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Fethullah Gülen |
Mazzette, manette e guai per il governo di Erdoğan
Con una
maxioperazione nella seconda metà di dicembre, la polizia turca ha arrestato -
non a caso senza previo avviso al ministro degli Interni - ben 80 persone accusate
di corruzione e turbativa d’asta. Si
tratta di “nomi eccellenti”, tra cui Suleyman Aslan, al vertice della statale Halk
Bank, i figli di tre ministri di Erdoğan, il magnate dell’edilizia Ali Agaoğlu,
il presidente del municipio di Fatih (nel centro di Istanbul) Mustafa Demir, e
vari alti funzionari dei ministeri dell'Ambiente e dell'Economia.
A pochi
mesi da un’importante tornata elettorale (le amministrative del 30 marzo
prossimo) il governo Erdoğan è per la prima volta nell’occhio di un vero e
proprio ciclone suscettibile di travolgerlo. Criticità e serietà del momento
sono dimostrati dal crollo della lira turca, che ha costretto la Banca centrale
a un consistente intervento di sostegno con la vendita di 400 milioni di
dollari. Questo dopo che lo scorso 10 giugno aveva già venduto 650 milioni di
dollari per fare fronte al calo della moneta turca causato dai fatti di Gezi
Park e dovendo fare i conti anche con la decisione della statunitense Federal
Reserve di attenuare la politica monetaria espansiva riducendo di 10 miliardi di
dollari gli acquisti di bond:
infatti, la Turchia ha bisogno dei flussi di valuta straniera per finanziare il
deficit delle partite correnti, oggi pari al 7,5% del Pil. E finora il paese aveva
ampiamente beneficiato dei programmi di stimolo degli Usa.
All’iniziativa
giudiziaria Erdoğan ha reagito con la sua consueta protervia; e quindi
malamente: epurazione ai vertici della polizia con la destituzione dei capi di
20 unità, tra i quali il comandante della polizia di Istanbul, generale Huseyn
Capkin, nonché decine di semplici poliziotti. Il tutto condito dalle scontate grida
di all’erta per complotti stranieri e interni, fino a prendersela espressamente
con l’ambasciatore statunitense, Francis Ricciardone, di cui il giornale Yeni Şafak (Nuova Alba) ha chiesto
l’espulsione. Stavolta, però, una qualche ragione Erdoğan sembra averla.
Finora -
a parte l’opposizione dei partiti laici in Parlamento, della fazione kemalista
dell’esercito, della magistratura laica (al momento tutti messi nell’angolo) e
le contestazioni di piazza brutalmente represse - egli è sembrato restare a
galla con una certa disinvoltura e continuando a portare avanti la
realizzazione di un quid in
precedenza solo sospettato, ma ora palese: un’agenda occulta per reislamizzare
la Turchia cancellando le riforme di Atatürk e il loro spirito. Anzi la sua
arroganza - quando di recente ha criticato la vecchia normativa “liberale”
sugli alcolici - è arrivata al punto di attribuirne la paternità a degli
ubriaconi: palese riferimento a Mustafa Kemal, amante dell’alcol fino a morire
di cirrosi epatica. E poiché Kemal è ancora un mito anche per moltissimi
islamici, l’azzardata espressione ha suscitato un putiferio e il nostro ha
dovuto fare una marcia indietro formale degna del suo amico Berlusconi.
Questa
gaffe offensiva rientra – oltre a quanto sopra detto - in un vero e proprio
momentaccio per Erdoğan. I giovani turchi che celebrano “serate della birra”
alla faccia del Corano e di Erdoğan possono pure essere archiviati come
folklore, ma i fallimenti in politica estera no. Lo slancio “neo-ottomano”
verso il mondo arabo non ha dato risultati; con Israele ha fatto solo la voce
grossa; l’appoggio ai ribelli siriani (deciso infischiandosene dell’ostilità
della maggioranza dei Turchi) è stato ancor meno proficuo e sta rivelando la
sua costosa pericolosità spingendo ad attrezzarsi contro il contagio jihadista
nella stessa Turchia e contro i rientri
dei combattenti islamisti, dopo le continue sconfitte a opera dell’Esercito
Regolare Siriano. Ora ci si mettono anche poliziotti e magistrati, arrestando
personaggi eccellenti e rivelando il marcio diffuso coperto dal miracolo
economico turco.
Il 2014
si preannuncia cruciale per Erdoğan e le sue ambizioni. Alle amministrative, si
prevede che i contraccolpi delle brutali repressioni poliziesche si tradurranno
in un calo per l’Akp, per quanto non ancora quantificabile; lo scontro interislamico
in atto dovrebbe arrecare altri colpi al partito di Erdoğan, e qui la cosa rischia
di essere più consistente. Per quanto il seguito elettorale di Gülen non sia allo
stato valutabile appieno, taluni analisti turchi sono dell’avviso che dal
versante gülenista potrebbe venire una perdita ulteriore pari all’8%. Intanto
va registrata la durissima presa di posizione di Gülen che, pur senza fare nomi
(non ce n’era bisogno), ha praticamente maledetto Erdoğan dopo l’epurazione nella
polizia.
In un
video pubblicato sul sito web herkul.org,
Gülen si è scagliato contro «chi non bada al ladro, ma persegue coloro che
danno la caccia al ladro, chi non vede l'omicidio, ma diffama gli altri,
accusando gente innocente (…) Dio bruci le loro abitazioni, mandi in rovina le
loro case, distrugga la loro unità».
Fra tre
mesi ci sarà l’ora della verità e si ritiene che una sconfitta nell’ex capitale
segnerebbe la fine delle ambizioni di Erdoğan, tra le quali di diventare
Presidente della Repubblica sempre nel prossimo anno, quando per la prima volta
il capo dello Stato verrà eletto direttamente dal corpo elettorale.
Complotto nazionale e internazionale?
Si
accennava all’ipotesi di un complotto. Cosa per niente improbabile essendo in
atto un grosso scontro di potere all’interno dell’islamismo turco, di cui l’Akp
(il partito di Erdoğan) è solo uno dei componenti. Al riguardo si può partire dalla
recente, clamorosa e significativa “conversione” politica del quotidiano Zaman (Tempo; uno dei più importanti del
paese), fino a ieri parte integrante del fronte favorevole a Erdoğan e al suo
governo. Osservatori stranieri hanno capito che qualcosa non andava, e che
erano in atto svolte significative da quando sulle sue pagine sono comparse
critiche politiche forti e fondate. Il fatto era importante poiché non si
tratta di un quotidiano qualsiasi, bensì di un importante mezzo di
comunicazione rientrante nell’Hizmet
(Servizio), il network organizzativo
dell’imam Fethullah Gülen, capo carismatico e indiscusso di quella che forse è
la più potente organizzazione islamica mondiale (sicuramente più della
Fratellanza Musulmana). E in Turchia, nella spartizione di potere interislamica,
oltre a Zaman anche l’80% della
polizia e parte della magistratura e dei servizi segreti sono in quota Gülen. In
realtà i recenti fatti - come diremo più avanti - hanno solo una maggiore
eclatanza formale, ma la rottura risale
almeno a qualche anno fa.
Fehtullah
Gülen: un nome che al 99 % degli Italiani non dice nulla mentre in Turchia dice
tante e difformi cose. Per i laici e i settori in vario modo di sinistra - cioè
per una parte della società che vede un pericolo per la modernità del paese anche
in minime sortite della religione fuori dalla sfera del privato - si tratta di
una vera e propria bestia nera, un personaggio considerato ben più pericoloso
di Erdoğan. Orbene, è opinione diffusa in Turchia (diciamo, una certezza) che
dietro all’emergere degli scandali finanziari e dietro agli arresti ci sia la
mano di Gülen e/o dei suoi seguaci, ormai in rotta di collisione con Erdoğan. Un
classico: messo in stallo il nemico ideologico, si comincia a litigare “in
famiglia” per la spartizione del bottino.
I grandi
media occidentali hanno cominciato a interessarsi allo scontro nelle ultime
settimane, quando cioè Erdoğan ha annunciato la decisione di chiudere migliaia
di scuole di preparazione a concorsi e all’accesso all’Università, per la più parte
controllate dal movimento di Gülen. Si tratta di un insieme fonte di
consistenti introiti e anche di potere sociale. Appare chiaro che in questa
fase l’ossessione di Erdoğan contro tutto ciò che sia da lui indipendente, e
quindi non controllabile, si volge all’interno del medesimo schieramento
islamico. L’iniziativa contro le scuole di Gülen ha suscitato contraccolpi
all’interno dello stesso Akp, dove per la prima volta deputati gülenisti hanno
manifestato il loro dissenso, tanto che per uno di essi è pronta l’espulsione. Ma
anche il vicepremier Bulent Arinc si sta agitando. Si era in attesa delle
rivelazioni per mettersi reciprocamente in difficoltà, ed ecco che un autorevole
quotidiano indipendente - Taraf (Volto)
- ha pubblicato un documento segreto del Consiglio di Sicurezza Nazionale,
datato 2004 e firmato da Erdoğan, in cui si prevedeva la liquidazione del
movimento di Gülen. La replica di Sazmil Tayvar (un dirigente dell’Akp) non è
stata una delle più provvide, giacché non ha contestato nulla ma ha rivelato
quel che già si sospettava, dicendo che le lamentele dei gülenisti sono
infondate in quanto avevano ottenuto addirittura “il controllo della polizia”!
Fethullah Gülen e il suo impero
Muhammad
Fethullah Gülen è un simpatico settantenne turco, scrittore, predicatore ed
educatore, nato vicino a Erzurum nel 1941 e autoesiliatosi negli Stati Uniti
dal 1998. Figlio dell’imam Ramiz Gülen, cominciò l’attività di predicatore
islamico a soli 14 anni, ma diventò una figura di rilievo pubblico grazie alle
prediche effettuate fra il 1988 e il 1991 nelle moschee più popolari delle grandi città turche, dopo
essere stato nel 1994 tra i fondatori della Fondazione dei Giornalisti e
Scrittori, di cui fu Presidente onorario. Ebbe contatti con leader politici
laici come Bülent Ecevit e Tansu Çiller, ma non con l’ambiente politico
islamico. Tant’è che non batté ciglio quando i militari kemalisti fecero
chiudere due partiti islamici – il Partito del Benessere nel 1998 e il Partito
della Virtù nel 2001. Nel 1998 si trasferì negli Stati Uniti ufficialmente per
motivi di salute, essendo malato di diabete, ma con tutta probabilità per
evitare di finire in Tribunale a causa di dichiarazioni considerate favorevoli
all’avvento di uno Stato islamico.
È autore di più di 60 libri, di una miriade di
articoli sui più vari argomenti: sociali, religiosi, politici, artistici, scientifici,
sportivi, e i suoi discorsi sono riprodotti in migliaia di audiovisivi. Personaggio
carismatico e dal vastissimo seguito, attorno a lui c’è sempre stata una certa
aura di mistero, o comunque di realtà non chiara. Vive poco fuori da Saylorsburg, in Pennsylvania (un posto che più statunitense non si
può), all’interno di un bel ranch di oltre
novanta ettari, attrezzato con sale di preghiera ed eliporto, sorvegliato da guardie
armate turche, vigilato da telecamere a circuito chiuso e luogo di vai e vieni
di dignitari stranieri ma anche di gente della Cia e dell’Fbi. Gülen infatti è a
capo di un movimento islamico potentissimo e perfettamente in linea con
Washington per quanto riguarda Vicino e Medio Oriente, ivi compreso il
riavvicinamento fra Turchia e Israele. Emerge automatico il sospetto che dietro
l’attuale crisi politica turca ci siano - dietro a Gülen - ancora una volta gli
Stati Uniti e che essi intendano far fuori Erdoğan come fecero con Ben Ali e
Mubarak. In questa ipotesi, nuovamente non si sa quali ne saranno gli esiti
successivi.
A Fethullah
Gülen fa capo una vasta rete di almeno un migliaio di scuole private, oltre a
centri islamici, in Turchia, negli Stati Uniti, in seno alla dispora turca in
Germania e in un centinaio di paesi tra cui quelli turcofoni dell’Asia
centrale; i quotidiani Zaman (assai
seguito anche in Turkmenistan, Kirghizistan e Azerbaigian) e Samanyolu, la tv Mehtap, l’agenzia di stampa Cibari
e la prestigiosa Università Fatih di
Istanbul. Anche l’Accademia
di Scienza e Tecnologia Beehive a Salt
Lake County, nello Utah, sarebbe a lui legata. Gestirebbe
(forse la valutazione è al ribasso) tra i 22 e i 50 miliardi di dollari.
L’obiettivo originario delle sue organizzazioni consisterebbe nel tenere i
giovani lontani da alcol, droga e mene politiche, per orientarli in direzione
di una vita morigerata e il successo economico. A tutt’oggi il suo network è un forte finanziatore di borse
di studio e controlla molti cosiddetti think-thanks, giornali,
televisioni, radio, università e banche. Non ha una struttura gerarchica
formale e neppure richiede un’iscrizione ufficiale. I suoi sostenitori turchi
sono più di 10 milioni, e ciascuno di loro versa fra il 5% e il 20% del proprio
stipendio a gruppi affiliati al movimento. Non vanno
sottaciuti il cosiddetto braccio finanziario del gülenismo, la Bank Asya, l’unica in Turchia a concedere
prestiti senza interesse alcuno, la Işik
Sigorta (Assicurazione del Lavoro) e l’Asya
Finans, fondo di investimenti. Nel 2005 i piccoli e medi imprenditori gülenisti
hanno costituito la potente Confederazione degli Industriali Turchi (Tuskon).
Come classificarlo ideologicamente
Qui
andiamo sul difficile, poiché non esiste alcuna certezza sulla corrispondenza
fra quanto appare e quanto realmente è. Formalmente egli predica una versione
aperta dell’Islam sunnita di scuola hanafita; pur non appartenendo a nessuna
confraternita sufi esalta il sufismo come cuore mistico dell’Islam ed è
apertissimo al dialogo interreligioso con ortodossi, cattolici ed ebrei;
condanna il terrorismo islamista; è nazionalista e fautore dell’economia di
mercato neoliberale, tanto che certuni - basandosi sul suo apprezzamento
religioso per i successi economici - l’hanno impropriamente accostato al
Calvinismo.
Sotto
certi profili sfugge alla classica dicotomia “conservatore-innovatore”. Predica
un Islam non eterodosso ma nel contempo pragmatico, non privo di attenzione per
la società turca, dove anche in centri conservatori come Konya avanzano
elementi di occidentalizzazione. Gülen è il propugnatore di una forma di Islam volta
a integrarsi nel contesto specifico dove opera, per interagire con esso e sfruttarne
le opportunità. Appare alieno allo scontro di civiltà ed è tra i promotori del
dialogo interreligioso: da qui suoi incontri con Giovanni Paolo II, con
Bartolomeo Patriarca ortodosso di Costantinopoli, col rabbino sefardita di
Israele Eliyahu
Bakshi-Doron ecc. Nella sua concezione non vi è spazio, tuttavia,
per gli atei, da lui destinati a sicuro supplizio infernale insieme agli
assassini.
Circa il
problema femminile - per quanto i gülenisti vantino l’orientamento progressista
dato dal loro maestro - tutto sommato non si esce da una visione alquanto
conservatrice, seppure non strettamente tradizionalista: tant’è che le donne turche
moderniste e impegnate nelle professioni la considerano lontana
dall’accettabilità. D’altro canto Gülen critica il femminismo all’occidentale in quanto «condannato
allo squilibrio come tutti gli altri movimenti di reazione (...) pieno di odio
verso gli uomini».
Secondo
alcuni Gülen potrebbe addirittura svolgere un importante ruolo fra le
contrapposte realtà dei settori secolarizzati e nazionalisti da un lato, e dall’altro
lato le élite dell’Akp di estrazione musulmana ma anch’esse in buona parte secolarizzate.
I suoi sostenitori mettono in rilievo la modernità delle tecnologizzate scuole güleniste, laiche per quanto gli
insegnanti debbano essere di condotta impeccabile (niente fumatori, bevitori o
divorziati) e dove molti studenti possono studiare grazie a borse di studio
finanziate dagli uomini d’affari vicini al movimento. Inoltre costoro vantano il
ruolo fondamentale del loro movimento per aumentare le esportazioni della
Turchia. Per altri, invece, Gülen è un esponente religioso
che fa proselitismo e usa la sua organizzazione e il suo potere economico e
politico per realizzare la sua islamizzazione della società turca. Questi oppositori in genere fanno
riferimento a un video della fine degli anni ’90 in cui Gulen risultava
suggerire un’occulta strategia di infiltrazione: «Dovete muovervi nelle arterie
del sistema senza che nessuno noti la vostra esistenza, fino a quando
raggiungerete i centri di potere. Dovete aspettare finché non avrete in mano
tutto il potere dello Stato, finché non avrete dalla vostra parte tutte le
istituzioni costituzionali turche».
Obiettivamente
sono da registrare certi eventi che fanno mal pensare, a meno che dietro non ci
sia stata la mano di Erdoğan quando ancora lui e Gülen erano alleati. Un capo della polizia che aveva scritto un
libro sul movimento gülenista è finito in carcere; lo stesso dicasi per due
giornalisti che svolgevano indagini sullo stesso argomento - Ahmet Şık e Nedim
Sener - e per di più sono stati coinvolti nel presunto complotto per rovesciare
lo Stato organizzato da estremisti di estrema destra, laici e alcuni generali. Dal
canto suo Ferai Tinch, attivista per la difesa della libertà di stampa, ha dichiarato
che chiunque si arrischi a criticare il movimento di Gülen rischia di finire in
galera. I neocon statunitensi,
infine, da tempo accusano Gülen di voler imporre un califfato neo-ottomano nel
Vicino Oriente in maniera subdola. Di certo
c’è che il suo movimento si va espandendo a macchia d’olio.
Successi e triboli di Fethullah Gülen
Gülen fondò la rete Hizmet nei
primi anni ’70, pare su incarico dello Stato Maggiore delle Forze Armate interessato
alla diffusione di un Islam non-estremista in grado di fare da contrappeso al
comunismo per le giovani generazioni. Da qui la rapida creazione di centinaia
di scuole e l’avvio dell’ascesa del movimento gülenista. La fine della guerra
fredda segnò una svolta per Gülen, giacché il crollo dell’Urss apriva la via ai
tentativi di espansione turca nell’Asia centrale turcofona. Un interesse che si
incontrava con quello statunitense, e quindi cominciarono i contatti tra la Cia
e il nostro personaggio. Si trattava infatti di evitare che la corsa all’Asia
centrale la dirigesse l’Iran khomeinista. E nel quinquennio 1990-95 in Kazakistan,
Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan sorsero rapidamente più di
200 scuole coraniche collegate con l’Hizmet,
subito diventate punti di appoggio per gli Stati Uniti: circa 130 agenti della
Cia vi divennero insegnanti (immaginiamo di cosa). Le autorità russe, dal canto
loro, arrestarono decine di membri dell’Hizmet
e si attivarono affinché nel 1995 il governo uzbeko chiudesse tutti i centri
gülenisti.
Negli Stati Uniti il nostro personaggio entrò in stretti rapporti col magnate
turco di origini ebraiche Ishak Alaton, boss
dei settori energetico ed edilizio, con forti interessi in Turkmenistan e
dotato di entrature importanti in Israele. Dalla sua residenza in Pennsylvania,
in dieci anni Gülen è riuscito a creare centinaia di istituti privati con
contributi statunitensi, decine di centri di ricerca e culturali, tra i quali
la Virginia International University
e il Rumi Forum, nonché un canale
televisivo, l’Ebru Tv. Dopo l’attacco
alle Twin Towers Gülen si è posto come antitesi al radicalismo islamista, e ha poi sovvenzionato le
campagne elettorali di vari esponenti politici locali fra cui Hillary Clinton.
Qualche nube solo tra il 2006 e il 2008, quando George W. Bush lo accusò di
avere ispirato la svolta islamica dell’Akp.
Nel 2007 il Fbi (notoriamente non sempre in sintonia con la Cia) non gli
concesse il nulla-osta per la residenza permanente e durante il processo innanzi
al tribunale federale di Philadelphia per l’ottenimento dell’agognata green card, il procuratore distrettuale ne
chiese il diniego per sospetto finanziamento straniero e per i non chiari
legami con la Cia. Sembrava che l’espulsione fosse dietro l’angolo: a salvare
Gülen intervennero Cia, Dipartimento di Stato, Condoleezza Rice in persona, il
Vaticano attraverso il portavoce della Conferenza episcopale turca (Georges
Marovitch), l’ex ambasciatore statunitense in Turchia Morton Abramowitz, e Graham
Fuller ex responsabile della stazione Cia di Kabul. In conclusione, Gülen ha
avuto la green card.
Per molto tempo Erdoğan ha fruito positivamente dell’alleanza con Gülen
(ormai insignito dai seguaci dell’appellativo di Hoca Efendi – Signor maestro) e con l’Hizmet nella sorda lotta contro i militari kemalisti. Ma alle
soglie del secondo decennio del 2000 i rapporti si sono via via incrinati sul
versante gülenista, a motivo delle velleità autoritarie di Erdoğan, della
posizione antisraeliana da lui assunta e della nuova politica di apertura ai
Curdi; mentre dal lato del Primo ministro va posto il crescente sospetto verso
una potenza in crescita continua, da lui non controllata affatto e tale da
fargli nascere il sospetto (o qualcosa di più) di potersi ritrovare Hoca Efendi al posto dei militari in
veste di antagonista.
A giugno del 2010 sono sorti i primi dissapori in occasione dell’attacco
israeliano alla nave umanitaria turca Mavi
Marmara: Gülen in un’intervista criticò gli organizzatori della spedizione
di soccorso a Gaza accusandoli di non aver rispettato l’autorità dello Stato
ebraico. Per rappresaglia Erdoğan all’inizio del 2011
sollevò dall’incarico il potentissimo e intoccabile Pubblico ministero Zekeriya
Öz, gülenista doc. E poi l’intervento contro la Siria, verso cui l’ostilità di
Gülen fu subito totale. Nel
febbraio del 2012 magistrati legati all’Hizmet
hanno cercato di colpire i servizi segreti non gülenisti, e nel processo
sui legami tra essi e il Pkk curdo, il tribunale di Istanbul chiamò a
testimoniare il responsabile dell’intelligence
e fidato uomo di Erdoğan, Hakan Fidan. Il premier
intervenne rabbioso sospendendo il giudice istruttore (in Turchia l’autonomia
della magistratura è come il regno dei cieli: di là da venire), assegnando ad
altri incarichi i 700 poliziotti “rei” di aver indagato e minacciando di
chiudere tutte le scuole dell’Hizmet.
Anche i rapporti con
Obama cominciano ad andar male. Obama, notoriamente, vorrebbe concentrarsi
sull’area del Pacifico e attuare un certo disimpegno dal Vicino Oriente; ma per
far ciò deve essere sicuro che Israele e
Turchia facciano entrambi da guardiani dell’area. Con questo presupposto, secondo Washington Erdoğan
deve accordarsi con Israele, smettere di servirsi degli Stati Uniti per la sua
politica egemonica e disimpegnarsi rispetto al Kurdistan iracheno. Dello stesso avviso è Gülen. I fatti di Gezi Parki, poi, hanno
aggravato le cose fra Gülen, Washignton ed Erdoğan. Il 6 giugno, Gülen in un
video ha definito i manifestanti “ragazzi innocenti” e “legittime le loro
richieste”. E a Istanbul il quotidiano Zaman non solo si è schierato con i manifestanti, ma addirittura ha
invitato il Presidente Gül e il vice-premier Arinf a rompere con Erdoğan. Pare
che a Washington ormai siano convinti che dalle file dell’Hizmet verrà fuori l’antagonista politico di Erdoğan, come lui
populista religioso - quindi in grado di sfidarlo sullo stesso terreno - e che
sia prossimo il momento dell’impossibilità di governare la Turchia senza l’appoggio
di Gülen. Va preso atto che ancora una volta gli Usa tra uno schieramento laico
e settori islamici preferiscono questi ultimi. Una ripetizione di nuovi cambi
di alleanze - come già in Tunisia ed Egitto - è nell’aria: sarà nuova tragedia
o farsa.
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