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venerdì 27 dicembre 2013

CORRUZIONE E CRISI POLITICA IN TURCHIA, di Pier Francesco Zarcone

Fethullah Gülen
Mazzette, manette e guai per il governo di Erdoğan
Con una maxioperazione nella seconda metà di dicembre, la polizia turca ha arrestato - non a caso senza previo avviso al ministro degli Interni - ben 80 persone accusate di  corruzione e turbativa d’asta. Si tratta di “nomi eccellenti”, tra cui Suleyman Aslan, al vertice della statale Halk Bank, i figli di tre ministri di Erdoğan, il magnate dell’edilizia Ali Agaoğlu, il presidente del municipio di Fatih (nel centro di Istanbul) Mustafa Demir, e vari alti funzionari dei ministeri dell'Ambiente e dell'Economia.
A pochi mesi da un’importante tornata elettorale (le amministrative del 30 marzo prossimo) il governo Erdoğan è per la prima volta nell’occhio di un vero e proprio ciclone suscettibile di travolgerlo. Criticità e serietà del momento sono dimostrati dal crollo della lira turca, che ha costretto la Banca centrale a un consistente intervento di sostegno con la vendita di 400 milioni di dollari. Questo dopo che lo scorso 10 giugno aveva già venduto 650 milioni di dollari per fare fronte al calo della moneta turca causato dai fatti di Gezi Park e dovendo fare i conti anche con la decisione della statunitense Federal Reserve di attenuare la politica monetaria espansiva riducendo di 10 miliardi di dollari gli acquisti di bond: infatti, la Turchia ha bisogno dei flussi di valuta straniera per finanziare il deficit delle partite correnti, oggi pari al 7,5% del Pil. E finora il paese aveva ampiamente beneficiato dei programmi di stimolo degli Usa.
All’iniziativa giudiziaria Erdoğan ha reagito con la sua consueta protervia; e quindi malamente: epurazione ai vertici della polizia con la destituzione dei capi di 20 unità, tra i quali il comandante della polizia di Istanbul, generale Huseyn Capkin, nonché decine di semplici poliziotti. Il tutto condito dalle scontate grida di all’erta per complotti stranieri e interni, fino a prendersela espressamente con l’ambasciatore statunitense, Francis Ricciardone, di cui il giornale Yeni Şafak (Nuova Alba) ha chiesto l’espulsione. Stavolta, però, una qualche ragione Erdoğan sembra averla.
Finora - a parte l’opposizione dei partiti laici in Parlamento, della fazione kemalista dell’esercito, della magistratura laica (al momento tutti messi nell’angolo) e le contestazioni di piazza brutalmente represse - egli è sembrato restare a galla con una certa disinvoltura e continuando a portare avanti la realizzazione di un quid in precedenza solo sospettato, ma ora palese: un’agenda occulta per reislamizzare la Turchia cancellando le riforme di Atatürk e il loro spirito. Anzi la sua arroganza - quando di recente ha criticato la vecchia normativa “liberale” sugli alcolici - è arrivata al punto di attribuirne la paternità a degli ubriaconi: palese riferimento a Mustafa Kemal, amante dell’alcol fino a morire di cirrosi epatica. E poiché Kemal è ancora un mito anche per moltissimi islamici, l’azzardata espressione ha suscitato un putiferio e il nostro ha dovuto fare una marcia indietro formale degna del suo amico Berlusconi.
Questa gaffe offensiva rientra – oltre a quanto sopra detto - in un vero e proprio momentaccio per Erdoğan. I giovani turchi che celebrano “serate della birra” alla faccia del Corano e di Erdoğan possono pure essere archiviati come folklore, ma i fallimenti in politica estera no. Lo slancio “neo-ottomano” verso il mondo arabo non ha dato risultati; con Israele ha fatto solo la voce grossa; l’appoggio ai ribelli siriani (deciso infischiandosene dell’ostilità della maggioranza dei Turchi) è stato ancor meno proficuo e sta rivelando la sua costosa pericolosità spingendo ad attrezzarsi contro il contagio jihadista nella stessa Turchia e contro  i rientri dei combattenti islamisti, dopo le continue sconfitte a opera dell’Esercito Regolare Siriano. Ora ci si mettono anche poliziotti e magistrati, arrestando personaggi eccellenti e rivelando il marcio diffuso coperto dal miracolo economico turco.
Il 2014 si preannuncia cruciale per Erdoğan e le sue ambizioni. Alle amministrative, si prevede che i contraccolpi delle brutali repressioni poliziesche si tradurranno in un calo per l’Akp, per quanto non ancora quantificabile; lo scontro interislamico in atto dovrebbe arrecare altri colpi al partito di Erdoğan, e qui la cosa rischia di essere più consistente. Per quanto il seguito elettorale di Gülen non sia allo stato valutabile appieno, taluni analisti turchi sono dell’avviso che dal versante gülenista potrebbe venire una perdita ulteriore pari all’8%. Intanto va registrata la durissima presa di posizione di Gülen che, pur senza fare nomi (non ce n’era bisogno), ha praticamente maledetto Erdoğan dopo l’epurazione nella polizia.
In un video pubblicato sul sito web herkul.org, Gülen si è scagliato contro «chi non bada al ladro, ma persegue coloro che danno la caccia al ladro, chi non vede l'omicidio, ma diffama gli altri, accusando gente innocente (…) Dio bruci le loro abitazioni, mandi in rovina le loro case, distrugga la loro unità».
Fra tre mesi ci sarà l’ora della verità e si ritiene che una sconfitta nell’ex capitale segnerebbe la fine delle ambizioni di Erdoğan, tra le quali di diventare Presidente della Repubblica sempre nel prossimo anno, quando per la prima volta il capo dello Stato verrà eletto direttamente dal corpo elettorale.        

Complotto nazionale e internazionale?
Si accennava all’ipotesi di un complotto. Cosa per niente improbabile essendo in atto un grosso scontro di potere all’interno dell’islamismo turco, di cui l’Akp (il partito di Erdoğan) è solo uno dei componenti. Al riguardo si può partire dalla recente, clamorosa e significativa “conversione” politica del quotidiano Zaman (Tempo; uno dei più importanti del paese), fino a ieri parte integrante del fronte favorevole a Erdoğan e al suo governo. Osservatori stranieri hanno capito che qualcosa non andava, e che erano in atto svolte significative da quando sulle sue pagine sono comparse critiche politiche forti e fondate. Il fatto era importante poiché non si tratta di un quotidiano qualsiasi, bensì di un importante mezzo di comunicazione rientrante nell’Hizmet (Servizio), il network organizzativo dell’imam Fethullah Gülen, capo carismatico e indiscusso di quella che forse è la più potente organizzazione islamica mondiale (sicuramente più della Fratellanza Musulmana). E in Turchia, nella spartizione di potere interislamica, oltre a Zaman anche l’80% della polizia e parte della magistratura e dei servizi segreti sono in quota Gülen. In realtà i recenti fatti - come diremo più avanti - hanno solo una maggiore eclatanza formale, ma  la rottura risale almeno a qualche anno fa.
Fehtullah Gülen: un nome che al 99 % degli Italiani non dice nulla mentre in Turchia dice tante e difformi cose. Per i laici e i settori in vario modo di sinistra - cioè per una parte della società che vede un pericolo per la modernità del paese anche in minime sortite della religione fuori dalla sfera del privato - si tratta di una vera e propria bestia nera, un personaggio considerato ben più pericoloso di Erdoğan. Orbene, è opinione diffusa in Turchia (diciamo, una certezza) che dietro all’emergere degli scandali finanziari e dietro agli arresti ci sia la mano di Gülen e/o dei suoi seguaci, ormai in rotta di collisione con Erdoğan. Un classico: messo in stallo il nemico ideologico, si comincia a litigare “in famiglia” per la spartizione del bottino.  
I grandi media occidentali hanno cominciato a interessarsi allo scontro nelle ultime settimane, quando cioè Erdoğan ha annunciato la decisione di chiudere migliaia di scuole di preparazione a concorsi e all’accesso all’Università, per la più parte controllate dal movimento di Gülen. Si tratta di un insieme fonte di consistenti introiti e anche di potere sociale. Appare chiaro che in questa fase l’ossessione di Erdoğan contro tutto ciò che sia da lui indipendente, e quindi non controllabile, si volge all’interno del medesimo schieramento islamico. L’iniziativa contro le scuole di Gülen ha suscitato contraccolpi all’interno dello stesso Akp, dove per la prima volta deputati gülenisti hanno manifestato il loro dissenso, tanto che per uno di essi è pronta l’espulsione. Ma anche il vicepremier Bulent Arinc si sta agitando. Si era in attesa delle rivelazioni per mettersi reciprocamente in difficoltà, ed ecco che un autorevole quotidiano indipendente - Taraf (Volto) - ha pubblicato un documento segreto del Consiglio di Sicurezza Nazionale, datato 2004 e firmato da Erdoğan, in cui si prevedeva la liquidazione del movimento di Gülen. La replica di Sazmil Tayvar (un dirigente dell’Akp) non è stata una delle più provvide, giacché non ha contestato nulla ma ha rivelato quel che già si sospettava, dicendo che le lamentele dei gülenisti sono infondate in quanto avevano ottenuto addirittura “il controllo della polizia”!  

Fethullah Gülen e il suo impero
Muhammad Fethullah Gülen è un simpatico settantenne turco, scrittore, predicatore ed educatore, nato vicino a Erzurum nel 1941 e autoesiliatosi negli Stati Uniti dal 1998. Figlio dell’imam Ramiz Gülen, cominciò l’attività di predicatore islamico a soli 14 anni, ma diventò una figura di rilievo pubblico grazie alle prediche effettuate fra il 1988 e il 1991 nelle moschee più popolari delle grandi città turche, dopo essere stato nel 1994 tra i fondatori della Fondazione dei Giornalisti e Scrittori, di cui fu Presidente onorario. Ebbe contatti con leader politici laici come Bülent Ecevit e Tansu Çiller, ma non con l’ambiente politico islamico. Tant’è che non batté ciglio quando i militari kemalisti fecero chiudere due partiti islamici – il Partito del Benessere nel 1998 e il Partito della Virtù nel 2001. Nel 1998 si trasferì negli Stati Uniti ufficialmente per motivi di salute, essendo malato di diabete, ma con tutta probabilità per evitare di finire in Tribunale a causa di dichiarazioni considerate favorevoli all’avvento di uno Stato islamico. 
È autore di più di 60 libri, di una miriade di articoli sui più vari argomenti: sociali, religiosi, politici, artistici, scientifici, sportivi, e i suoi discorsi sono riprodotti in migliaia di audiovisivi. Personaggio carismatico e dal vastissimo seguito, attorno a lui c’è sempre stata una certa aura di mistero, o comunque di realtà non chiara. Vive poco fuori da Saylorsburg, in Pennsylvania (un posto che più statunitense non si può), all’interno di un bel ranch di oltre novanta ettari, attrezzato con sale di preghiera ed eliporto, sorvegliato da guardie armate turche, vigilato da telecamere a circuito chiuso e luogo di vai e vieni di dignitari stranieri ma anche di gente della Cia e dell’Fbi. Gülen infatti è a capo di un movimento islamico potentissimo e perfettamente in linea con Washington per quanto riguarda Vicino e Medio Oriente, ivi compreso il riavvicinamento fra Turchia e Israele. Emerge automatico il sospetto che dietro l’attuale crisi politica turca ci siano - dietro a Gülen - ancora una volta gli Stati Uniti e che essi intendano far fuori Erdoğan come fecero con Ben Ali e Mubarak. In questa ipotesi, nuovamente non si sa quali ne saranno gli esiti successivi.
A Fethullah Gülen fa capo una vasta rete di almeno un migliaio di scuole private, oltre a centri islamici, in Turchia, negli Stati Uniti, in seno alla dispora turca in Germania  e in un centinaio di paesi tra cui quelli turcofoni dell’Asia centrale; i quotidiani Zaman (assai seguito anche in Turkmenistan, Kirghizistan e Azerbaigian) e Samanyolu, la tv Mehtap, l’agenzia di stampa Cibari e la prestigiosa Università Fatih di Istanbul. Anche l’Accademia di Scienza e Tecnologia Beehive a Salt Lake County, nello Utah, sarebbe a lui legata. Gestirebbe (forse la valutazione è al ribasso) tra i 22 e i 50 miliardi di dollari. L’obiettivo originario delle sue organizzazioni consisterebbe nel tenere i giovani lontani da alcol, droga e mene politiche, per orientarli in direzione di una vita morigerata e il successo economico. A tutt’oggi il suo network è un forte finanziatore di borse di studio e controlla molti cosiddetti think-thanks, giornali, televisioni, radio, università e banche. Non ha una struttura gerarchica formale e neppure richiede un’iscrizione ufficiale. I suoi sostenitori turchi sono più di 10 milioni, e ciascuno di loro versa fra il 5% e il 20% del proprio stipendio a gruppi affiliati al movimento. Non vanno sottaciuti il cosiddetto braccio finanziario del gülenismo, la Bank Asya, l’unica in Turchia a concedere prestiti senza interesse alcuno, la Işik Sigorta (Assicurazione del Lavoro) e l’Asya Finans, fondo di investimenti. Nel 2005 i piccoli e medi imprenditori gülenisti hanno costituito la potente Confederazione degli Industriali Turchi (Tuskon).

Come classificarlo ideologicamente
Qui andiamo sul difficile, poiché non esiste alcuna certezza sulla corrispondenza fra quanto appare e quanto realmente è. Formalmente egli predica una versione aperta dell’Islam sunnita di scuola hanafita; pur non appartenendo a nessuna confraternita sufi esalta il sufismo come cuore mistico dell’Islam ed è apertissimo al dialogo interreligioso con ortodossi, cattolici ed ebrei; condanna il terrorismo islamista; è nazionalista e fautore dell’economia di mercato neoliberale, tanto che certuni - basandosi sul suo apprezzamento religioso per i successi economici - l’hanno impropriamente accostato al Calvinismo.
Sotto certi profili sfugge alla classica dicotomia “conservatore-innovatore”. Predica un Islam non eterodosso ma nel contempo pragmatico, non privo di attenzione per la società turca, dove anche in centri conservatori come Konya avanzano elementi di occidentalizzazione. Gülen è il propugnatore di una forma di Islam volta a integrarsi nel contesto specifico dove opera, per interagire con esso e sfruttarne le opportunità. Appare alieno allo scontro di civiltà ed è tra i promotori del dialogo interreligioso: da qui suoi incontri con Giovanni Paolo II, con Bartolomeo Patriarca ortodosso di Costantinopoli, col rabbino sefardita di Israele Eliyahu Bakshi-Doron ecc. Nella sua concezione non vi è spazio, tuttavia, per gli atei, da lui destinati a sicuro supplizio infernale insieme agli assassini.
Circa il problema femminile - per quanto i gülenisti vantino l’orientamento progressista dato dal loro maestro - tutto sommato non si esce da una visione alquanto conservatrice, seppure non strettamente tradizionalista: tant’è che le donne turche moderniste e impegnate nelle professioni la considerano lontana dall’accettabilità. D’altro canto Gülen critica il femminismo all’occidentale in quanto «condannato allo squilibrio come tutti gli altri movimenti di reazione (...) pieno di odio verso gli uomini».   
Secondo alcuni Gülen potrebbe addirittura svolgere un importante ruolo fra le contrapposte realtà dei settori secolarizzati e nazionalisti da un lato, e dall’altro lato le élite dell’Akp di estrazione musulmana ma anch’esse in buona parte secolarizzate. I suoi sostenitori mettono in rilievo la modernità delle tecnologizzate scuole güleniste, laiche per quanto gli insegnanti debbano essere di condotta impeccabile (niente fumatori, bevitori o divorziati) e dove molti studenti possono studiare grazie a borse di studio finanziate dagli uomini d’affari vicini al movimento. Inoltre costoro vantano il ruolo fondamentale del loro movimento per aumentare le esportazioni della Turchia. Per altri, invece, Gülen è un esponente religioso che fa proselitismo e usa la sua organizzazione e il suo potere economico e politico per realizzare la sua islamizzazione della società turca. Questi oppositori in genere fanno riferimento a un video della fine degli anni ’90 in cui Gulen risultava suggerire un’occulta strategia di infiltrazione: «Dovete muovervi nelle arterie del sistema senza che nessuno noti la vostra esistenza, fino a quando raggiungerete i centri di potere. Dovete aspettare finché non avrete in mano tutto il potere dello Stato, finché non avrete dalla vostra parte tutte le istituzioni costituzionali turche».  
Obiettivamente sono da registrare certi eventi che fanno mal pensare, a meno che dietro non ci sia stata la mano di Erdoğan quando ancora lui e Gülen erano alleati.  Un capo della polizia che aveva scritto un libro sul movimento gülenista è finito in carcere; lo stesso dicasi per due giornalisti che svolgevano indagini sullo stesso argomento - Ahmet Şık e Nedim Sener - e per di più sono stati coinvolti nel presunto complotto per rovesciare lo Stato organizzato da estremisti di estrema destra, laici e alcuni generali. Dal canto suo Ferai Tinch, attivista per la difesa della libertà di stampa, ha dichiarato che chiunque si arrischi a criticare il movimento di Gülen rischia di finire in galera. I neocon statunitensi, infine, da tempo accusano Gülen di voler imporre un califfato neo-ottomano nel Vicino  Oriente in maniera subdola. Di certo c’è che il suo movimento si va espandendo a macchia d’olio.

Successi e triboli di Fethullah Gülen
Gülen fondò la rete Hizmet nei primi anni ’70, pare su incarico dello Stato Maggiore delle Forze Armate interessato alla diffusione di un Islam non-estremista in grado di fare da contrappeso al comunismo per le giovani generazioni. Da qui la rapida creazione di centinaia di scuole e l’avvio dell’ascesa del movimento gülenista. La fine della guerra fredda segnò una svolta per Gülen, giacché il crollo dell’Urss apriva la via ai tentativi di espansione turca nell’Asia centrale turcofona. Un interesse che si incontrava con quello statunitense, e quindi cominciarono i contatti tra la Cia e il nostro personaggio. Si trattava infatti di evitare che la corsa all’Asia centrale la dirigesse l’Iran khomeinista. E nel quinquennio 1990-95 in Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan sorsero rapidamente più di 200 scuole coraniche collegate con l’Hizmet, subito diventate punti di appoggio per gli Stati Uniti: circa 130 agenti della Cia vi divennero insegnanti (immaginiamo di cosa). Le autorità russe, dal canto loro, arrestarono decine di membri dell’Hizmet e si attivarono affinché nel 1995 il governo uzbeko chiudesse tutti i centri gülenisti.
Negli Stati Uniti il nostro personaggio entrò in stretti rapporti col magnate turco di origini ebraiche Ishak Alaton, boss dei settori energetico ed edilizio, con forti interessi in Turkmenistan e dotato di entrature importanti in Israele. Dalla sua residenza in Pennsylvania, in dieci anni Gülen è riuscito a creare centinaia di istituti privati con contributi statunitensi, decine di centri di ricerca e culturali, tra i quali la Virginia International University e il Rumi Forum, nonché un canale televisivo, l’Ebru Tv. Dopo l’attacco alle Twin Towers Gülen si è posto come antitesi al  radicalismo islamista, e ha poi sovvenzionato le campagne elettorali di vari esponenti politici locali fra cui Hillary Clinton. Qualche nube solo tra il 2006 e il 2008, quando George W. Bush lo accusò di avere ispirato la svolta islamica dell’Akp.
Nel 2007 il Fbi (notoriamente non sempre in sintonia con la Cia) non gli concesse il nulla-osta per la residenza permanente e durante il processo innanzi al tribunale federale di Philadelphia per l’ottenimento dell’agognata green card, il procuratore distrettuale ne chiese il diniego per sospetto finanziamento straniero e per i non chiari legami con la Cia. Sembrava che l’espulsione fosse dietro l’angolo: a salvare Gülen intervennero Cia, Dipartimento di Stato, Condoleezza Rice in persona, il Vaticano attraverso il portavoce della Conferenza episcopale turca (Georges Marovitch), l’ex ambasciatore statunitense in Turchia Morton Abramowitz, e Graham Fuller ex responsabile della stazione Cia di Kabul. In conclusione, Gülen ha avuto la green card.
Per molto tempo Erdoğan ha fruito positivamente dell’alleanza con Gülen (ormai insignito dai seguaci dell’appellativo di Hoca Efendi – Signor maestro) e con l’Hizmet nella sorda lotta contro i militari kemalisti. Ma alle soglie del secondo decennio del 2000 i rapporti si sono via via incrinati sul versante gülenista, a motivo delle velleità autoritarie di Erdoğan, della posizione antisraeliana da lui assunta e della nuova politica di apertura ai Curdi; mentre dal lato del Primo ministro va posto il crescente sospetto verso una potenza in crescita continua, da lui non controllata affatto e tale da fargli nascere il sospetto (o qualcosa di più) di potersi ritrovare Hoca Efendi al posto dei militari in veste di antagonista.
A giugno del 2010 sono sorti i primi dissapori in occasione dell’attacco israeliano alla nave umanitaria turca Mavi Marmara: Gülen in un’intervista criticò gli organizzatori della spedizione di soccorso a Gaza accusandoli di non aver rispettato l’autorità dello Stato ebraico. Per rappresaglia Erdoğan all’inizio del 2011 sollevò dall’incarico il potentissimo e intoccabile Pubblico ministero Zekeriya Öz, gülenista doc. E poi l’intervento contro la Siria, verso cui l’ostilità di Gülen fu subito totale. Nel febbraio del 2012 magistrati legati all’Hizmet hanno cercato di colpire i servizi segreti non gülenisti, e nel processo sui legami tra essi e il Pkk curdo, il tribunale di Istanbul chiamò a testimoniare il responsabile dell’intelligence e fidato uomo di Erdoğan, Hakan Fidan. Il premier intervenne rabbioso sospendendo il giudice istruttore (in Turchia l’autonomia della magistratura è come il regno dei cieli: di là da venire), assegnando ad altri incarichi i 700 poliziotti “rei” di aver indagato e minacciando di chiudere tutte le scuole dell’Hizmet.
Anche i rapporti con Obama cominciano ad andar male. Obama, notoriamente, vorrebbe concentrarsi sull’area del Pacifico e attuare un certo disimpegno dal Vicino Oriente; ma per far  ciò deve essere sicuro che Israele e Turchia facciano entrambi da guardiani dell’area. Con questo presupposto, secondo Washington Erdoğan deve accordarsi con Israele, smettere di servirsi degli Stati Uniti per la sua politica egemonica e disimpegnarsi rispetto al Kurdistan iracheno. Dello stesso avviso è Gülen. I fatti di Gezi Parki, poi, hanno aggravato le cose fra Gülen, Washignton ed Erdoğan. Il 6 giugno, Gülen in un video ha definito i manifestanti “ragazzi innocenti” e “legittime le loro richieste”.  E a Istanbul il quotidiano Zaman non solo si è schierato con i manifestanti, ma addirittura ha invitato il Presidente Gül e il vice-premier Arinf a rompere con Erdoğan. Pare che a Washington ormai siano convinti che dalle file dell’Hizmet verrà fuori l’antagonista politico di Erdoğan, come lui populista religioso - quindi in grado di sfidarlo sullo stesso terreno - e che sia prossimo il momento dell’impossibilità di governare la Turchia senza l’appoggio di Gülen. Va preso atto che ancora una volta gli Usa tra uno schieramento laico e settori islamici preferiscono questi ultimi. Una ripetizione di nuovi cambi di alleanze - come già in Tunisia ed Egitto - è nell’aria: sarà nuova tragedia o farsa.

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