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giovedì 13 settembre 2012

LA TURCHIA NELLA CRISI SIRIANA, di Pier Francesco Zarcone

Va tenuto conto che il governo turco, mutando di 360º la sua politica verso la Siria di al-Assad, d’un colpo solo ha bruciato la precedente svolta neottomana che l’aveva posta in posizione autonoma rispetto agli Stati Uniti, tornando a collaborare in posizione subordinata (sul piano degli interessi) sia con Washington e le monarchie reazionarie alleate sia con Israele (la zona a ridosso della Siria pullula di agenti della Cia e del Mossad). Una collaborazione alla destabilizzazione della Siria da cui Ankara non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere. In più ha deteriorato i precedenti ottimi rapporti con l’Iran e quelli con l’Iraq; con la conseguenza che oggi la Turchia è in rapporti negativi con quasi tutti i paesi vicini (oltre ai due predetti e al governo siriano in carica, con Grecia, Cipro, Armenia e Russia). In Libano Hezbollah ha rapito due turchi come rappresaglia per il sequestro di un turco da parte dei ribelli in Siria, e da parte sua Ankara ha chiesto ai suoi cittadini di non recarsi in Libano.
Eppure la Turchia si era posta come moderatrice dei conflitti locali e sul piano economico un suo importante obiettivo nel Vicino Oriente era la creazione di una zona di libero scambio con Siria, Libano e Giordania; inoltre aveva concluso rapporti commerciali con l’Iran ed effettuato consistenti investimenti in Siria e nel Kurdistan iracheno, ricavando dagli scambi con tali paesi notevoli vantaggi economici, avendo anche di mira l’integrazione economica e commerciale della regione, inclusi i trasporti e le reti energetiche. In questo quadro i buoni rapporti con la Siria occupavano un posto centrale. Ora tutto è stato buttato a mare. Perché?
Nel cercare di rispondere, come scelta di metodo dividiamo quest’articolo in due paragrafi, parlando prima delle conseguenze negative prodotte e producibili da questa nuova politica estera, e poi cercando di capire le possibili motivazioni sottostanti al nuovo corso.

La Turchia rischia una forte destabilizzazione interna
L’attuale politica del premier Recep Tayyip Erdoğan non piace ad almeno il 60% dei turchi (se i sondaggi sono attendibili), e la stessa percentuale è contraria al coinvolgimento militare della Turchia in Siria. Le ragioni sono molte, e molte sono intuibili. Fra esse ve ne è una poco nota ma importante, giacché la comunanza di religione lascia impregiudicate le antipatie etniche, spontanee o indotte che siano: ebbene, in generale i turchi - per quanto in maggioranza musulmani sunniti - non amano affatto gli arabi, tanto che definire una persona arab gibi (cioè, in turco, “come un arabo”) non vuol dire per niente fargli un complimento.

Semmai possono essere maggiori i vincoli di solidarietà fra le minoranze siriane genericamente definibili sciite (alawiti, ismaeliti e imamiti duodecimani) e le corrispondenti minoranze religiose della Turchia. Infatti anche nel territorio della Repubblica turca esiste una minoranza definibile di ceppo sciita di una certa consistenza tra aleviti, alawiti e imamiti duodecimani. Queste minoranze nel corso della storia anatolica hanno sempre avuto vita difficile e conosciuto persecuzioni, anche perché la loro eterodossia rispetto alla maggioranza sunnita li presentava come possibili quinte colonne della Persia sciita (oggi Iran), che fu a Oriente il grande nemico dell’Impero ottomano.

Ma in Turchia i curdi non sono l’unica minoranza etnica: sia pure in proporzioni assai minori (ovviamente non ci sono statistiche sicure al riguardo) abbiamo arabi, armeni, assiri, azeri bulgari e i superstiti greci. Quindi, anche la Turchia è un mosaico etnico il cui collant non è affatto quello religioso, bensì la comunanza della lingua (per quanto imposta) e lo status di cittadino.  
Attualmente il territorio turco a ridosso della frontiera siriana è al collasso – sanitario, economico e sociale – per l’enorme afflusso di profughi (con cui la popolazione locale antipatizza, in un modo che fa ricordare le tensioni provocate dalla massiccia presenza di militanti di al-Fatah in Libano e Giordania), e si trova in una situazione di pericolo politico per la forte presenza di militanti jihadisti (turchi, ma soprattutto stranieri) anche legati ad al-Qaida, che in prospettiva saranno un guaio notevole, in quanto tali  e per la loro capacità di contagio tra gli islamisti turchi, oggi in crescita. 
Inoltre, i proficui accordi economici che la Turchia aveva instaurato con la Siria sono praticamente finiti nel nulla, e questo ha fatto perdere all’economia turca (e ai capitalisti locali) qualche miliardo di dollari. Prima o poi ciò peserà sulla bilancia politica. E già il 60,04% dell’elettorato (sondaggio diffuso dal sito turco Today’s Zaman, ovvero Tempo d’Oggi) sarebbe favorevole a un cambio di leadership politica, il 67,1% contrario all’attuale politica estera a fronte di un modesto 18,3% favorevole.

Infine c’è il riacutizzarsi del problema curdo. La guerriglia del locale Pkk è ripresa nel sudest, e in più fra i profughi sono entrati in Turchia anche militanti curdi ovviamente in appoggio al Pkk. L’incancrenito problema curdo – che la Turchia fin dai tempi di Atatürk ha volutamente ignorato spacciando i curdi per “turchi della Montagna”, reprimendo spesso e volentieri in modo sanguinoso (allo stesso modo di al-Assad) – bene o male riguarda un buon 25% dei cittadini turchi (cioè un cittadino turco su quattro è curdo) e nell’attuale situazione globale può diventare devastante per la stessa unità della Turchia, in parallelo con la destabilizzazione che verrà dal versante islamista.
Non mancano nemmeno i segni di una marcia indietro del governo turco in materia di libertà d’informazione: cosa pensare quando il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu si scaglia contro l’importante quotidiano Cumhuriyet (Repubblica) accusandolo di tradimento per aver dubitato della versione ufficiale sull’abbattimento di un caccia turco da parte dei siriani? Resta da vedere se si tratta di manifestazione di forza o segno di debolezza.

Se la maggioranza dei Turchi è contraria alla politica attuale del governo, lo stesso vale per l’esercito; il che rende poco credibili le prove muscolari di Ankara al confine siriano, ma lascia un punto interrogativo circa la tenuta complessiva delle Forze armate qualora la crisi interna precipitasse.

È quasi superfluo dire che l’opposizione parlamentare si è scatenata contro Erdoğan e Davutoğlu. Devlet Bahceli, leader del Partito del Movimento Nazionalista (il quarto partito per seggi) ha detto chiaro e tondo che sono i Paesi occidentali a volere un intervento turco in Siria, ammonendo il governo a non cadere nella trappola; il Partito della Pace e la Democrazia (il quarto per consistenza) attraverso uno dei suoi leader, Selahattin Demirtas, ha paventato lo scoppio di una grande guerra regionale; Kemal Kilicdaroğlu, capo del kemalista Partito Repubblicano del Popolo (Chp) - il secondo partito politico e il principale all’opposizione - ha accusato Erdoğan, senza mezzi termini, di interferenza negli affari interni della Siria.

Quali le possibili motivazioni di una pericolosa scelta autolesionista?
In casi del genere dare risposte presumendo che siano certe è assai azzardato: al massimo di possono avanzare delle ipotesi, basate su labili indizi e/o interpretazioni psicologiche. Si tratta quindi di un terreno minato. Diciamo subito la nostra ipotesi, dando poi la motivazione: nella presente fase Erdoğan ha bisogno di successi e del conseguente prestigio per portare avanti un suo ambizioso disegno politico implicante anche una riforma costituzionale finora sfuggitagli, sia per ragioni numeriche in Parlamento, sia per l’ostilità delle Forze Armate che solo un “colpo grosso” potrebbe in qualche modo tacitare. Evidentemente, qualche previsione fondamentale non dev’essersi realizzata.
Per quanto osannato dai media europei in quanto islamico “moderato”(!?), i fatti non lasciano dubbi sul fatto che questo personaggio voglia dare alla Turchia un’impronta islamica che avrebbe fatto infuriare il laico e ateo Atatürk, creatore della Turchia contemporanea, tanto osannato quanto tradito. Ed Erdoğan è anche colui che ha teorizzato che la democrazia è come il tram, la usi finché non ti porta a destinazione”: il corollario è che poi scendi.
Alle ultime elezioni il partito di Erdoğan ha conquistato la maggioranza ancora una volta, seppure non con il risultato quantitativo da lui sperato, e in più il suo avversario – il laico e kemalista Partito Repubblicano del Popolo – ha conseguito un risultato positivo che non raggiungeva da tempo. Questa è la premessa rispetto alla situazione oggettiva.
Vediamo ora la nostra ipotesi che potrebbe avere come titolo “il futuro spiega il presente”.

In Turchia non genera stupore dire e scrivere che Erdoğan vorrebbe restare legalmente al potere fino al 2025. Progetto ambiziosissimo sulla cui strada però esistono ostacoli di una certa entità, non facilmente superabili, ma nemmeno impossibili.
Innanzi tutto egli vorrebbe trasformare la Turchia in Repubblica presidenziale a elezione diretta del Presidente, mentre oggi è una Repubblica parlamentare; e questo implica un’apposita modifica della Costituzione. Ma oggi Erdoğan non dispone in Parlamento dei numeri a ciò necessari. Da qui lo sforzo, già in atto, di incrinare il fronte delle opposizioni e ottenere appoggi al suo disegno. In astratto Erdoğan – fino a ieri sulla cresta dell’onda per l’aumentato prestigio della Turchia – potrebbe aspettare le prossime elezioni politiche del 2015 per aumentare il numero dei suoi parlamentari; in astratto, perché – e prescindiamo dallo scontento suscitato con la sua politica siriana, che è un elemento intervenuto dopo – allo stato delle cose esiste un impedimento di tale portata da richiedere che la riforma costituzionale venga fatta nel corso della presente legislatura: in base all’attuale Costituzione alle elezioni del 2015 non potranno presentarsi – avendo realizzato il massimo previsto di 3 mandati – ben 75 parlamentari storici dell’Akp, fra cui proprio Erdoğan. Quindi il fatidico 2015 non comporterebbe solo un vero e proprio terremoto generazionale nel Parlamento turco, ma anche la fine dei sogni di Erdoğan il quale con la nuova legislatura, non essendo più parlamentare, non potrebbe essere eletto Presidente della Repubblica dal Parlamento. La modifica della Costituzione, invece, gli lascerebbe la strada aperta, giacché verrebbe eletto dal popolo, per 7 anni (oggi sono 5) rinnovabili. Ed eccoci così al 2025. In questo modo Erdoğan sarebbe Presidente nel 2023, ed avrebbe l’onore prestigioso di gestire le celebrazioni del primo centenario della Repubblica turca che cade in quell’anno. 
Su questo progetto Erdoğan ci lavora da mesi, e aveva conseguito un certo consenso in vasti strati della popolazione, per il grado di fiducia conseguito dal suo governo. In quest’ottica vanno visti anche gli ammorbidimenti della sua politica verso la minoranza curda; ammorbidimenti che sovente hanno avuto il carattere di aperture impreviste. 
Per la modifica della Costituzione voluta da Erdoğan è necessaria in Parlamento una maggioranza dei 2/3, a meno che una modifica varata con risultato inferiore non sia approvata da referendum popolare. Se ciò fosse avvenuto prima della crisi siriana, Erdoğan avrebbe avuto partita vinta. E allora perché non l’ha fatto prima? Semplicemente perché una riforma costituzionale approvata da una maggioranza inferiore ai 2/3 (366 voti) deve però essere stata approvata con almeno 330 voti, mentre in Parlamento Erdoğan dispone solo di 327 voti, e il pressing sull’opposizione ancora non ha raggiunto i risultati voluti.
Va anche detto che nei suoi sogni di potenza Erdoğan non voleva battere la via del referendum, ma ottenere dal Parlamento l’approvazione piena della riforma, e per questo aveva cercato di ammorbidire il Partito Repubblicano del Popolo, ma qui si è trovato alle prese con il capo di questo partito, Kemal Kilicdaroğlu, che oltre a essere una volpe della politica è curdo e di fede alevita. Comunque in tali sue manovre Erdoğan è arrivato al punto di abolire i Tribunali speciali che negli ultimi anni se la sono presa con curdi dissidenti e con militari sospettati di voler rovesciare il governo perché troppo islamico. dei più diversi ranghi dell’esercito turco accusati di complottare per rovesciare il governo Erdoğan.   

A questo punto è facile effettuare il collegamento con la crisi siriana: l’appoggio turco a una sollevazione armata (visto che le manifestazioni di piazza non avevano sortito i risultati della Tunisia e dell’Egitto) che rovesciasse al-Assad in tempi brevi avrebbe inserito attivamente la Turchia di Erdoğan - a pieno titolo - nel mito della “primavera araba”, consolidando di molto il prestigio già acquisito. Invece tutto è andato storto: il regime siriano ha manifestato un’imprevista capacità di resistenza, e mentre resisteva c’è stato l’afflusso di profughi, di jihadisti, di agenti statunitensi e israeliani a cui a quel punto non si poteva dire di no, ecc. ecc.
E a questo punto è assai probabile che i voti mancanti in Parlamento Erdoğan se li possa scordare. Forse i 3 necessari per approvare la riforma e poi sottoporla a referendum li potrà acquisire con la corruzione, ma – con la situazione creatasi – vincerebbe ancora il referendum?
Ovviamente qui facciamo delle ipotesi, per quanto motivate. I fatti diranno se sono fondate e se si dovrà considerare la Siria tomba dei sogni di gloria di Recep Tayyip Erdoğan per un errore di calcolo.       

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