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lunedì 21 luglio 2014

IL MODERNO JIHADISMO, di Pier Francesco Zarcone

Ancora le colpe dell’Occidente
Il fenomeno del moderno jihadismo è complesso, insidioso e in espansione, manifestando propaggini crescenti anche all’interno della diaspora musulmana e tra i convertiti da altre religioni, occidentali inclusi (maschi e femmine). William Dalrymple concluse il suo pregevole libro L’assedio di Delhi[1], con questa frase:
«nulla minaccia l’aspetto liberale e moderato dell’Islam quanto l’intrusione e l’interferenza aggressive dell’Occidente in Oriente, proprio come niente radicalizza in modo tanto estremo il comune musulmano, alimentando la forza degli estremisti: infatti, la storia del fondamentalismo islamico e quella dell’imperialismo si sono spesso strettamente e pericolosamente intrecciate. Da tutto andrebbe ricavata una chiara lezione, poiché usando le famose parole di Edmund Burke (…) – chi non impara dalla storia è sempre destinato a ripeterla».
È vero. Infatti, spostandoci di molto nel tempo – per esempio all’epoca delle Crociate – constatiamo che senza il trauma provocato dall’irruzione armata dell’Occidente non ci sarebbe stato il teologo Taqi ad-Din ibn Taymiyyah (1263-1328), ideologo di un protosalafismo aggressivo. Tuttavia se si legge con attenzione la frase di Dalrymple si nota che non casualmente vi si parla di imperialismo che alimenta “la forza degli estremisti” islamici: cioè a dire, non la genera. Del resto come in qualsiasi contesto religioso gli estremismi ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Restando all’Islam, se noi assumiamo quale essenza ideologica del jihadismo di ogni tempo (“ideologica” poiché si tratta appunto di un’ideologia armata, ossia del rivestimento religioso di un progetto di potere totalitario) il suo essere trans-storicamente antimoderno, misogeno e anche misantropo, rabbioso e trionfalistico, terroristico e suicida (quest’ultimo aspetto almeno per i militanti, ma non per i capi), intollerante al massimo, pure verso i musulmani di differente orientamento - allora finiamo col pensare a qualcosa di precedente rispetto a ibn Taymiyyah. Essendo più noti per la storia europea, tornano alla memoria i berberi integralisti Almoravidi (al-Muraabituun) che, dopo aver acquisito il dominio del Marocco (Maghrib al-Aqsa), si impadronirono dal 1086 fino al 1147 anche della penisola iberica musulmana (al-Andalus), per poi essere sostituiti dagli ancor più integralisti Almohadi (al-muwahiduun). Entrambi, comunque, finirono “addolciti” dalla superiore e ben diversa civiltà sviluppatasi in al-Andalus. Purtroppo, si tratta di un risultato di altri tempi.


I media occidentali hanno contribuito molto a presentare il jihadismo come espressione tipica dell’Islam, probabilmente intrecciando ignoranza e mala fede. Infatti l’interpretazione del jihad come obbligo per tutti i Musulmani a impugnare le armi contro tutti gli infedeli è propria dell’estremismo, oggi incarnato dal Wahhabismo (è cioè proprio di un Islam beduino) mentre per l’Islam tradizionale la lotta armata serve a respingere un’aggressione. Se l’imperialismo occidentale è stato – per così dire – il detonatore moderno e contemporaneo, tuttavia l’esplosivo già esisteva, e poteva essere attivato in vario modo, anche endogeno. Generalmente viene additata al riguardo la responsabilità degli Stati Uniti; intendiamoci, essa esiste ma è recente. Ancora una volta bisogna risalire alla fine della Grande Guerra e individuarvi il ruolo nefasto dell’imperialismo britannico, cioè l’appoggio da esso dato alla vittoria della dinastia dei Saud, espressione del radicalismo wahhabita, nella penisola araba. Con l’enorme ricchezza proveniente dalla scoperta dei pozzi petroliferi, automaticamente i Sauditi si trovarono a disporre di un impareggiabile vantaggio sui loro rivali, ben più moderati e aperti, e l’abbondanza di petrodollari gli consentì di estendere la loro influenza in tutto il mondo islamico costituendo una rete di moschee e madrase e cooptando a man bassa personalità e istituzioni islamiche. A ciò si aggiunga quando accaduto in Egitto nello stesso periodo, dove il dominio britannico si alleò con la monarchia di origine turco-albanese (quindi erano entrambi estranei al paese) con il comune interesse per il sorgere e rafforzarsi di una realtà politica che potesse contrastare il partito laico Wafd (Delegazione) che era in prima linea per l’indipendenza, la parlamentarizzazione della vita politica e la modernizzazione. Un siffatto contraltare non poteva che essere di matrice religiosa, ed ecco lo sviluppo della Fratellanza Musulmana. Il risultato è l’Egitto odierno, diventato centro di un diffuso focolaio islamista[2]
Oggi il fenomeno jihadista è ben più vasto, complesso e pericoloso, anche in  ragione dell’attuale debolezza degli anticorpi interni al mondo musulmano. Questo fa sì che la retrocessione sul piano culturale, di cui il jihadismo è portatore per sua stessa natura, si espanda enormemente, col rischio di marginalizzare la cultura islamica tradizionale, dotata di ben altra qualità e altro spessore, giacché – se non altro – non ci sarebbe stata la civiltà dei secoli d’oro dell’Islam. Al momento, tuttavia, questa cultura islamica non riesce ad attivare le proprie giuste risposte al jihadismo. Ne parleremo più avanti, ma resta la concorrenza in modo notevole di azioni e omissioni dell’Occidente. Sta di fatto che tutta una serie di interventi arroganti, autoritari e violenti non poteva comunque non provocare reazioni che, nel fallimento delle ideologie politiche di tipo laico, dovevano per forza caratterizzarsi con connotazioni islamiche. Sul piano qualitativo è come se fossero trascorsi secoli dal ventennio 1960-70 del secolo scorso, quando le società musulmane ancora risentivano di forti influssi occidentali - culturali, sociali e politici - e panarabismo e/o socialismo autoctono erano temi e ideali diffusi; e tutto ciò riusciva a fungere da argine oggettivo all’azione più o meno sotterranea delle correnti islamiche radicali in azione a partire dagli anni ’20, propagandando uno pseudoritorno all’Islam delle origini e il ripudio di ogni tipo di modernità, in primo luogo di quella occidentale vista come imposizione colonialista.
La degenerazione dei regimi “laici” in abissi di corruzione e autoritarismo (nella migliore delle ipotesi) ha senz’altro svolto il suo ruolo, ma è difficile negare la responsabilità dell’imperialismo nell’ulteriore e poderoso alimento all’estremismo islamico. Sono state notevoli la rapacità economica e militare, nonché la cinica incoscienza nello sfruttare (e anche istigare) conflitti locali, magari nell’illusione di far pagare il sanguinoso conto solo a gente tutto sommato “di colore” e priva di determinati e preziosi passaporti occidentali. Ma è dal 1979 che l’imperialismo ha perso la testa, inanellando una serie terribile di errori, incompetenze e crimini originati da devastanti deliri di potenza; è cioè dalla vittoria della rivoluzione islamica in Iran che gli eventi sono precipitati.
Non vi è dubbio che l’avvento di Khomeini abbia dato inizio all’obiettiva destabilizzazione di tutta l’area, non foss’altro ponendo le basi per una consapevole riscossa sciita, i cui prodromi già si erano manifestati in Libano col movimento Amal. Ad aggravare il tutto ci si sono messi gli Stati Uniti, comportandosi come se avessero “perso la bussola”, anche in rapporto ai loro interessi al di là del breve periodo; da qui il contributo massiccio all’ulteriore destabilizzazione aprendo la via a localismi, conflitti interetnici e interreligiosi, causa di un numero enorme di morti non solo nel Vicino e Medio Oriente, ma altresì  nello stesso Occidente.
Importante l’invasione dell’Iraq nel 2003, quando George W. Bush – esponente paradigmatico della già leggendaria ignoranza storica e geografica dei politici statunitensi – con quell’iniziativa, per così dire, tolse l’architrave che sosteneva l’assetto dell’area. Un assetto disegnato con notevole artificialità e a proprio uso e consumo da Gran Bretagna e Francia, sulle spoglie dell’impero ottomano dopo la Grande Guerra, ed estremamente delicato, precario e facilmente squilibrabile. Lo sconvolgimento dell’asse iracheno – in assenza di un progetto globale alternativo (ammesso e non concesso che fosse individuabile) da realizzare subito (ammesso che lo fosse) – non poteva non creare una reazione a catena. Bush invocò la lotta al terrorismo per aggredire l’Iraq, paese prima d’allora del tutto estraneo ai fermenti jihadisti; oggi invece ne è il centro, a scapito della stessa al-Qaida, e non casualmente: la politica di Bush li ha attirati come mosche, e in più ha favorito l’alleanza fra essi e i seguaci “laici” di Saddam Husayn.  
Vanno messe in conto a carico dell’Occidente pure le enormi quanto inutili spese belliche, scontate dalle economie occidentali, dalle cosiddette classi medie e dalla povera gente. Per non parlare del mantenimento di alleanze cecamente strumentali con entità (per esempio l’Arabia Saudita) che sono potenti sovvenzionatrici proprio dell’estremismo islamico. Alla fine, con l’attuale conflitto in Iraq, vediamo che la politica statunitense è sempre più allo sbando, pur mantenendo la precedente capacità destabilizzante. In aggiunta c’è l’inesistenza di una qualsiasi politica estera europea (si dubita che si tratti di un male, stante la natura imperialista dell’Ue), a parte isolate avventure francesi in Nordafrica, fonte di complicazioni più che di soluzioni.
Neppure va trascurata l’azione occidentale sugli assetti propriamente culturali e politici, avvenuta prescindendo del tutto da qualsiasi considerazione per caratteristiche, esigenze e limiti dei contesti locali. In definitiva - con un’arroganza forse ancor maggiore del passato e senz’altro favorita dalla globalizzazione - si è voluto sottomettere il mondo islamico al modello della modernità occidentale presentata come Modernità in quanto tale, per poi stupirsi delle reazioni provenienti da questo mondo. La pretesa di esportare la democrazia borghese è solo la punta dell’iceberg, la cui inconsistenza nel merito dipende anche dall’essere ormai trascorso il tempo in cui il modello occidentale appariva meritevole di imitazione, quanto meno a motivo della sua presunta superiorità.

Il jihadismo di oggi
Nonostante le sue reiterate pretese, il moderno jihadismo non è né tradizionale né punta alla restaurazione dell’originario e genuino Islam, ma si tratta di un’innovazione che ambisce a dare vita a un diverso universalismo islamico. La sua problematicità - per chi non ne condivida l’impostazione, e per le società occidentali - sta nell’essere, come qualcuno ha detto, un sottoprodotto proprio della modernizzazione globalizzata. E anche per questo motivo è illusorio pensare che la democrazia borghese sia la o una soluzione. I jihadisti che vivono in Occidente sono fuori dalla presa dispotica dei governanti dei paesi musulmani; tuttavia considerano ostili e alienanti proprio le società occidentali.
La cosa più facile, ma sbagliata, consiste nell’attribuire al retroterra islamico tout court la matrice di questo jihadismo, mentre esso non è affatto esponenziale della globalità del mondo musulmano, derivandone che procedere sulla linea dianzi criticata potrebbe solo aggravare le cose. In realtà sarebbe meglio considerare come sovrastrutturale il discorso religioso dei jihadisti e puntare invece al soggiacente aspetto politico. Detto con realismo estremo, non si può escludere che talvolta sia necessario farlo, ma certo la risposta militare non è la risposta. Anche considerato che si tratterebbe di azione militare proprio di quell’Occidente che è parte del problema.
L’Islam estremo e postmoderno sorto dal crogiuolo del jihadismo è suggestivo sul piano formale per quanti abbiano concluso che il Corano, interpretato però in un certo modo, sia la panacea per la soluzione di qualsiasi problema. E l’aspetto formale nel jihadismo è più importante di quanto si possa pensare. Ricordiamoci di bin Ladin: presentatosi come un nuovo profeta-guerriero, anche nell’abbigliamento, si atteggiava a persona religiosamente pura, si esprimeva salmodiando in arabo coranico (e quindi col fascino dell’arcaico) non trascurando accenti quasi mistici; in definitiva creando un modello antitetico agli Arafat o ai Saddam Husayn. A parte lui, il jihadismo nel suo complesso (se si chiudono gli occhi sulla sua estrema e gratuita crudeltà legittimata col riferimento a Dio; cosa del resto non nuova nella storia delle religioni) esercita il fascino derivante dall’esaltare il combattimento, dal forgiare il fisico nella lotta, dalla costanza nell’azione, dalla vita semplice rinunciando a quanto le sia antitetico, dagli anatemi contro i corrotti dell’Islam e l’occidentalizzazione dei costumi, dalla mistica delle armi, dalla prospettiva di purificarsi nella lotta e con sicurezza ascendere al Paradiso. 

Il jihadista
Si tratta di una figura particolare, evidentemente con forte capacità di attrazione a 360° se si considera che, a parte i volontari dai paesi islamici, sono tra i 2500 e i 3000 i cittadini europei andati a combattere e farsi ammazzare in Siria e Iraq tra i gruppi radicali. Il 25 novembre del 2007, il quotidiano spagnolo El País, alla luce di uno studio dell’Europol, elaborato da esperti delle polizie di Francia, Spagna, Gran Bretagna e Italia, e sostanzialmente incentrato sui Musulmani dell’emigrazione in Europa, ha presentato il radicalismo come frutto di frustrazioni sociali, lavorative e politiche, pur non rilevando un profilo unico, ovvero una tipologia unitaria, per i jihadisti. Vi risultano coinvolti soggetti giovani e non giovani, con e senza formazione universitaria, criminali e normali cittadini, persone in precedenza caratterizzate come religiose ma anche indifferenti alla religione. L’accento posto sui vari tipi di frustrazione, e sull’isolamento che ne deriva, chiama in gioco il fallimento delle politiche di integrazione (o presunta tale) finora praticate e le motivazioni che spingono alla guerra chi vive la modernità come un incubo: persone apparentemente integrate nel nuovo contesto, ma che tali non si sentono, non avendovi trovato l’integrazione voluta. Se attorno ci si urta con islamofobia, razzismo ed emarginazione sociale, allora cresce la sfiducia verso il contesto ospitante percepito come ostile, e nel migliore dei casi indifferente, creandosi un senso di isolamento e impotenza. Da qui l’acuto bisogno di un status, di un’appartenenza.
Uno dei maggiori strumenti di cooptazione sarebbe internet, vale a dire i siti di propaganda ideologica estremista dove sono indicati libri sulla jihad e si trovano appositi video a contenuto ideologico, istruzioni sulla fabbricazione di bombe e sulla lotta armata in genere. Assume poi un forte ruolo l’entrata in un gruppo jihadista, in cui si abbia l’impressione di essere positivamente considerati e di poter sviluppare la propria personalità; ciò fino a diventare il gruppo stesso elemento integrante dell’identità personale, di modo che fuori da esso ci si senta una nullità. Da qui è facile il passaggio da radicale a terrorista.
Tale fenomenologia ormai riguarda anche e soprattutto il mondo dei musulmani immigrati di seconda generazione, che soffrono di un senso di isolamento e frustrazione maggiore di quello avvertito dai genitori. Gli studiosi rilevano che tra i giovani in questione, e tra quelli occidentali convertitisi all’Islam, c’è oggi anche la tendenza a “estremizzarsi da soli”, vale a dire prima ancora di avere contatti con reclutatori. Classico il caso di Roshonara Choudhry, studentessa del King's College di Londra, che nel 2010 accoltellò il parlamentare britannico Stephen Timms sostenitore dell’intervento in Iraq; la ragazza non aveva alcun legame con gruppi islamici, ma si era auto-radicalizzata attraverso internet. Tuttavia il gruppo mantiene la sua importanza, e per l’avviamento a esso vanno tenuti presenti – oltre ai moderni media elettronici e ai social networks – anche gli ambienti della famiglia e delle amicizie. La presenza fra i jihadisti di persone con formazione universitaria non esclusa quella scientifica coniugandosi con la rozzezza della cultura jihadista ancora una volta mostra come la laurea significhi ben poco.
Secondo gli esperti il bisogno di appartenenza identitaria riguarderebbe almeno il 25% dei jihadisti, mentre sarebbero il 5% i cosiddetti “avventurieri”, gente in  definitiva suscettibile di mettersi sotto qualunque bandiera purché assicuri uscita dalla noia, emozioni forti, avventura e legittimazione di violenza e crudeltà contro i deboli. Ma una volta reclutati e passati alla fase dell’indottrinamento, tutti i soggetti in questione effettuano una svolta che li segna in profondità: il cambio di mentalità e di ambiente provoca un mutamento profondo che altera la visione delle cose e ne rende problematica quella che viene chiamata deradicalizzazione. È stata individuata, come effetto di un massiccio e accorto condizionamento psichico, la refrattarietà a percepire messaggi e orientamenti di genere diverso, nonché l’assenza di senso critico (ammesso che ci sia mai stato), oppure ostacoli alla sua acquisizione.
Ci sarebbe poi un altro tipo psicologico suscettibile di compiere il grande salto esistenziale: il “bisognoso di vendetta”, quale modo per sfogare la frustrazione in quanto o si sente vittima di una società che ne blocca le aspirazioni e lo rende infelice, oppure attribuisce a questa società una parte attiva nell’umiliazione del mondo islamico. Tale motivazione vale soprattutto per chi sia nato musulmano, giacché ha assimilato una mentalità che attribuisce maggiore importanza a onore e dignità, e un ruolo qualitativamente ben minore alla libertà individuale o alla colpa. Di modo che l’oggettivo fallimento di tanti Stati islamici nei loro tentativi di affermazione incide sui sentimenti di onore e dignità, suscitando sentimenti di rabbia e rivolta per l’umiliazione che ne deriva. Per inciso, non mancano psicologi che parlano pure di rabbia narcisistica alla base di questo atteggiamento apparentemente rivolto a valori meta-personali, ricordando i casi di estremisti islamici che, dietro l’indignazione per come l’Occidente tratta i Musulmani, nascondevano in realtà problemi famigliari, in special modo nel rapporto col padre.
Ma non vanno trascurati neppure (anzi!) gli aspetti più materialistici, presenti (seppure in modo non identico) sia nell’emigrazione sia nei paesi tradizionalmente musulmani, quand’anche più visibili in questi ultimi: si tratta del blocco alla mobilità socio-economica. Nei paesi occidentali esso è dovuto essenzialmente al razzismo, alla xenofobia, allo sfruttamento dell’immigrato o da parte di imprenditori o di organizzazioni criminali. Nei paesi musulmani le cause dipendono dalla stratificazione sociale interna politicamente fondata e dagli inerenti livelli di corruzione. In buona sostanza, la qualificazione personale è del tutto ininfluente, mentre i meno qualificati, o addirittura mediocri, se adeguatamente “ammanigliati” possono salire a posizioni di superiori a prezzo della fedeltà verso i propri padrini; e quindi diventando a loro volta strumenti dell’assetto oppressivo e inibente. Si ha quindi una ridottissima mobilità sociale che elimina la competenza, e a sua volta la mancanza di competenza porta all’inefficienza delle istituzioni e dei servizi. Per gli esclusi sono esito normale rabbia, disperazione e desiderio di vendetta, e da qui la violenza in un contesto dove la vita umana non ha alcun valore; per nessuno. Il tessuto sociale non privilegiato è come un brodo di coltura per il jihadismo e per le sue propaggini che si radicano socialmente; ed è ovvio che la caduta dei despoti laici lasci campo libero ai sostenitori dell’Islam radicale, con quel che poi consegue in termini di nuova oppressione e ulteriore sottosviluppo.   

Rimedi? Di chi e come?
Individuare le cause sociali e psicologiche del problema è tutt’altra cosa che rimuoverle, dentro e fuori dall’Occidente. E i segnali sono tutt’altro che incoraggianti. La vera risposta deve essere politica, ma se si cerca chi almeno cominci ad attuarla si sbatte sul vuoto, per l’assenza dovunque di forze rivoluzionarie capaci di farlo. Qualcosa più concretamente si potrebbe fare sul piano culturale, ma innanzi tutto proprio da parte musulmana. Anche qui la cosa presenta le sue difficoltà, ma neppure è impossibile. Partiamo dal fatto che non esiste un modello unico di Islam, bensì ce ne sono vari in base alle interpretazioni di differenti scuole, essendo il Corano (e i detti del Profeta) suscettibili di un’ermeneuta non univoca[3]. Ragionando con un po’ di semplificazione, si è avuto un Islam dei Califfi, intellettualmente vivace e proseguito infine nel cosiddetto modello turco-egiziano, e accanto a esso un Islam beduino puritano e intollerante, ricettacolo di tutte le chiusure, limitazioni e pulsioni violente indotte dall’aspro e isolato ambiente del deserto, scarsamente comunicativo con le più complesse e multiformi società esterne e più esposto al diffondersi di ideologie settarie.     
I complessi problemi sociali e psicologici dianzi evidenziati sarebbero suscettibili di essere alleviati in vario modo e con risultati qualitativamente di rilievo mediante un’azione culturale alternativa e compensativa a vasto raggio, che però dovrebbe essere svolta innanzi tutto dall’istruzione pubblica. E qui sta il guaio, almeno nella situazione attuale. Nella maggior parte delle società musulmane la decadenza delle istituzioni anche culturali ha prodotto un sistema di insegnamento deculturalizzato e tale da favorire il diffondersi dell’Islam beduino, per l’isolamento mentale e il fanatismo che produce. In questo sistema sono importanti le risposte precostituite a scapito delle le domande e soprattutto della logica che le produce. Inoltre una gran parte di giovani viene educata in scuole di istituzioni religiose, sorte come funghi, di scarso valore ma facilmente accessibili anche da chi viva in piccoli centri o villaggi e sia privo di risorse materiali e pure dei minimi requisiti di istruzione. Costoro non possono avere di più. Ovviamente il risultato è il diffondersi dell’oscurantismo culturale, rafforzato da una rozza, semplicistica, spesso antropomorfa e acritica interpretazione della religione. Ulteriore conseguenza di tale dequalificazione è la scarsa utilizzabilità di quanti provengano da questo tipo di insegnamento ai fini dello sviluppo scientifico, tecnologico, industriale, commerciale e sociale.
Non che le cose vadano molto meglio in centri di insegnamento apparentemente superiori. Si prenda la famosa università teologica al-Azhar, dove gli studi si incentrano su valori opposti alla valorizzazione della diversità e del pluralismo nella conoscenza. Sembra lontano anni-luce (invece ne sono passati solo 70) il periodo in cui un illustre personaggio come il Grande Imam di Al Azhar, Mustafà Abd ar-Raziq, aveva insegnato addirittura alla Sorbona di Parigi. Buona parte della cultura attuale nel mondo musulmano consiste nel ruminare e ruminare senza tregua concetti e sistemi elaborati otto secoli fa da religiosi islamici non molto “progressisti”. Inoltre la più parte delle persone “di cultura” non legge altro che testi in arabo, cioè in una lingua in cui sono tradotte molte poche opere provenienti da altri idiomi. Ne deriva la scarsa conoscenza dei risultati della rivoluzione scientifica (incluse le scienze umane e sociali) iniziata in Occidente già dal secolo XIX. Assai scarso è il livello di conoscenza delle altre religioni, della filosofia (anche di quella sviluppatasi in passato nel mondo islamico), delle letterature straniere, della storia di altri paesi, delle lingue straniere, per non parlare della psicologia e della sociologia. Non a caso l’attuale contributo di islamici allo sviluppo culturale dell’umanità è pressoché nullo, e tale rimarrà se le istituzioni islamiche continueranno a espellere chiunque manifesti spirito critico e chieda cambiamenti. 
Ci sarebbe comunque un ruolo da svolgere da parte di centri religiosi islamici dotati di una certa autorevolezza e capaci di contribuire a diffondere una cultura religiosa meno approssimativa e più ufficiale di quella corrente. È questa la strada che per esempio, in alternativa allo scontro ideologico frontale, intenderebbe seguire Putin, anch’egli alle prese con il jihadismo. In un incontro a Ufa con i Mufti della comunità islamica della Russia, egli ha avanzato la proposta di ricostituire la Scuola Teologica Islamica che trasmetta la cultura tradizionale di un Islam opposto a quello jihadista. Comunque il progetto di Putin nella sua completezza è parte di una dimensione di tipo imperiale, essendo volto a dare ai Musulmani di Russia il senso di appartenenza alla più ampia realtà nazionale in cui sono circa un settimo della popolazione, e quindi è orientato a una scuola islamica dipendente dallo Stato. Esso ha però di positivo (almeno per ora) il fatto di non inserirsi nel classico modello di integrazione, in cui concretamente la tolleranza finisce col favorire la dimensione minoritaria e si accompagna all’emarginazione culturale invece di superare il concetto di “minoranza”, cioè di realtà comunque eterogenea rispetto al più vasto contesto nazionale, per riuscire invece a farne parte integrante.
Ma non va sottovalutata la funzione esercitabile dal mondo dei Sufi, meglio ancora se anche dall’esterno ricevesse un qualche aiutino. Lo scorso 7 luglio il sito ANSAmed ha pubblicato un’interessante intervista con lo Shaykh Alaa Abul Azayem, Presidente della Federazione Mondiale degli Ordini Sufi, vale a dire la corrente mistica dell'Islam. In essa Azayem esprime tutta la sua contrarietà e opposizione al radicalismo islamico, jihadista e non, giustamente osservando l’importanza a tutto campo del ruolo dei Sufi. Nel sottolineare il ruolo della specifica confraternita da lui guidata (la tariqa Azmiya) nella lotta ideologica contro il jihadismo ha fatto presente l’avvenuta edizione di libri e supporti audio come controinformazione. All’atto pratico fu proprio l’elezione di Morsi, e quindi del fondamentalismo sunnita, a far sì che i Sufi egiziani scendessero in politica. Interessante e foriero di sviluppi è che Azayem sia orientato verso il miglioramento dei rapporti col mondo sciita quale strumento contro il jihadismo. 
Tutto questo non è facile, inutile negarlo. Nei territori storici dell’Islam difficoltà particolari derivano dai vuoti di potere esistenti oppure dalla presenza di poteri eccessivi, dalla mancanza di recupero delle comunità locali ai fini dello sviluppo nazionale, tanto più che interessi imperialisti e poteri locali muovono in senso opposto. Purtroppo si tratta di poteri forti a cui non interessa per nulla mutare in meglio le cose. Le possibilità di stimolo, diretto e/o indiretto, in realtà non mancherebbero affatto, ma sono rimaste virtuali. L’oscurantismo islamico ha un appoggio non indifferente nel dilagante patriarcalismo e nella forza cogente dei vincoli famigliari: ebbene, non solo nei paesi musulmani (ovvio) ma altresì nell’Occidente che straparla, per esempio, di emancipazione femminile non è mai stato fatto nulla per attribuire alle donne sia il potere legale sia la tutela in caso di opposizione alle imposizioni di parenti o imam, magari con l’introduzione del reato  di molestie religiose. Inoltre, in punto di fatto, è stato posto in essere tutto il possibile per tagliare le gambe sia ai laici sia alle componenti islamiche più aperte (si pensi al mondo dei Sufi), e wahabismo, salafismo e jihadismi vari stanno minando anche quanto di positivo e di fermenti c’era in precedenza, impedendo anche qualsiasi transizione endogena (cioè non necessariamente a imitazione pedissequa dell’Occidente) a partire da quella che definiremmo la premodernità islamica. Si sono aperte le porte alla “guerra santa” e non si è capaci di contrastarla nelle forme e nei modi più opportuni; e a dire il vero nemmeno in quelli inopportuni.

Un’ultima dietrologia oppure no?
Sul giornale messicano La Jornada, Alfredo Jalife-Rahme, professore all’Università Unam di Città del Messico, ha pubblicato un inquietante articolo riprodotto dal sito multilingue Rete Voltaire. Vi si sospetta un collegamento fra gli attuali avvenimenti iracheni e un’azione geostrategica statunitense contro l’asse dei Brics (Brasile, India, Cina, Russia e Sudafrica) oltre tutto avviati alla formazione di una Banca di sviluppo alternativa al Fondo Monetario Internazionale, in effetti definitivamente annunciata giorni fa. Magari non contro tutti i Brics, ma contro i Ric (Russia, India, Cina) in ragione della collocazione del Califfato sunnita di al-Baghdadi e del fatto che tutti e tre i suddetti paesi hanno problemi con minoranze islamiche più o meno consistenti e più o meno turbolente o scontente. Il sospetto formulato da Jalife-Rahme è che sia impossibile ignorare l’esistenza di vasi comunicanti – politici, economici e militari - tra Ucraina, Mar Nero, Caucaso (il fattore ceceno) e Medio Oriente, e si domanda quindi se
«Il nuovo califfato del XXI secolo e la sua jihad globale contro i BRICS saranno parte del “cartello globale” dei “Paesi occidentali?”».
Se le cose stessero davvero così, la conclusione sarebbe solo una: contro il jihadismo o riescono a sbrogliarsela da soli i Musulmani a esso ostili, oppure il jihadismo vincerà e saranno dolori, almeno fino a quando non cessi di servire agli interessi imperialistici, e allora gli pioveranno addosso tempeste di bombe; certo non tanto intelligenti.




[1] Rizzoli, Milano 2007, p. 446.
[2] A essere precisi non va trascurato il ruolo di Sadat: rompendo con la tradizione nasseriana, si alleò con la Fratellanza per contrastare la sinistra egiziana. 
[3] Un esempio tipico è quello del divieto di alcoolici. I rigoristi lo interpretano in senso totale, mentre la scuola di Abu Hanifa lo intende semplicemente come proibizione dell’ubriachezza. 

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