intende sé stessa come un terzo polo del dialogo, bensì come un secondo polo
che si confronta con quello occidentale nella sua globalità. La conseguenza è
che per il mondo ortodosso non solo il distacco della Chiesa di Roma dall’unità
con la Chiesa orientale è nata da una deviazione della prima dalla Tradizione,
ma la stessa Riforma protestante - per dirla sempre con Schmeman -
«appare come una crisi all ’interno della deviazione globale dell’Occidente nei
riguardi dell’Ortodossia, come uno sviluppo specificamente occidentale, legato
alle condizioni e ai presupposti propri all’Occidente. Ecco perché la questione
ecumenica primordiale, il punto di partenza dell’intero movimento ecumenico è,
dal punto di vista ortodosso, il seguente: cos’è successo tra Oriente e
Occidente? Quando e come è iniziata questa separazione? Qual è la sua vera
portata e il suo contenuto? Bisognerebbe, in altri termini, rivalorizzare il
passato, questa storia che è terminata, ad un certo momento, d’essere la storia
comune del Cristianesimo originale. Il movimento ecumenico per avere tutto il
suo senso e la sua fecondità, dovrebbe porre al centro delle sue ricerche
quest’iniziale tragedia che fu determinante per la Chiesa universale»
Ma niente di tutto questo si è realizzato, e nella sostanza il
movimento ecumenico risulta dominato dalle sole problematiche teologiche e
spirituali dell’Occidente. E ormai la formazione il consolidamento di
specifiche tradizioni occidentali rende assai meno pregnante il proposito
ortodosso di riproporre la Tradizione che era stata comune quando, però, c’era
essa sola.
Il persistere di contrasti
oggettivi anche sanguinosi
Su questo versante entrano in gioco egemonismi e altre questioni
“politiche” di grande rilevanza pratica. Per quanto riguarda i rapporti fra
Cattolici e Protestanti - a parte l’Irlanda del Nord, in cui il contrasto
religioso “copre” la lotta di classe - oggi i problemi sono essenzialmente
correlati con la contrapposizione fra proselitismo cattolico e diffusione di
sette evangeliche finanziate dalle case-madri statunitensi, specialmente in
America latina.
Più complicati e conflittuali si presentano i rapporti fra cattolici e
ortodossi in certe aree. Qui c’è una non terminata tradizione plurimillenaria
di lotte e guerre reciproche, il cui ultimo episodio noto risale alla fine del
secolo scorso sulla stessa fascia frontaliera che divideva l’Impero romano d’Occidente
da quello d’Oriente, prima; e poi il mondo ottomano da quello asburgico e
cattolico. La separazione fra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente non è mai
andata giù a quest’ultima, che ha sempre cercato di indebolire e fagocitare la
prima, in base a pretese di unicità e universalità: cioè di cattolicità
orizzontale. Una curiosità linguistica espressa in greco: la diffusa traduzione
in italiano dei titoli di cui si fregiano le due Chiese le dà entrambe, per
limiti linguistici dell’italiano, come “cattoliche”. Ma così non è. Per gli
Ortodossi la Chiesa di Roma è katolikí,
cioè universale, ma ogni Chiesa ortodossa (e la Chiesa delle Chiese nella sua
unità) invece è katholikí, vale a
dire “secondo il tutto”, “in possesso di tutto ciò che le serve”.
Qualsiasi libro di storia dei rapporti fra le due Chiese è pieno di
tentativi di sopraffazione, guerre offensive e difensive, guerre civili in cui,
a prescindere dalle cause strutturali ciò che dà gusto a scannare l’avversario
è la sua appartenenza confessionale. E nella parte orientale dell’Europa la
memoria storica dei popoli è di gran lunga meno labile di quella degli Europei
occidentali; talché la percezione di “prossimità” di un passato in teoria
lontano, rende acuto il timore della sua ripetizione in costanza degli stessi
presupposti che lo determinarono.
Sul versante in questione, oltre a tale problema di temporalizzazione,
c’è il fatto che l’imperialismo del Vaticano non è mai cessato, e la pratica
del proselitismo - spinto o subdolo - crea grosse complicazioni, alimenta la
diffidenza di sempre e causa rinnovate ostilità. Nei paesi a maggioranza
cattolica o protestante il proselitismo ortodosso è pressoché assente, per cui
il fatto di doverlo subire “a casa propria” è molto sgradito. Ovviamente i
passaggi da una Chiesa all’altra esistono, e bilateralmente. Tuttavia la prassi
ortodossa consiste nel verificare con attenzione motivazioni e fondamento delle
richieste di ammissione, e non tutte sono accolte. Ad ogni modo nei paesi
oggetto di diaspora ortodossa si è intanto formato un clero nazionale.
Il proselitismo cattolico è forte nei paesi storici dell’Ortodossia, e
per l’intensità e (spesso) la prepotenza crea intensi dissapori, denuncia,
rappresaglie. Qui la punta di diamante del proselitismo cattolico sono gli
esponenti del rito bizantino, sezione particolare del Cattolicesimo di cui
condivide la supremazia papale e la teologia, ma con rituale liturgico e
vestimenti dei preti uguali a quelli dell’Ortodossia. Dagli ortodossi sono
detti spregiativamente “Uniati” o anche “travestiti”. La loro origine risale al
Sinodo che nel 1596 sancì a Brest-Litovsk l’unione con Roma di alcuni vescovi
dell’Ucraina; essi furono poi imitati da vescovi ruteni subcarpatici, romeni
transilvani e galiziani.
L’intenzione era di creare - per gli interessi politico/religiosi
polacchi e asburgici - una situazione ecclesiale che attraesse fedeli ortodossi
nell’orbita cattolica, ma dando loro l’impressione di non aver abbandonato la
Chiesa di origine. Per il mondo ortodosso le conseguenze negative erano di
vario tipo, e non si esaurivano nell’intento truffaldino: sul piano dottrinario
con gli Uniati si era realizzata un’inammissibile dissociazione fra la realtà
teologica di una Chiesa e il suo rituale liturgico, sul piano pratico nell’unica
parte dell’Europa orientale non sottoposta al controllo islamico l’Ortodossia
veniva a subire gli attacchi del Cattolicesimo. Ovvio che s’incrementasse la
sindrome da accerchiamento sorta quanto meno dal saccheggio di Costantinopoli
(1204) da parte della cosiddetta Quarta Crociata, e poi mai venuta meno.
La conclusione è che se il proselitismo cattolico di per sé è del tutto
sgradito, quelle effettuato tramite gli Uniati è considerato un insulto.
Se nel passato cattolici di rito bizantino e ortodossi hanno avuto i
propri martiri (i più noti sono Afanasij di Brest ucciso dai cattolici e
Giosafat Kuncewycz ucciso dagli ortodossi; entrambi santificati), oggi la
situazione non può essere definita davvero migliore. Vanno messe in conto due
realtà: le conseguenze, per ora solo latenti, del bagno di sangue nella ex
Jugoslavia della fine del secolo scorso, e le conseguenze attuali del crollo
dei regimi “comunisti”. A cominciare dall’Ucraina il ritorno della libertà ha
portato a una vera e propria resa dei conti fra cattolici di rito bizantino in
precedenza perseguitati e ortodossi. Con l’aggiunta delle conseguenze del
proselitismo, si può dire che lì l’ecumenismo è completamente saltato.
La difficoltà del dialogo con
il Cattolicesimo e nel Cattolicesimo
In realtà dialogare fra acattolici e cattolici è facile e agevole nei
limiti in cui ci si muova nel senso da questi ultimi voluto. O, per meglio
dire, nel senso voluto dal Vaticano. Chiunque abbia partecipato a questo
dialogo può dare atto del gelo che si crea nell’atmosfera quando si passa,
dalle espressioni di felicità quasi beota per ciò che unisce, alla messa a
punto di ciò che divide argomentando in favore di posizione che il
Cattolicesimo ha sempre contrastato (a dir poco). Naturalmente è possibile
trovare teologi cattolici disposti a convenire che sul problema trinitario
sarebbe meglio riprendere il discorso nei termini in cui era prima che Agostino
di Ippona ci mettesse le mani; oppure propenso a vedere nella “Immacolata
Concezione” più una mossa politica del papato che non una posizione teologica
fondata biblicamente e tradizionalmente. Incontri del genere per i
non-cattolici sono piacevoli, anche fruttuosi, e fanno ben sperare. Poi però -
prima o poi - scatta il guareschiano “contrordine fratelli” da oltre Tevere, e
allora per il teologo cattolico “ben intenzionato” le possibilità sono due:
allinearsi con una certa celerità, oppure resistere e difendere le proprie tesi
contro i diktat della propria
gerarchia. In entrambi i casi avviene che il versante non-cattolico perde un
interlocutore degno di questo nome.
Casi del genere rivelano solo una cosa: esistono per la Chiesa
cattolica ben definiti limiti dialogici con le altre Chiese che non vanno
superati fino a nuovo ordine (ammesso che esso possa mai arrivare). Ancora più
ferrei sono i limiti riguardanti il versante - che qui non trattiamo - dei
rapporti con le religioni non-cristiane, con specifico riferimento a quelle
orientali. Lo attestano i due casi emblematici del gesuita indiano Anthony De Mello (1931-1987) e
del suo confratello belga Jacques Dupuis (1923). Il primo fu condannato nel
1998 dall’organismo pontificio erede diretto dell’Inquisizione, e il secondo
nel 2000 ha
dovuto fare ciò che avrebbe evitato il rogo a Giordano Bruno: essere umiliato e
chinare la testa. Era accaduto che il pensiero teologico di entrambi risultava
influenzato da moduli ed elementi di quell’Induismo che essi conoscevano a
menadito, ricavandone una sintesi interessante. Ma questo non doveva succedere,
ed ecco la repressione. Che senso ha, quindi, parlare e straparlare di
ecumenismo?
Il dimenticato insegnamento
profetico di Vladimir Solov’ëv
Uno dei primi ecumenisti russi, Vladimir Solov’ëv (1853-1900), in uno
scritto del suo ultimo anno di vita - il Racconto
dell’Anticristo - ha lasciato un ammonimento tanto profetico quanto
inascoltato. Eppure avrebbe fra l’altro il pregio di fare risparmiare un sacco
di tempo, perso invece in sterili confronti teologici; in buona sostanza
l’ammonimento era: con l’avvento dei tempi bui dell’Anticristo ciascuno nella
sua Chiesa sia un buon cristiano, fedele ai suoi valori senza farsi sviare dal
male. Nel confronto scontro con l’Anticristo e nei Tempi Ultimi tutti i nodi si
scioglieranno perché verranno oltrepassati.
Ma per fare questo bisogna avere tanta fede, credere per “essere”, e
non credere per credere e poi tanti saluti.
Molto probabilmente non c’è alternativa. E non sarebbe tale la mera
rinuncia alle differenze teologiche per puntare a un ipotetico Cristianesimo
soltanto etico, deteologizzato e desacralizzato; anche perché siffatto
“pensiero religioso debole”: verrebbe rifiutato da molte Chiese in quanto
frutto tipico della secolarizzazione; darebbe spazio ulteriore a religioni e
sette orientali, oltre che all’Islam; e non porterebbe a nulla, al contrario di
quanto avverrebbe con una vera rinascita spirituale, e dell’ethos che le è connesso. Ma questo non è
nell’aria. Chi vivrà vedrà.
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