Va tenuto conto che il governo turco, mutando di 360º la sua politica
verso la Siria di al-Assad, d’un colpo solo ha bruciato la precedente svolta
neottomana che l’aveva posta in posizione autonoma rispetto agli Stati Uniti,
tornando a collaborare in posizione subordinata (sul piano degli interessi) sia
con Washington e le monarchie reazionarie alleate sia con Israele (la zona a
ridosso della Siria pullula di agenti della Cia e del Mossad). Una collaborazione alla destabilizzazione della Siria da
cui Ankara non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere. In più ha deteriorato
i precedenti ottimi rapporti con l’Iran e quelli con l’Iraq; con la conseguenza
che oggi la Turchia è in rapporti negativi con quasi tutti i paesi vicini
(oltre ai due predetti e al governo siriano in carica, con Grecia, Cipro,
Armenia e Russia). In Libano Hezbollah ha rapito due turchi come rappresaglia
per il sequestro di un turco da parte dei ribelli in Siria, e da parte sua
Ankara ha chiesto ai suoi cittadini di non recarsi in Libano.
Eppure la Turchia si era posta come moderatrice dei conflitti locali e
sul piano economico un suo importante obiettivo nel Vicino Oriente era la
creazione di una zona di libero scambio con Siria, Libano e Giordania; inoltre
aveva concluso rapporti commerciali con l’Iran ed effettuato consistenti
investimenti in Siria e nel Kurdistan iracheno, ricavando dagli scambi con tali
paesi notevoli vantaggi economici, avendo anche di mira l’integrazione
economica e commerciale della regione, inclusi i trasporti e le reti
energetiche. In questo quadro i buoni rapporti con la Siria occupavano un posto
centrale. Ora tutto è stato buttato a mare. Perché?
Nel cercare di rispondere, come scelta di metodo dividiamo
quest’articolo in due paragrafi, parlando prima delle conseguenze negative
prodotte e producibili da questa nuova politica estera, e poi cercando di
capire le possibili motivazioni sottostanti al nuovo corso.
La Turchia rischia una forte
destabilizzazione interna
L’attuale politica del premier Recep Tayyip Erdoğan non piace ad almeno
il 60% dei turchi (se i sondaggi sono attendibili), e la stessa percentuale è
contraria al coinvolgimento militare della Turchia in Siria. Le ragioni sono
molte, e molte sono intuibili. Fra esse ve ne è una poco nota ma importante,
giacché la comunanza di religione lascia impregiudicate le antipatie etniche,
spontanee o indotte che siano: ebbene, in generale i turchi - per quanto in
maggioranza musulmani sunniti - non amano affatto gli arabi, tanto che definire
una persona arab gibi (cioè, in
turco, “come un arabo”) non vuol dire per niente fargli un complimento.
Semmai possono essere maggiori i vincoli di solidarietà fra le minoranze
siriane genericamente definibili sciite (alawiti, ismaeliti e imamiti
duodecimani) e le corrispondenti minoranze religiose della Turchia. Infatti
anche nel territorio della Repubblica turca esiste una minoranza definibile di
ceppo sciita di una certa consistenza tra aleviti, alawiti e imamiti
duodecimani. Queste minoranze nel corso della storia anatolica hanno sempre
avuto vita difficile e conosciuto persecuzioni, anche perché la loro
eterodossia rispetto alla maggioranza sunnita li presentava come possibili
quinte colonne della Persia sciita (oggi Iran), che fu a Oriente il grande
nemico dell’Impero ottomano.
Ma in Turchia i curdi non sono l’unica minoranza etnica: sia pure in
proporzioni assai minori (ovviamente non ci sono statistiche sicure al
riguardo) abbiamo arabi, armeni, assiri, azeri bulgari e i superstiti greci.
Quindi, anche la Turchia è un mosaico etnico il cui collant non è affatto quello religioso, bensì la comunanza della
lingua (per quanto imposta) e lo status
di cittadino.
Attualmente il territorio turco a ridosso della frontiera siriana è al
collasso – sanitario, economico e sociale – per l’enorme afflusso di profughi
(con cui la popolazione locale antipatizza, in un modo che fa ricordare le
tensioni provocate dalla massiccia presenza di militanti di al-Fatah in Libano e Giordania), e si
trova in una situazione di pericolo politico per la forte presenza di militanti
jihadisti (turchi, ma soprattutto stranieri) anche legati ad al-Qaida, che in prospettiva saranno un
guaio notevole, in quanto tali e per la
loro capacità di contagio tra gli islamisti turchi, oggi in crescita.
Inoltre, i proficui accordi economici che la Turchia aveva instaurato
con la Siria sono praticamente finiti nel nulla, e questo ha fatto perdere
all’economia turca (e ai capitalisti locali) qualche miliardo di dollari. Prima
o poi ciò peserà sulla bilancia politica. E già il 60,04% dell’elettorato
(sondaggio diffuso dal sito turco Today’s
Zaman, ovvero Tempo d’Oggi)
sarebbe favorevole a un cambio di leadership politica, il 67,1% contrario
all’attuale politica estera a fronte di un modesto 18,3% favorevole.
Infine c’è il riacutizzarsi del problema curdo. La guerriglia del locale
Pkk è ripresa nel sudest, e in più fra i profughi sono entrati in Turchia anche
militanti curdi ovviamente in appoggio al Pkk. L’incancrenito problema curdo –
che la Turchia fin dai tempi di Atatürk ha volutamente ignorato spacciando i
curdi per “turchi della Montagna”, reprimendo spesso e volentieri in modo
sanguinoso (allo stesso modo di al-Assad) – bene o male riguarda un buon 25%
dei cittadini turchi (cioè un cittadino turco su quattro è curdo) e nell’attuale
situazione globale può diventare devastante per la stessa unità della Turchia,
in parallelo con la destabilizzazione che verrà dal versante islamista.
Non mancano nemmeno i segni di una marcia indietro del governo turco in
materia di libertà d’informazione: cosa pensare quando il ministro degli Esteri
Ahmet Davutoğlu si scaglia contro l’importante quotidiano Cumhuriyet (Repubblica)
accusandolo di tradimento per aver dubitato della versione ufficiale
sull’abbattimento di un caccia turco da parte dei siriani? Resta da vedere se
si tratta di manifestazione di forza o segno di debolezza.
Se la maggioranza dei Turchi è contraria alla politica attuale del
governo, lo stesso vale per l’esercito; il che rende poco credibili le prove
muscolari di Ankara al confine siriano, ma lascia un punto interrogativo circa
la tenuta complessiva delle Forze armate qualora la crisi interna precipitasse.
È quasi superfluo dire che l’opposizione parlamentare si è scatenata
contro Erdoğan e Davutoğlu. Devlet Bahceli, leader del Partito del Movimento Nazionalista (il quarto partito per seggi) ha
detto chiaro e tondo che sono i Paesi occidentali a volere un intervento turco
in Siria, ammonendo il governo a non cadere nella trappola; il Partito della Pace e la Democrazia (il quarto
per consistenza) attraverso uno dei suoi leader, Selahattin Demirtas, ha
paventato lo scoppio di una grande guerra regionale; Kemal Kilicdaroğlu, capo
del kemalista Partito Repubblicano del
Popolo (Chp) - il secondo partito politico e il principale all’opposizione
- ha accusato Erdoğan, senza mezzi termini, di interferenza negli affari
interni della Siria.
Quali le possibili motivazioni
di una pericolosa scelta autolesionista?
In casi del genere dare risposte presumendo che siano certe è assai
azzardato: al massimo di possono avanzare delle ipotesi, basate su labili
indizi e/o interpretazioni psicologiche. Si tratta quindi di un terreno minato.
Diciamo subito la nostra ipotesi, dando poi la motivazione: nella presente fase
Erdoğan ha bisogno di successi e del conseguente prestigio per portare avanti
un suo ambizioso disegno politico implicante anche una riforma costituzionale
finora sfuggitagli, sia per ragioni numeriche in Parlamento, sia per l’ostilità
delle Forze Armate che solo un “colpo grosso” potrebbe in qualche modo
tacitare. Evidentemente, qualche previsione fondamentale non dev’essersi
realizzata.
Per quanto osannato dai media europei in quanto islamico “moderato”(!?),
i fatti non lasciano dubbi sul fatto che questo personaggio voglia dare alla
Turchia un’impronta islamica che avrebbe fatto infuriare il laico e ateo
Atatürk, creatore della Turchia contemporanea, tanto osannato quanto tradito.
Ed Erdoğan è anche colui che ha teorizzato che la democrazia è come il tram, la
usi finché non ti porta a destinazione”: il corollario è che poi scendi.
Alle ultime elezioni il partito di Erdoğan ha conquistato la maggioranza
ancora una volta, seppure non con il risultato quantitativo da lui sperato, e
in più il suo avversario – il laico e kemalista Partito Repubblicano del Popolo – ha conseguito un risultato
positivo che non raggiungeva da tempo. Questa è la premessa rispetto alla
situazione oggettiva.
Vediamo ora la nostra ipotesi che potrebbe avere come titolo “il futuro
spiega il presente”.
In Turchia non genera stupore dire e scrivere che Erdoğan vorrebbe
restare legalmente al potere fino al 2025. Progetto ambiziosissimo sulla cui
strada però esistono ostacoli di una certa entità, non facilmente superabili,
ma nemmeno impossibili.
Innanzi tutto egli vorrebbe trasformare la Turchia in Repubblica
presidenziale a elezione diretta del Presidente, mentre oggi è una Repubblica
parlamentare; e questo implica un’apposita modifica della Costituzione. Ma oggi
Erdoğan non dispone in Parlamento dei numeri a ciò necessari. Da qui lo sforzo,
già in atto, di incrinare il fronte delle opposizioni e ottenere appoggi al suo
disegno. In astratto Erdoğan – fino a ieri sulla cresta dell’onda per
l’aumentato prestigio della Turchia – potrebbe aspettare le prossime elezioni
politiche del 2015 per aumentare il numero dei suoi parlamentari; in astratto,
perché – e prescindiamo dallo scontento suscitato con la sua politica siriana,
che è un elemento intervenuto dopo – allo stato delle cose esiste un
impedimento di tale portata da richiedere che la riforma costituzionale venga
fatta nel corso della presente legislatura: in base all’attuale Costituzione
alle elezioni del 2015 non potranno presentarsi – avendo realizzato il massimo
previsto di 3 mandati – ben 75 parlamentari storici dell’Akp, fra cui proprio
Erdoğan. Quindi il fatidico 2015 non comporterebbe solo un vero e proprio
terremoto generazionale nel Parlamento turco, ma anche la fine dei sogni di
Erdoğan il quale con la nuova legislatura, non essendo più parlamentare, non
potrebbe essere eletto Presidente della Repubblica dal Parlamento. La modifica
della Costituzione, invece, gli lascerebbe la strada aperta, giacché verrebbe
eletto dal popolo, per 7 anni (oggi sono 5) rinnovabili. Ed eccoci così al 2025. In questo modo
Erdoğan sarebbe Presidente nel 2023, ed avrebbe l’onore prestigioso di gestire
le celebrazioni del primo centenario della Repubblica turca che cade in
quell’anno.
Su questo progetto Erdoğan ci lavora da mesi, e aveva conseguito un
certo consenso in vasti strati della popolazione, per il grado di fiducia
conseguito dal suo governo. In quest’ottica vanno visti anche gli
ammorbidimenti della sua politica verso la minoranza curda; ammorbidimenti che
sovente hanno avuto il carattere di aperture impreviste.
Per la modifica della Costituzione voluta da Erdoğan è necessaria in
Parlamento una maggioranza dei 2/3, a meno che una modifica varata con
risultato inferiore non sia approvata da referendum popolare. Se ciò fosse
avvenuto prima della crisi siriana, Erdoğan avrebbe avuto partita vinta. E
allora perché non l’ha fatto prima? Semplicemente perché una riforma
costituzionale approvata da una maggioranza inferiore ai 2/3 (366 voti) deve
però essere stata approvata con almeno 330 voti, mentre in Parlamento Erdoğan
dispone solo di 327 voti, e il pressing sull’opposizione ancora non ha
raggiunto i risultati voluti.
Va anche detto che nei suoi sogni di potenza Erdoğan non voleva battere
la via del referendum, ma ottenere dal Parlamento l’approvazione piena della
riforma, e per questo aveva cercato di ammorbidire il Partito Repubblicano del Popolo, ma qui si è trovato alle prese con
il capo di questo partito, Kemal Kilicdaroğlu, che oltre a essere una volpe
della politica è curdo e di fede alevita. Comunque in tali sue manovre Erdoğan
è arrivato al punto di abolire i Tribunali speciali che negli ultimi anni se la
sono presa con curdi dissidenti e con militari sospettati di voler rovesciare
il governo perché troppo islamico. dei più diversi ranghi dell’esercito turco
accusati di complottare per rovesciare il governo Erdoğan.
A questo punto è facile effettuare il collegamento con la crisi siriana:
l’appoggio turco a una sollevazione armata (visto che le manifestazioni di
piazza non avevano sortito i risultati della Tunisia e dell’Egitto) che
rovesciasse al-Assad in tempi brevi avrebbe inserito attivamente la Turchia di
Erdoğan - a pieno titolo - nel mito della “primavera araba”, consolidando di
molto il prestigio già acquisito. Invece tutto è andato storto: il regime
siriano ha manifestato un’imprevista capacità di resistenza, e mentre resisteva
c’è stato l’afflusso di profughi, di jihadisti, di agenti statunitensi e
israeliani a cui a quel punto non si poteva dire di no, ecc. ecc.
E a questo punto è assai probabile che i voti mancanti in Parlamento
Erdoğan se li possa scordare. Forse i 3 necessari per approvare la riforma e
poi sottoporla a referendum li potrà acquisire con la corruzione, ma – con la
situazione creatasi – vincerebbe ancora il referendum?
Ovviamente qui facciamo delle ipotesi, per quanto motivate. I fatti
diranno se sono fondate e se si dovrà considerare la Siria tomba dei sogni di
gloria di Recep Tayyip Erdoğan per un errore di calcolo.