Le ambizioni saudite
In
Iraq si combatte a Ramadi e Falluja contro i jihadisti (di al-Qaida?) che se ne sono impadroniti all’improvviso e
inaspettatamente; e altrettanto inaspettato potrebbe essere definito il diniego
statunitense a un’azione diretta in appoggio all’esercito iraqeno. Questi due
eventi portano ad affrontare anche il ruolo dell’Arabia Saudita, oltre che
degli Stati Uniti, nell’attuale caos del Vicino e Medio Oriente. Circa la
particolare spregiudicata e pericolosa utilizzazione del radicalismo islamico per
i fini geostrategici di Washington si è già detto nel precedente articolo, ma qui
sarà opportuno estendere un po’ il discorso.
Preliminarmente
va sottolineato come l’occupazione jihadista di Ramadi e Falluja sia avvenuta
all’insegna della creazione – a cavallo di Iraq e Siria – di una nuova entità
“statuale” islamica: la “Dawlah (paese, o Stato) islamica di Levante e Sham” (vale a dire “Grande Siria”, nome che
dall’epoca del califfato Umayyade di Damasco designava l’area oggi divisa fra
Siria, Libano, Palestina e Giordania). Questa iniziativa militare, quindi, non
solo si proietta sulla guerra civile siriana e sulle turbolenze libanesi ma
altresì vorrebbe essere la prima pietra per la ricostituzione del califfato
sunnita, estinto forzatamente da Atatürk negli anni '20 del secolo scorso. Poiché
l’Arabia Saudita sta attivamente dietro all’azione della galassia radicale
islamica (dal Marocco al Caucaso e alla Cina), è ragionevole pensare che tale
obiettivo non appartenga anche alla dirigenza saudita? Già in relazione a essa
si parla con maggiore frequenza del processo avviato in Arabia per la creazione
di un’unione politica e monetaria e di una forza militare unica nella penisola.
Iniziative che vorrebbero portare a un’entità
istituzionale abbastanza unitaria e altresì tanto ricca da poter fungere da
punto di agglutinazione per la ricomposizione - in termini strettamente
islamisti - dei risultati dell’azione disgregativa che i jihadisti vanno
realizzando (o si sforzano di realizzare) nei paesi dell’Africa settentrionale e
sub sahariana, del Vicino e Medio Oriente e del Caucaso.
Gli
osservatori politicamente corretti motivano l’attuale atteggiamento passivo
degli Stati Uniti ricorrendo all’attuale esigenza di concentrarsi nell’area del
Pacifico per il contenimento della Cina, ormai inserita nella lista dei futuri
nemici. Ma questa spiegazione non regge a un esame anche superficiale: infatti,
anche volendo ammettere un pericolo cinese per gli Usa, sta di fatto che ancora
esso non sarebbe attuale, mentre al contrario attualissimo appare quello
jihadista. Ma il Grande Gioco imperialista in atto nei paesi islamici è complicato,
ragion per cui gli osservatori politicamente scorretti opinano che in realtà
agli Stati Uniti facciano assai comodo sia il rafforzamento delle monarchie
della penisola araba sia la creazione di una forte aggregazione islamista a
esse collegata e capace di operare contro la Russia a partire dal Caucaso islamico e contro la Cina nelle sue regioni a
maggioranza musulmana; e a buon bisogno capace di creare seri fastidi all’Iran
sciita (soprattutto nelle zone petrolifere del Kuzistan, la cui popolazione è in
maggioranza araba e sunnita) e ai suoi alleati siriani, libanesi e iraqeni
(almeno persistendo gli attuali rapporti con Teheran).
Intanto
va registrato che in Russia – dove nel Caucaso da tempo l’Arabia Saudita aiuta
la guerriglia islamica – la mano saudita ha proprio incrementato la propria
sfera di azione, tant’è che per i recenti attentati a Volgograd lo stesso Putin
ha esplicitamente accusato di terrorismo l’Arabia Saudita, addirittura preannunciando
rappresaglie tali da far «cambiare la situazione in Medio Oriente». D’altro
canto era stato proprio il famigerato principe Bandar bin Sultan (capo dei
servizi segreti sauditi), nell’incontro avuto con Putin a settembre dello
scorso anno, a prospettare la possibilità di attentati se la Russia non avesse
abbandonato al-Assad.
Per i sauditi Washington è un
alleato poco affidabile
Se,
come dianzi detto, Washington potrebbe essere interessata all’eventuale esito
positivo di certi aspetti della strategia saudita, c’è pur sempre per Riyadh la
“spada di Damocle” consistente nei progetti statunitensi per la frantumazione
dell’attuale assetto statuale del Vicino e Medio Oriente, di cui abbiamo già
parlato.
Ma le cause di diffidenza non riducono a ciò. Per quanto a Washington i settori
repubblicani più reazionari o conservatori continuino nei tentativi di
ostacolare la politica estera di Obama, e per quanto i rapporti poco idilliaci intercorsi
con Teheran possano far pensare il contrario, non è affatto improbabile che si
realizzi un’intesa con l’Iran a tutto scapito della monarchia saudita. Come
mai? La risposta principale si chiama “economia”. I repubblicani possono pure
indignarsi, ma è concreto l’interesse delle grandi imprese statunitensi (e anche
europee) per i lucrosi investimenti volti a modernizzare l’economia iraniana,
con particolare riguardo ai progetti energetici, industriali e nei campi delle
telecomunicazioni e dei trasporti, finora rimasti congelati a causa delle
sanzioni occidentali. E poi l’Iran è pur sempre un grande e non sfruttato mercato
di almeno 70 milioni di abitanti. In definitiva, l’Iran si presenta come una
possibile fonte di introiti ben maggiori di quelli ricavabili dai paesi della
penisola araba.
Inoltre
esistono anche le ragioni politiche in senso proprio. È di tutta evidenza pure
per Washington che l’Arabia Saudita sta facendo un suo peculiare gioco
indipendentemente dalle convenienze di Washington e che la sua
incontrollabilità tende a diventare pericolosa. Ne consegue che l’eventuale
accordo sul nucleare iraniano potrebbe anche diventare il primo passo per un
contrappeso strategico (anche militare) all’insidiosa politica saudita nel
Golfo Persico e nella Mezzaluna Fertile. E di questa eventualità la dirigenza saudita
ha decisamente paura.
Ma
non è solo l’economia a incidere. Trattandosi di potenza imperialista, gli Stati
Uniti hanno fatto proprio l’enunciato di Winston Churchill che teorizzava la
mancanza di alleati permanenti e la presenza invece di interessi permanenti.
Ciò a prescindere dalla tendenza della politica estera statunitense a creare
situazioni pasticciate, da cui comunque trae profitto. In quest’ottica
l’esistenza di un interesse statunitense al miglioramento dei rapporti con
l’Iran è fuori discussione per almeno due ordini di motivi. Il primo è
un’applicazione del vecchio divide et
impera, in quanto per il controllo del Vicino e Medio Oriente fa comodo l’esistenza
di più di una potenza regionale; quindi vanno mantenute e incentivate le tensioni
fra Arabia Saudita e Iran insieme a opportune forme che ne equilibrino
l’influenza. A tali fini può essere utile anche fare dei giri di valzer e
creare gelosie. Tanto più se si aprissero delle possibilità per il
miglioramento delle relazioni (oggi pessime) col mondo sciita, più utili di
ieri giacché proprio l’influenza religiosa e politica della “alleata” Arabia
Saudita ha orientato e orienta in senso anti-statunitense settori consistenti
dell’Islam sunnita. Lasciare le cose come stanno significherebbe per Washington
guadagnarci poco e fare gli interessi pressoché esclusivi dei sauditi, il cui
disinvolto autonomismo potrebbe coinvolgere in pericolose e non gradite
iniziative. E c’è un precedente di non poco conto: l’anno scorso a sfilarsi dal
coinvolgimento nell’attacco alla Siria caldeggiato da Riyadh è stato proprio
uno dei più granitici e fedeli alleati di Washington: la Gran Bretagna.
Mezzaluna e stella a 6 punte
si incontrano
Il
pericolo di essere trascinati da Riyadh dove non si voglia porta al capitolo
degli attuali rapporti fra l’Arabia Sudita e Israele; ideologicamente “contro
natura”, ma sostenuti da una ferrea realpolitik
a dimostrazione della fatto che l’assenza di rapporti diplomatici ufficiali non
ostacola nulla. Una prima convergenza fra Arabia Saudita e Israele si è
verificata a proposito della deposizione del Presidente egiziano al-Mursi: per
Israele era fondamentale l’assenza di rischi di denuncia del trattato di pace
firmato da Anwar al-Sadat; per l’Arabia Saudita si è trattato di punire un ex
protetto (la Fratellanza Musulmana)
a un certo momento postosi come autonomo e alternativo sul piano islamico e
politico (cioè antimonarchico). La seconda convergenza corrisponde alla comune
ostilità verso l’Iran, nel caso di Israele motivata in primo luogo dal timore
per il nucleare iraniano.
Inopinate
iniziative contro l’Iran eventualmente realizzate da Israele in connivenza
politica e logistica con i sauditi, potrebbero far saltare pericolosamente
molti giochi di Washington nella regione, e anche oltre. E in più esiste un
pericolo non indifferente per le scelte politiche statunitensi non appiattite
sugli interessi sauditi e israeliani: la non impossibile saldatura fra la potente lobby sionista operante a Washington e
le notevoli risorse finanziarie dell’Arabia Saudita.
Le debolezze saudite
L’attuale
politica militare di Riyadh verso le altre monarchie peninsulari si muove
proprio in funzione anti-iraniana, quand’anche finora non abbiano conseguito
obiettivi decisivi: sul piano militare è stato costituito un abbozzo di comando
più o meno unificato, ma senza arrivare ancora alla formazione di forze armate
congiunte. Non c’è da stupirsi, giacché in questa specifica fase le monarchie
del Golfo non hanno ancora metabolizzato la prospettiva di un ovvio
accrescimento dell’egemonia saudita nei loro confronti, e neppure sono
particolarmente interessate a iniziative suscettibili di peggiorare i loro
rapporti con Iran.
Dal
canto suo a Teheran non si dorme, come rivela la visita effettuata nei paesi
del Golfo ai primi dello scorso dicembre dal ministro degli Esteri iraniano,
Muhammad Javad Zarif. Le iniziative da lui prospettate per rendere più stabile
e sicura quell’area sembra aver riscosso il positivo interesse delle dirigenze
di Kuwait, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti.
Non
si può sottacere che in Arabia Saudita la situazione interna è stabile solo in
apparenza, sia per tutti i limiti derivanti dal governo assoluto di una
notevole gerontocrazia (solo per fare un esempio, l’erede al trono è un
ottantenne) sia per la dissidenza della minoranza sciita, concentrata in zone
ricche di petrolio e appoggiata dall’Iran: finora è stata repressa duramente,
ma domani? Formalmente l’Arabia Saudita – infuriata per essere venuto meno
l’attacco statunitense alla Siria, apparentemente certo fino all’ultimo momento
- fa la voce grossa e assume atteggiamenti da “vergine offesa”: ha rifiutato il
seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e nello scorso dicembre il suo
ambasciatore a Londra, principe Muhammad bin Nawaf bin Abdulaziz al-Saud, ha
confermato che il suo governo avrebbe continuato a lottare contro Siria e Iran
anche da solo. Secondo vari osservatori – a parte le enormi risorse economiche
da cui trae per l’esterno un forte potere di corruzione e una grande capacità
di finanziamento di gruppi armati – la voce grossa dell’Arabia Saudita non
incide sulla sua realtà de gigante dai piedi di argilla, secondo alcuni probabilmente
destinato ad andare in pezzi a medio termine. Lo stesso avviso esiste in
Israele, alla luce del cosiddetto Piano Ynon, secondo il quale L’intera penisola arabica sarebbe
un candidato naturale alla disintegrazione per pressioni interne ed esterne, cosa
inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita.
In
caso di esattezza di tali analisi, allora i piani statunitensi di
balcanizzazione dell’area troverebbero una facilità in più. Accentuabile se gli
Stati Uniti – nel loro complicato Grande Gioco – giocassero davvero la carta
iraniana, come già teorizzato dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew
Brzezinski, secondo cui la riconciliazione tra Stati Uniti e Iran sarebbe resa necessaria da interessi
strategici comuni in relazione a un’area estremamente “volatile”.
Il
quadro va integrato dalle prospettive che sembra avere la ragion d’essere del
potere saudita: il petrolio. La competizione tra Arabia Saudita (più di 10
milioni di barili a giorno) e Russia per il primo posto nella produzione
mondiale di petrolio, non deve ingannare, per il non trascurabile fatto che né
l’Arabia Saudita né l’Opec sono attualmente in grado di esercitare una decisiva
influenza sul mercato energetico, e ancor meno lo saranno un domani. Nuovi
produttori di rilievo sono comparsi sulla scena, oltre al vecchio Messico, e
sono Angola e Venezuela; inoltre gli Stati Uniti hanno riacquistato un ruolo
non secondario, atteso che si è avuto la riattivazione di vecchi pozzi petroliferi
ed è stato introdotto – per il momento solo sul mercato interno - lo shale gas, dai costi di gran lunga
inferiori. Il risultato è che gli Stati Uniti sembrano avviarsi alla riduzione
significativa della loro dipendenza dal petrolio arabo, e per giunta l’Agenzia
internazionale per l’energia prevede addirittura che entro il 2020 gli Stati
Uniti avranno la leadership nella produzione mondiale di petrolio e
conseguiranno l’indipendenza energetica per poi diventare tra il 2020 e il 2035
esportatori di energia. Oggi le forniture agli Usa dal Golfo Persico non vanno
oltre il 10% del petrolio ivi estratto. Si può quindi dire che il petrolio
saudita non sia più essenziale (anzi) come invece lo era una volta; il che
ovviamente incide sull’importanza strategica per Washington di quel paese;
paese che ricava il 90% delle proprie entrate dal petrolio. Sul
versante saudita questo vorrebbe dire peggioramento di posizione nel settore energetico
e riduzione della capacità/possibilità di influenza politica. Inoltre, stante
l’attuale dinamica dei consumi interni, è concreta la possibilità che per il
2030 il petrolio saudita verrà consumato pressoché totalmente dal suo mercato
interno. Magari si cercheranno nuove forme di produzione energetica, ma non
sembra proprio che il futuro si prospetti allo stesso livello dell’attuale e
pingue ricchezza finanziaria.
I possibili bersagli arabi non
restano passivi
A
essere nel mirino dei sauditi e dei loro alleati non sono solo Stati falliti
come il Mali o già destabilizzati come la Libia, ma anche realtà più consistenti, seppure
travagliate da enormi problemi interni e finanziariamente non comparabili con
l’attuale Arabia Saudita. Comunque fra le “vittime” dirette o indirette c’è
anche l’Iran. È quasi fisiologico che si instaurino forme di collaborazione
contro il nemico comune, così come in Iraq non è escluso affatto che
all’inerzia statunitense supplisca l’intervento iraniano.
Esiste
una certa tendenza a visualizzare l’odierno caos nei paesi arabi nei termini
dell’eterno conflitto intra-islamico fra Sciiti e Sunniti: il che è vero solo
in parte. La maggioranza dei Siriani è sunnita (come pure i militari che
combattono con Assad) e sunniti sono Egitto, Giordania, Marocco ecc. Ovviamente
nei vari paesi interessati sono state adottate le necessarie misure di
sicurezza, e non è escluso che le collaborazioni fra servizi segreti aumentino
quantitativamente e qualitativamente. Ciò non toglie l’indispensabilità di
un’offensiva ideologico-religiosa per contrastare la propaganda jihadista
basata su letture parziali ed estreme del Corano e della Sunna. Il che vuole dire opporsi visibilmente alla versione
wahhabita dell’Islam, ufficialmente adottata dall’Arabia Saudita.
Dal
punto di vista formale, il primo a rompere i tabù e a puntare il dito
accusatore contro il wahabismo saudita è stato al-Assad; il che sembra quasi
banale e privo della giusta autorità, non foss’altro per l’alawismo del
Presidente siriano. Tuttavia di recente proprio la massima autorità morale e
culturale dell’Islam sunnita, cioè l’Università di al-Azhar al Cairo, attraverso
lo shaykh Ahmad al-Tayab, ha
annunciato la prossima apertura di un canale televisivo multilingue (arabo,
inglese, francese e tedesco) per diffondere una visione corretta dell’Islam –
quindi in funzione anti-wahhabita – e lottare contro il jihadismo e la sua
ideologia.
Riguardano: a) divisione della Siria in tre
parti: un piccolo Stato alawita sulla costa mediterranea comprendente Homs,
Damasco e Hama, fusione del nord curdo con il Kurdistan iracheno di Mosul, Stato
sunnita al centro della Siria eventualmente federabile con le province sunnite
irachene; b) divisione dell’Iraq in tre Stati: curdo a nord (insieme alla parte
curda della Siria), da Baghdad a Falluja fino all’attuale confine siriano;
sciita a sud (da Najaf a Nasiriyha a Bassora) a maggioranza prevalentemente
sciita; c) divisione dell’Arabia Saudita in cinque parti: uno Stato wahhabita a
Riad, uno a nord, uno a ovest con Gedda e La Mecca, uno a est con capitale ad-Dammam e infine
uno a sud. Lo Yemen (dopo la riunificazione del 1990) potrebbe ridividersi tra
il nord con Sana'a e il sud con Aden.
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