Ancora le colpe dell’Occidente
Il fenomeno del
moderno jihadismo è complesso, insidioso e in espansione, manifestando propaggini
crescenti anche all’interno della diaspora musulmana e tra i convertiti da
altre religioni, occidentali inclusi (maschi e femmine). William Dalrymple concluse
il suo pregevole libro L’assedio di Delhi,
con questa frase:
«nulla minaccia l’aspetto
liberale e moderato dell’Islam quanto l’intrusione e l’interferenza aggressive
dell’Occidente in Oriente, proprio come niente radicalizza in modo tanto
estremo il comune musulmano, alimentando la forza degli estremisti: infatti, la
storia del fondamentalismo islamico e quella dell’imperialismo si sono spesso
strettamente e pericolosamente intrecciate. Da tutto andrebbe ricavata una
chiara lezione, poiché usando le famose parole di Edmund Burke (…) – chi non
impara dalla storia è sempre destinato a ripeterla».
È vero. Infatti,
spostandoci di molto nel tempo – per esempio all’epoca delle Crociate – constatiamo
che senza il trauma provocato dall’irruzione armata dell’Occidente non ci
sarebbe stato il teologo Taqi
ad-Din ibn Taymiyyah (1263-1328), ideologo di un protosalafismo aggressivo.
Tuttavia se si legge con attenzione la frase di Dalrymple
si nota che non casualmente vi si parla di imperialismo che alimenta “la forza
degli estremisti” islamici: cioè a dire, non la genera. Del resto come in qualsiasi
contesto religioso gli estremismi ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Restando
all’Islam, se noi assumiamo quale essenza ideologica del jihadismo di ogni
tempo (“ideologica” poiché si tratta appunto di un’ideologia armata, ossia del
rivestimento religioso di un progetto di potere totalitario) il suo essere
trans-storicamente antimoderno, misogeno e anche misantropo, rabbioso e trionfalistico,
terroristico e suicida (quest’ultimo aspetto almeno per i militanti, ma non per
i capi), intollerante al massimo, pure verso i musulmani di differente
orientamento - allora finiamo col pensare a qualcosa di precedente rispetto a ibn Taymiyyah. Essendo più noti per la
storia europea, tornano alla memoria i berberi integralisti Almoravidi (al-Muraabituun) che, dopo aver acquisito
il dominio del Marocco (Maghrib al-Aqsa), si impadronirono dal 1086 fino al 1147 anche
della penisola iberica musulmana (al-Andalus),
per poi essere sostituiti dagli ancor più integralisti Almohadi (al-muwahiduun). Entrambi, comunque,
finirono “addolciti” dalla superiore e ben diversa civiltà sviluppatasi in al-Andalus. Purtroppo, si tratta di un
risultato di altri tempi.
I media occidentali hanno
contribuito molto a presentare il jihadismo come espressione tipica dell’Islam,
probabilmente intrecciando ignoranza e mala fede. Infatti l’interpretazione del
jihad come obbligo per tutti i
Musulmani a impugnare le armi contro tutti gli infedeli è propria dell’estremismo,
oggi incarnato dal Wahhabismo (è cioè proprio di un Islam beduino) mentre per
l’Islam tradizionale la lotta armata serve a respingere un’aggressione. Se l’imperialismo
occidentale è stato – per così dire – il detonatore moderno e contemporaneo,
tuttavia l’esplosivo già esisteva, e poteva essere attivato in vario modo,
anche endogeno. Generalmente viene additata al riguardo la responsabilità degli
Stati Uniti; intendiamoci, essa esiste ma è recente. Ancora una volta bisogna
risalire alla fine della Grande Guerra e individuarvi il ruolo nefasto
dell’imperialismo britannico, cioè l’appoggio da esso dato alla vittoria della
dinastia dei Saud, espressione del radicalismo wahhabita, nella penisola araba.
Con l’enorme ricchezza proveniente dalla scoperta dei pozzi petroliferi,
automaticamente i Sauditi si trovarono a disporre di un impareggiabile
vantaggio sui loro rivali, ben più moderati e aperti, e l’abbondanza di
petrodollari gli consentì di estendere la loro influenza in tutto il mondo
islamico costituendo una rete di moschee e madrase
e cooptando a man bassa personalità e istituzioni islamiche. A ciò si aggiunga
quando accaduto in Egitto nello stesso periodo, dove il dominio britannico si
alleò con la monarchia di origine turco-albanese (quindi erano entrambi
estranei al paese) con il comune interesse per il sorgere e rafforzarsi di una
realtà politica che potesse contrastare il partito laico Wafd (Delegazione) che era in prima linea per l’indipendenza, la
parlamentarizzazione della vita politica e la modernizzazione. Un siffatto contraltare
non poteva che essere di matrice religiosa, ed ecco lo sviluppo della Fratellanza Musulmana. Il risultato è
l’Egitto odierno, diventato centro di un diffuso focolaio islamista.
Oggi il fenomeno jihadista è ben più vasto, complesso e pericoloso, anche
in ragione dell’attuale debolezza degli
anticorpi interni al mondo musulmano. Questo fa sì che la retrocessione sul
piano culturale, di cui il jihadismo è portatore per sua stessa natura, si
espanda enormemente, col rischio di marginalizzare la cultura islamica tradizionale,
dotata di ben altra qualità e altro spessore, giacché – se non altro – non ci
sarebbe stata la civiltà dei secoli d’oro dell’Islam. Al momento, tuttavia,
questa cultura islamica non riesce ad attivare le proprie giuste risposte al
jihadismo. Ne parleremo più avanti, ma resta la concorrenza in modo notevole di
azioni e omissioni dell’Occidente. Sta di fatto che tutta una serie di interventi
arroganti, autoritari e violenti non poteva comunque non provocare reazioni
che, nel fallimento delle ideologie politiche di tipo laico, dovevano per forza
caratterizzarsi con connotazioni islamiche. Sul piano qualitativo è come se
fossero trascorsi secoli dal ventennio 1960-70 del secolo scorso, quando le
società musulmane ancora risentivano di forti influssi occidentali - culturali,
sociali e politici - e panarabismo e/o socialismo autoctono erano temi e ideali
diffusi; e tutto ciò riusciva a fungere da argine oggettivo all’azione più o
meno sotterranea delle correnti islamiche radicali in azione a partire dagli
anni ’20, propagandando uno pseudoritorno all’Islam delle origini e il ripudio
di ogni tipo di modernità, in primo luogo di quella occidentale vista come imposizione
colonialista.
La degenerazione dei regimi “laici” in abissi di corruzione e autoritarismo
(nella migliore delle ipotesi) ha senz’altro svolto il suo ruolo, ma è
difficile negare la responsabilità dell’imperialismo nell’ulteriore e poderoso
alimento all’estremismo islamico. Sono state notevoli la rapacità economica e
militare, nonché la cinica incoscienza nello sfruttare (e anche istigare) conflitti
locali, magari nell’illusione di far pagare il sanguinoso conto solo a gente tutto
sommato “di colore” e priva di determinati e preziosi passaporti occidentali.
Ma è dal 1979 che l’imperialismo ha perso la testa, inanellando una serie
terribile di errori, incompetenze e crimini originati da devastanti deliri di
potenza; è cioè dalla vittoria della rivoluzione islamica in Iran che gli
eventi sono precipitati.
Non vi è dubbio che l’avvento di Khomeini abbia dato inizio all’obiettiva
destabilizzazione di tutta l’area, non foss’altro ponendo le basi per una
consapevole riscossa sciita, i cui prodromi già si erano manifestati in Libano
col movimento Amal. Ad aggravare il
tutto ci si sono messi gli Stati Uniti, comportandosi come se avessero “perso
la bussola”, anche in rapporto ai loro interessi al di là del breve periodo; da
qui il contributo massiccio all’ulteriore destabilizzazione aprendo la via a
localismi, conflitti interetnici e interreligiosi, causa di un numero enorme di
morti non solo nel Vicino e Medio Oriente, ma altresì nello stesso Occidente.
Importante l’invasione
dell’Iraq nel 2003, quando George W. Bush – esponente paradigmatico della già
leggendaria ignoranza storica e geografica dei politici statunitensi – con
quell’iniziativa, per così dire, tolse l’architrave che sosteneva l’assetto dell’area.
Un assetto disegnato con notevole artificialità e a proprio uso e consumo da
Gran Bretagna e Francia, sulle spoglie dell’impero ottomano dopo la Grande
Guerra, ed estremamente delicato, precario e facilmente squilibrabile. Lo
sconvolgimento dell’asse iracheno – in assenza di un progetto globale
alternativo (ammesso e non concesso che fosse individuabile) da realizzare
subito (ammesso che lo fosse) – non poteva non creare una reazione a catena.
Bush invocò la lotta al terrorismo per aggredire l’Iraq, paese prima d’allora
del tutto estraneo ai fermenti jihadisti; oggi invece ne è il centro, a scapito
della stessa al-Qaida, e non casualmente:
la politica di Bush li ha attirati come mosche, e in più ha favorito l’alleanza
fra essi e i seguaci “laici” di Saddam Husayn.
Vanno messe in conto a carico dell’Occidente pure le enormi quanto inutili
spese belliche, scontate dalle economie occidentali, dalle cosiddette classi
medie e dalla povera gente. Per non parlare del mantenimento di alleanze
cecamente strumentali con entità (per esempio l’Arabia Saudita) che sono
potenti sovvenzionatrici proprio dell’estremismo islamico. Alla fine, con l’attuale
conflitto in Iraq, vediamo che la politica statunitense è sempre più allo
sbando, pur mantenendo la precedente capacità destabilizzante. In aggiunta c’è l’inesistenza
di una qualsiasi politica estera europea (si dubita che si tratti di un male,
stante la natura imperialista dell’Ue), a parte isolate avventure francesi in
Nordafrica, fonte di complicazioni più che di soluzioni.
Neppure va trascurata l’azione occidentale sugli assetti propriamente
culturali e politici, avvenuta prescindendo del tutto da qualsiasi
considerazione per caratteristiche, esigenze e limiti dei contesti locali. In
definitiva - con un’arroganza forse ancor maggiore del passato e senz’altro
favorita dalla globalizzazione - si è voluto sottomettere il mondo islamico al modello della modernità
occidentale presentata come Modernità in quanto tale, per poi stupirsi
delle reazioni provenienti da questo mondo. La pretesa di esportare la democrazia
borghese è solo la punta dell’iceberg, la cui inconsistenza nel merito dipende
anche dall’essere ormai trascorso il tempo in cui il modello occidentale appariva
meritevole di imitazione, quanto meno a motivo della sua presunta superiorità.
Il
jihadismo di oggi
Nonostante le sue reiterate pretese, il moderno jihadismo non è né
tradizionale né punta alla restaurazione dell’originario e genuino Islam, ma si
tratta di un’innovazione che ambisce a dare vita a un diverso universalismo
islamico. La sua problematicità - per chi non ne condivida l’impostazione, e
per le società occidentali - sta nell’essere, come qualcuno ha detto, un
sottoprodotto proprio della modernizzazione globalizzata. E anche per questo
motivo è illusorio pensare che la democrazia borghese sia la o una soluzione. I
jihadisti che vivono in Occidente sono fuori dalla presa dispotica dei
governanti dei paesi musulmani; tuttavia considerano ostili e alienanti proprio
le società occidentali.
La cosa più facile, ma sbagliata, consiste nell’attribuire al retroterra
islamico tout court la matrice di
questo jihadismo, mentre esso non è affatto esponenziale della globalità del
mondo musulmano, derivandone che procedere sulla linea dianzi criticata
potrebbe solo aggravare le cose. In realtà sarebbe meglio considerare come
sovrastrutturale il discorso religioso dei jihadisti e puntare invece al
soggiacente aspetto politico. Detto con realismo estremo, non si può escludere
che talvolta sia necessario farlo, ma certo la risposta militare non è la risposta. Anche considerato che si
tratterebbe di azione militare proprio di quell’Occidente che è parte del
problema.
L’Islam estremo e postmoderno sorto dal crogiuolo del jihadismo è suggestivo sul piano formale per quanti abbiano concluso che il
Corano, interpretato però in un certo modo, sia la panacea per la soluzione di
qualsiasi problema. E l’aspetto formale nel jihadismo è più importante di
quanto si possa pensare. Ricordiamoci di bin Ladin: presentatosi come un nuovo
profeta-guerriero, anche nell’abbigliamento, si atteggiava a persona
religiosamente pura, si esprimeva salmodiando in arabo coranico (e quindi col
fascino dell’arcaico) non trascurando accenti quasi mistici; in definitiva
creando un modello antitetico agli Arafat o ai Saddam Husayn. A parte lui, il
jihadismo nel suo complesso (se si chiudono gli occhi sulla sua estrema e
gratuita crudeltà legittimata col riferimento a Dio; cosa del resto non nuova
nella storia delle religioni) esercita il fascino derivante dall’esaltare il
combattimento, dal forgiare il fisico nella lotta, dalla costanza nell’azione, dalla
vita semplice rinunciando a quanto le sia antitetico, dagli anatemi contro i corrotti
dell’Islam e l’occidentalizzazione dei costumi, dalla mistica delle armi, dalla
prospettiva di purificarsi nella lotta e con sicurezza ascendere al Paradiso.
Il jihadista
Si tratta di una figura particolare, evidentemente con forte capacità di
attrazione a 360° se si considera che, a parte i volontari dai paesi islamici,
sono tra i 2500 e i 3000 i cittadini
europei andati a combattere e farsi ammazzare in Siria e Iraq tra
i gruppi radicali. Il 25 novembre del 2007, il quotidiano spagnolo El País, alla luce di uno studio dell’Europol,
elaborato da esperti delle polizie di Francia, Spagna, Gran Bretagna e Italia, e
sostanzialmente incentrato sui Musulmani dell’emigrazione in Europa, ha
presentato il radicalismo come frutto di frustrazioni sociali, lavorative e
politiche, pur non rilevando un profilo unico, ovvero una tipologia unitaria,
per i jihadisti. Vi risultano coinvolti soggetti giovani e non giovani, con e
senza formazione universitaria, criminali e normali cittadini, persone in precedenza
caratterizzate come religiose ma anche indifferenti alla religione. L’accento
posto sui vari tipi di frustrazione, e sull’isolamento che ne deriva, chiama in
gioco il fallimento delle politiche di integrazione (o presunta tale) finora
praticate e le motivazioni che spingono alla guerra chi vive la modernità come un incubo: persone apparentemente integrate nel nuovo contesto, ma che tali non si
sentono, non avendovi trovato l’integrazione voluta. Se attorno ci si urta con
islamofobia, razzismo ed emarginazione sociale, allora cresce la sfiducia verso
il contesto ospitante percepito come ostile, e nel migliore dei casi
indifferente, creandosi un senso di isolamento e impotenza. Da qui l’acuto
bisogno di un status, di un’appartenenza.
Uno dei maggiori strumenti di cooptazione sarebbe internet, vale a dire i
siti di propaganda ideologica estremista dove sono indicati libri sulla jihad
e si trovano appositi video a contenuto ideologico, istruzioni sulla
fabbricazione di bombe e sulla lotta armata in genere. Assume poi un forte
ruolo l’entrata in un gruppo jihadista, in cui si abbia l’impressione di essere
positivamente considerati e di poter sviluppare la propria personalità; ciò
fino a diventare il gruppo stesso elemento integrante dell’identità personale,
di modo che fuori da esso ci si senta una nullità. Da qui è facile il passaggio
da radicale a terrorista.
Tale fenomenologia ormai riguarda anche e soprattutto il mondo dei
musulmani immigrati di seconda generazione, che soffrono di un senso di
isolamento e frustrazione maggiore di quello avvertito dai genitori. Gli
studiosi rilevano che tra i giovani in questione, e tra quelli occidentali
convertitisi all’Islam, c’è oggi anche la tendenza a “estremizzarsi da soli”,
vale a dire prima ancora di avere contatti con reclutatori. Classico il caso di
Roshonara Choudhry, studentessa del King's College di Londra, che nel 2010
accoltellò il parlamentare britannico Stephen Timms sostenitore dell’intervento
in Iraq; la ragazza non aveva alcun legame con gruppi islamici, ma si era auto-radicalizzata
attraverso internet. Tuttavia il gruppo mantiene la sua importanza, e per
l’avviamento a esso vanno tenuti presenti – oltre ai moderni media elettronici e ai social networks – anche gli ambienti
della famiglia e delle amicizie. La presenza fra i jihadisti di persone con
formazione universitaria non esclusa quella scientifica coniugandosi con la
rozzezza della cultura jihadista ancora una volta mostra come la laurea
significhi ben poco.
Secondo gli esperti il bisogno di appartenenza identitaria riguarderebbe
almeno il 25% dei jihadisti, mentre sarebbero il 5% i cosiddetti
“avventurieri”, gente in definitiva
suscettibile di mettersi sotto qualunque bandiera purché assicuri uscita dalla
noia, emozioni forti, avventura e legittimazione di violenza e crudeltà contro
i deboli. Ma una volta reclutati e passati alla fase dell’indottrinamento, tutti
i soggetti in questione effettuano una svolta che li segna in profondità: il cambio
di mentalità e di ambiente provoca un mutamento profondo che altera la visione
delle cose e ne rende problematica quella che viene chiamata deradicalizzazione.
È stata individuata, come effetto di un massiccio e accorto condizionamento
psichico, la refrattarietà a percepire messaggi e orientamenti di genere
diverso, nonché l’assenza di senso critico (ammesso che ci sia mai stato), oppure
ostacoli alla sua acquisizione.
Ci sarebbe poi un altro tipo psicologico suscettibile di compiere il grande
salto esistenziale: il “bisognoso di vendetta”, quale modo per sfogare la
frustrazione in quanto o si sente vittima di una società che ne blocca le
aspirazioni e lo rende infelice, oppure attribuisce a questa società una parte
attiva nell’umiliazione del mondo islamico. Tale motivazione vale soprattutto
per chi sia nato musulmano, giacché ha assimilato una mentalità che attribuisce
maggiore importanza a onore e dignità, e un ruolo qualitativamente ben minore alla
libertà individuale o alla colpa. Di modo che l’oggettivo fallimento di tanti
Stati islamici nei loro tentativi di affermazione incide sui sentimenti di onore
e dignità, suscitando sentimenti di rabbia e rivolta per l’umiliazione che ne
deriva. Per inciso, non mancano psicologi che parlano pure di rabbia
narcisistica alla base di questo atteggiamento apparentemente rivolto a valori
meta-personali, ricordando i casi di estremisti islamici che, dietro
l’indignazione per come l’Occidente tratta i Musulmani, nascondevano in realtà problemi
famigliari, in special modo nel rapporto col padre.
Ma non vanno trascurati neppure (anzi!) gli aspetti più materialistici, presenti
(seppure in modo non identico) sia nell’emigrazione sia nei paesi
tradizionalmente musulmani, quand’anche più visibili in questi ultimi: si
tratta del blocco alla mobilità socio-economica. Nei paesi occidentali esso è
dovuto essenzialmente al razzismo, alla xenofobia, allo sfruttamento
dell’immigrato o da parte di imprenditori o di organizzazioni criminali. Nei
paesi musulmani le cause dipendono dalla stratificazione sociale interna politicamente
fondata e dagli inerenti livelli di corruzione. In buona sostanza, la
qualificazione personale è del tutto ininfluente, mentre i meno qualificati, o
addirittura mediocri, se adeguatamente “ammanigliati” possono salire a posizioni
di superiori a prezzo della fedeltà verso i propri padrini; e quindi diventando
a loro volta strumenti dell’assetto oppressivo e inibente. Si ha quindi una
ridottissima mobilità sociale che elimina la competenza, e a sua volta la
mancanza di competenza porta all’inefficienza delle istituzioni e dei servizi.
Per gli esclusi sono esito normale rabbia, disperazione e desiderio di
vendetta, e da qui la violenza in un contesto dove la vita umana non ha alcun
valore; per nessuno. Il tessuto sociale non privilegiato è come un brodo di
coltura per il jihadismo e per le sue propaggini che si radicano socialmente;
ed è ovvio che la caduta dei despoti laici lasci campo libero ai sostenitori
dell’Islam radicale, con quel che poi consegue in termini di nuova oppressione
e ulteriore sottosviluppo.
Rimedi? Di chi e come?
Individuare le cause sociali e psicologiche del problema è tutt’altra cosa
che rimuoverle, dentro e fuori dall’Occidente. E i segnali sono tutt’altro che
incoraggianti. La vera risposta deve essere politica, ma se si cerca chi almeno
cominci ad attuarla si sbatte sul vuoto, per l’assenza dovunque di forze
rivoluzionarie capaci di farlo. Qualcosa più concretamente si potrebbe fare sul
piano culturale, ma innanzi tutto proprio da parte musulmana. Anche qui la cosa
presenta le sue difficoltà, ma neppure è impossibile. Partiamo dal fatto che
non esiste un modello unico di Islam, bensì ce ne sono vari in base alle interpretazioni
di differenti scuole, essendo il Corano (e i detti del Profeta) suscettibili di
un’ermeneuta non univoca.
Ragionando con un po’ di semplificazione, si è avuto un Islam dei Califfi,
intellettualmente vivace e proseguito infine nel cosiddetto modello
turco-egiziano, e accanto a esso un Islam beduino puritano e intollerante,
ricettacolo di tutte le chiusure, limitazioni e pulsioni violente indotte dall’aspro
e isolato ambiente del deserto, scarsamente comunicativo con le più complesse e
multiformi società esterne e più esposto al diffondersi di ideologie settarie.
I complessi problemi sociali e psicologici dianzi evidenziati sarebbero suscettibili
di essere alleviati in vario modo e con risultati qualitativamente di rilievo
mediante un’azione culturale alternativa e compensativa a vasto raggio, che però
dovrebbe essere svolta innanzi tutto dall’istruzione pubblica. E qui sta il
guaio, almeno nella situazione attuale. Nella maggior parte delle società musulmane
la decadenza delle istituzioni anche culturali ha prodotto un sistema di
insegnamento deculturalizzato e tale da favorire il diffondersi dell’Islam
beduino, per l’isolamento mentale e il fanatismo che produce. In questo sistema
sono importanti le risposte precostituite a scapito delle le domande e soprattutto
della logica che le produce. Inoltre una gran parte di giovani viene educata in
scuole di istituzioni religiose, sorte come funghi, di scarso valore ma facilmente
accessibili anche da chi viva in piccoli centri o villaggi e sia privo di
risorse materiali e pure dei minimi requisiti di istruzione. Costoro non possono
avere di più. Ovviamente il risultato è il diffondersi dell’oscurantismo
culturale, rafforzato da una rozza, semplicistica, spesso antropomorfa e
acritica interpretazione della religione. Ulteriore conseguenza di tale dequalificazione
è la scarsa utilizzabilità di quanti provengano da questo tipo di insegnamento
ai fini dello sviluppo scientifico, tecnologico, industriale, commerciale e
sociale.
Non che le cose vadano molto meglio in centri di insegnamento
apparentemente superiori. Si prenda la famosa università teologica al-Azhar,
dove gli studi si incentrano su valori opposti alla valorizzazione della
diversità e del pluralismo nella conoscenza. Sembra lontano anni-luce (invece
ne sono passati solo 70) il periodo in cui un illustre personaggio come il
Grande Imam di Al Azhar, Mustafà Abd ar-Raziq, aveva insegnato addirittura alla
Sorbona di Parigi. Buona parte della cultura attuale nel mondo musulmano
consiste nel ruminare e ruminare senza tregua concetti e sistemi elaborati otto
secoli fa da religiosi islamici non molto “progressisti”. Inoltre la più parte
delle persone “di cultura” non legge altro che testi in arabo, cioè in una lingua
in cui sono tradotte molte poche opere provenienti da altri idiomi. Ne deriva la
scarsa conoscenza dei risultati della rivoluzione scientifica (incluse le
scienze umane e sociali) iniziata in Occidente già dal secolo XIX. Assai scarso
è il livello di conoscenza delle altre religioni, della filosofia (anche di
quella sviluppatasi in passato nel mondo islamico), delle letterature
straniere, della storia di altri paesi, delle lingue straniere, per non parlare
della psicologia e della sociologia. Non a caso l’attuale contributo di
islamici allo sviluppo culturale dell’umanità è pressoché nullo, e tale rimarrà
se le istituzioni islamiche continueranno a espellere chiunque manifesti
spirito critico e chieda cambiamenti.
Ci sarebbe comunque un ruolo da svolgere da parte di centri religiosi
islamici dotati di una certa autorevolezza e capaci di contribuire a diffondere
una cultura religiosa meno approssimativa e più ufficiale di quella corrente. È
questa la strada che per esempio, in alternativa allo scontro ideologico
frontale, intenderebbe seguire Putin, anch’egli alle prese con il jihadismo. In
un incontro a Ufa con i Mufti della comunità islamica della Russia, egli ha
avanzato la proposta di ricostituire la Scuola Teologica Islamica che trasmetta la
cultura tradizionale di un Islam opposto a quello jihadista. Comunque il
progetto di Putin nella sua completezza è parte di una dimensione di tipo
imperiale, essendo volto a dare ai Musulmani di Russia il senso di
appartenenza alla più ampia realtà nazionale in cui sono circa un settimo della
popolazione, e quindi è orientato a una scuola islamica dipendente dallo Stato.
Esso ha però di positivo (almeno
per ora) il fatto di non inserirsi nel classico modello di integrazione, in cui
concretamente la tolleranza finisce col favorire la dimensione minoritaria e si
accompagna all’emarginazione culturale invece di superare il concetto di
“minoranza”, cioè di realtà comunque eterogenea rispetto al più vasto contesto
nazionale, per riuscire invece a farne parte integrante.
Ma non va
sottovalutata la funzione esercitabile dal mondo dei Sufi, meglio ancora se
anche dall’esterno ricevesse un qualche aiutino. Lo scorso 7 luglio il sito ANSAmed ha pubblicato un’interessante
intervista con lo Shaykh Alaa Abul
Azayem, Presidente della Federazione Mondiale degli Ordini Sufi, vale a dire la
corrente mistica dell'Islam. In essa Azayem esprime tutta la sua contrarietà e
opposizione al radicalismo islamico, jihadista e non, giustamente osservando
l’importanza a tutto campo del ruolo dei Sufi. Nel sottolineare il ruolo della
specifica confraternita da lui guidata (la tariqa
Azmiya) nella lotta ideologica contro il jihadismo ha fatto presente l’avvenuta
edizione di libri e supporti audio come controinformazione. All’atto pratico fu
proprio l’elezione di Morsi, e quindi del fondamentalismo sunnita, a far sì che
i Sufi egiziani scendessero in politica. Interessante e foriero di sviluppi è
che Azayem sia orientato verso il miglioramento dei rapporti col mondo sciita
quale strumento contro il jihadismo.
Tutto questo non è facile, inutile negarlo. Nei territori storici
dell’Islam difficoltà particolari derivano dai vuoti di
potere esistenti oppure dalla presenza di poteri eccessivi, dalla mancanza di
recupero delle comunità locali ai fini dello sviluppo nazionale, tanto più che
interessi imperialisti e poteri locali muovono in senso opposto. Purtroppo si
tratta di poteri forti a cui non interessa per nulla mutare in meglio le cose. Le possibilità di stimolo, diretto e/o
indiretto, in realtà non mancherebbero affatto, ma sono rimaste virtuali.
L’oscurantismo islamico ha un appoggio non indifferente nel dilagante
patriarcalismo e nella forza cogente dei vincoli famigliari: ebbene, non solo
nei paesi musulmani (ovvio) ma altresì nell’Occidente che straparla, per
esempio, di emancipazione femminile non è mai stato fatto nulla per attribuire
alle donne sia il potere legale sia la tutela in caso di opposizione
alle imposizioni di parenti o imam, magari con l’introduzione del reato di molestie religiose. Inoltre, in punto di
fatto, è stato posto in essere tutto il possibile per tagliare le gambe sia ai
laici sia alle componenti islamiche più aperte (si pensi al mondo dei Sufi), e
wahabismo, salafismo e jihadismi vari stanno minando anche quanto di positivo e
di fermenti c’era in precedenza, impedendo anche qualsiasi transizione endogena
(cioè non necessariamente a imitazione pedissequa dell’Occidente) a partire da
quella che definiremmo la premodernità islamica. Si sono aperte le porte alla
“guerra santa” e non si è capaci di contrastarla nelle forme e nei modi più
opportuni; e a dire il vero nemmeno in quelli inopportuni.
Un’ultima dietrologia oppure no?
Sul giornale
messicano La Jornada, Alfredo
Jalife-Rahme, professore all’Università Unam di Città del Messico, ha
pubblicato un inquietante articolo riprodotto dal sito multilingue Rete Voltaire. Vi si sospetta un
collegamento fra gli attuali avvenimenti iracheni e un’azione geostrategica statunitense
contro l’asse dei Brics (Brasile, India, Cina, Russia e Sudafrica) oltre tutto
avviati alla formazione di una Banca di sviluppo alternativa al Fondo Monetario
Internazionale, in effetti definitivamente annunciata giorni fa. Magari non
contro tutti i Brics, ma contro i Ric (Russia, India, Cina) in ragione della
collocazione del Califfato sunnita di al-Baghdadi e del fatto che tutti e tre i
suddetti paesi hanno problemi con minoranze islamiche più o meno consistenti e
più o meno turbolente o scontente. Il sospetto formulato da Jalife-Rahme è che
sia impossibile ignorare l’esistenza di vasi comunicanti – politici, economici
e militari - tra Ucraina, Mar Nero, Caucaso (il fattore ceceno) e Medio Oriente,
e si domanda quindi se
«Il nuovo califfato
del XXI secolo e la sua jihad globale contro i BRICS saranno parte del
“cartello globale” dei “Paesi occidentali?”».
Se le cose stessero
davvero così, la conclusione sarebbe solo una: contro il jihadismo o riescono a
sbrogliarsela da soli i Musulmani a esso ostili, oppure il jihadismo vincerà e
saranno dolori, almeno fino a quando non cessi di servire agli interessi
imperialistici, e allora gli pioveranno addosso tempeste di bombe; certo non
tanto intelligenti.
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