Riportiamo questa dichiarazione di Giorgio
Cremaschi perché dice la verità. E la verità, per una volta tanto, viene detta
da qualcuno che ha fatto parte integrante dell’apparato Cgil e Fiom. Ci piace
anche il fatto che finalmente si senta una voce autocritica, anche se solo per
i tempi più recenti (cioè per la speranza infondata che la revisione
governativa e parlamentare del diritto del lavoro sarebbe stata fermata da un moto popolare). Per
un’autocritica sul passato della Fiom/Cgil – per lo meno dal 1969 in poi - vale la pena
di attendere ancora. Ma prima o poi bisognerà arrivarci.
Che in Italia si faccia autocritica è un fatto
notevole per la sua rarità, se non sconosciuto. Siamo invece abituati a
scivolare sul ghiaccio di svolte e svoltine la cui sola motivazione è tenere a
galla chi dovrebbe affondare; e siamo nell’ambiguità di due ex ministri e molti
sostenitori dell’ultimo governo di centrosinistra che pretendono di costruire
Syriza in Italia. Questi ministeriali sarebbero più credibili se almeno
facessero «un passo indietro» prendendosi una lunga vacanza.
Cremaschi descrive come le direzioni di Cisl, Uil
e anche Cgil abbiano contribuito a costruire una sconfitta storica per i lavoratori.
Tuttavia non si tratta della sconfitta delle direzioni sindacali perché esse
non rappresentano gli interessi dei lavoratori bensì quelli del capitale sopra i lavoratori. Oramai la posizione
istituzionale della burocrazia sindacale non deriva più dalla sua capacità di
mediare tra gli interessi dei lavoratori e quelli del capitale, ma dalla
gestione delle batoste destinate ai loro iscritti
Lo stesso vale per il PD, i cui meriti precedenti
presso il capitale nazionale e internazionale, a partire dallo smantellamento
dell’Iri fino alle manovre per l’entrata nell’eurozona, offuscano quelli di
Berlusconi, ora narratore di barzellette sulla possibile uscita dall’euro e il
ritorno alla lira.
Cremaschi promette di non avere più niente a che
fare col PD e siamo disposti a credergli. Temiamo, però, che altri nella sua
area mentano facendo la stessa promessa.
Si tratta ora di riflettere sull’interrogativo
posto da Cremaschi e capire perché la risposta non sia stata neanche
lontanamente all’altezza della sfida, traendone delle indicazioni per il
presente. Certamente le direzioni sindacali hanno le loro responsabilità. Ma
non si tratta solo di questo. Di sconfitta in sconfitta, dal meno peggio al
sempre peggio è il quadro di un’epoca e di un’intera casta politica (inclusa la
sottocasta dei Forchettoni rossi) che entra in gioco. Fin dove sarà disposto a
spingersi Cremaschi in questo riesame del quadro? E fino a dove sono disposte
ad autocriticarsi le correnti politiche sulle quali si appoggia al momento?
Anch’esse hanno fatto parte, più o meno continuativamente, del miraggio
elettoralistico che continua ad avvelenare l’atmosfera politica
dell’antagonismo sociale.
Michele Nobile
È paradossale che nel periodo di massima crisi da molti
decenni a questa parte del capitalismo internazionale e di quello nostrano in
particolare - perché in Italia la crisi
economica si avvita con quella del sistema politico inetto e corrotto
della cosiddetta “Seconda repubblica” - la borghesia possa adottare le misure
più drastiche senza trovare la benché minima resistenza nel mondo del lavoro e
nelle organizzazioni politiche e sindacali che dovrebbero rappresentarlo. Il
paradosso però è solo apparente, se si guarda alle condizioni attuali valutando
la linea di tendenza almeno degli ultimi due decenni e si rifugge da una
valutazione impressionistica e statica.
La sinistra politica come l’abbiamo conosciuta sino alla
fine del secolo scorso non esiste più: quella maggioritaria - di provenienza
Pci, Psi - è passata ormai da tempo armi
e bagagli al liberismo più smaccato, alla difesa delle compatibilità del
capitalismo, se non alla reazione vera e propria in varie questioni sociali,
culturali, religiose, giudiziarie.
Mentre la grossa parte di ciò che restava dell’ex-estrema
sinistra (dalla gruppettistica degli anni ’70 a Democrazia proletaria arrivando
a Rifondazione e alla cristallizzazione della sottocasta dei Forchettoni rossi)
ha tristemente concluso il suo declino imbarcandosi nell’ultimo governo Prodi
del 2006, per essere poi punita dal suo stesso elettorato nelle elezioni del
2008.
Cremaschi ha conosciuto tutto ciò e ne ha fatto parte
integrante, anche se “nobile”. Diciamo che ne è stato a suo modo un’espressione
ideologica in campo soprattutto sindacale.
Ciò va ricordato perché spesso ci si dimentica di tenere
adeguatamente conto dell’involuzione del sindacato, di anni e anni di accordi a
perdere, di scioperi senza costrutto o senza obiettivi e di concertazione
subalterna che lo hanno portato a trasformarsi in ciò che è al momento: un
carrozzone burocratico che imbriglia tutte le spinte al conflitto che vengono
dalla sua base per spostarle sul terreno della mediazione politica finalizzata
al mantenimento dei propri privilegi di apparato – vedi partecipazione a una
marea di commissioni paritetiche assieme alle controparti, vedi distacchi
sindacali pagati dagli enti, vedi l’enorme giro di affari che ruota intorno ai
centri di assistenza fiscale e ai
patronati che sbrigano “gratuitamente” le montagne di scartoffie che la
burocrazia fa gravare ad arte sulla
testa dei cittadini.
Anche il sindacalismo di base - che dalla fine degli anni
’80 aveva cercato di dare una risposta alla capitolazione del sindacalismo
confederale - si dibatte in una crisi senza sbocco fra tentazioni di
adeguamento all’andazzo corrente e resistenze generose ma minoritarie che al
massimo incidono - e non potrebbe essere altrimenti, viste le forze in campo -
solo su situazioni locali. E comunque, anche questo tipo di sindacalismo ha
fatto propria la prassi di convocare gli scioperi (a volte fintamente
“generali”) indipendentemente dal conseguimento concreto di risultati, sia pure
modesti o modestissimi. Questa prassi, che col tempo contribuisce a
demoralizzare il fronte dei lavoratori in lotta, ha in genere delle finalità
propagandistiche, di concorrenza tra sindacati di base e di esibizionismo dei
gruppi dirigenti (che non a caso sono inamovibili, sempre gli stessi ormai da
decenni e in saldo controllo dei rilspettivi apparatini).
Per non parlare dei piccoli gruppi politici collocabili
nell’area dell’ex-estrema sinistra che, con tutto il rispetto per i singoli
militanti, non incidono per nulla (e anche loro con gruppi dirigenti
inamovibili per decenni, nei casi storicamente più antichi), mentre presentano
un’immagine caricaturale della prospettiva rivoluzionaria, della sua
elaborazione teorica, dell’apparato partitico, del concetto stesso di militanza
politica.
Ed ecco l’utilità che mi sento di riconoscere nella
dichiarazione di Cremaschi, perché essa afferma più o meno esplicitamente che
sarebbe ora di cominciare a chiedersi che cosa si possa fare, se non sia
necessario un passo indietro da parte di chi ancora vuole resistere
all’offensiva borghese e costruire qualcosa che abbia la massa critica per far
ripartire le mobilitazioni dei lavoratori, difendere i gruppi sociali
falcidiati dalla crisi ecc. Non sarà la demagogia o gli scioperelli convocati
senza obiettivi precisi e irrinunciabili a cambiare la situazione, il rapporto
di forze: il debito pubblico, i profitti degli speculatori e la crisi delle
banche continueremo a pagarli noi, eccome. Marchionne potrà continuare a
irridere le rare sentenze che difendono qualche residuo diritto del mondo del
lavoro chiamandole “folcloristiche”, la ministra Fornero potrà continuare col
suo fare sprezzante a sgretolare pezzo per pezzo quello che si era
faticosamente ottenuto con decenni di lotte e la borghesia nel suo complesso
continuerà ad ingrossare le file dell’esercito industriale di riserva che userà per rimpinguare i suoi profitti
quando la congiuntura tornerà favorevole.
Gino Potrino
La
costituzione esce dalle fabbriche
di Giorgio Cremaschi
(28 giugno 2012)
Il 20 maggio 1970 veniva approvato lo statuto dei
lavoratori. Allora si disse, usando una frase di Di Vittorio, che la
Costituzione varcava finalmente i cancelli dei luoghi di lavoro. Oggi ne
esce, con la controriforma del lavoro suggellata dalle dichiarazioni
tecnicamente reazionarie della ministra Fornero. Il lavoro non ha più diritti e
non e' più un diritto, può solo essere il premio di chi vince la competizione
selvaggia nel mercato e nella vita.
Di fronte a questa drammatica sconfitta sento
prima di tutto il bisogno di scusarmi per la parte che ho in essa. Tempo fa
avevo scritto e detto che di fronte all' attacco all'articolo 18 avremmo fatto
le barricate. Pensavo ancora alla Cgil guidata da Cofferati dieci anni fa e
alle rivolte dei sindacati e del popolo greco oggi. Non e' stato così, mi sono
sbagliato sono stato troppo ottimista. E ora subiamo la più dura sconfitta
sindacale dal dopoguerra senza aver combattuto in maniera adeguata.
Colpa dei lavoratori impauriti e ricattati dalla
disoccupazione e dalla precarietà? No colpa dei dirigenti di quello che una
volta definivamo movimento operaio ed in particolare di quelli della
Cgil. Non e' vero infatti che su questo tema non ci fossero spinte alla
mobilitazione. E' vero anzi il contrario. A primavera era cresciuto un
movimento diffuso nelle fabbriche con adesioni agli scioperi anche di iscritti
a Cisl e Uil. C'era stata la manifestazione Fiom del 9 marzo a Roma e quella
promossa dal NoDebito a Milano. La Cgil aveva proclamato 16 ore di sciopero.
Certo erano ancora avanguardie di massa quelle che si mobilitavano, ma il loro
consenso era diffuso e trasversale, maggioritario nel paese. Uno sciopero
generale della portata delle lotte del 2002 era alla portata ed avrebbe aperto
un fronte complessivo con il governo, mettendo in gravi difficoltà Cisl e Uil e
ancor di più il partito democratico. Ed e' per questo che non si e' fatto. La
squallida mediazione definita tra i partiti di governo si e' trasferita sul
progetto di legge, Cisl e Uil hanno accettato e la Cgil ha finito di opporsi.
E, fatto ancor più grave, ha accettato la mediazione che cancellava l'articolo
18 facendo finta di aver vinto. A quel punto la prospettiva di una unificazione
delle lotte e' saltata e anche la Fiom ha drasticamente ridimensionato la
propria iniziativa. Il movimento si é quindi ridotto a singole azioni di lotta,
da ammirare ringraziare, ma insufficienti a pesare sul quadro politico. Tante
fabbriche metalmeccaniche, prime la Same e la Piaggio han continuato
eroicamente a scioperare. I sindacati di base hanno generosamente scioperato
il 22 scorso. Ma non poteva bastare, tenendo conto anche del terribile regime
informativo che censura ogni dissenso mentre ossessivamente grida: viva
monti, viva l'euro, viva il rigore.
La giornata del voto ha così rappresentato la
sconfitta. Con poche centinaia di persone davanti Montecitorio divise a metà',
e con gli organizzatori della Cgil che mettevano la musica rock ad alto volume
per coprire le voci dell'assemblea spontanea che si stava svolgendo in una
parte della piazza.
Sì io sento il bisogno di scusarmi per questa
sconfitta e per come e' maturata, anche se credo di aver fatto tutto quello di
cui sono capace per impedire che le cose andassero così.
Ora abbiamo il modello Marchionne esteso a tutto
il mondo del lavoro e dobbiamo ricostruire potere e forza. Non sarà facile ma
ci dobbiamo provare, ancor di più noi che siamo consapevoli della portata di
questa sconfitta. Senza fare sconti a chi ne e' più responsabile nel sindacato,
e senza dimenticare mai più la colpa di monti e del Pd che lo sostiene.
Dei quali dovremo essere solo intransigenti avversari.
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