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sabato 1 febbraio 2014

ARABIA SAUDITA: AMBIZIONI E DIFFICOLTÀ, di Pier Francesco Zarcone

Le ambizioni saudite
In Iraq si combatte a Ramadi e Falluja contro i jihadisti (di al-Qaida?) che se ne sono impadroniti all’improvviso e inaspettatamente; e altrettanto inaspettato potrebbe essere definito il diniego statunitense a un’azione diretta in appoggio all’esercito iraqeno. Questi due eventi portano ad affrontare anche il ruolo dell’Arabia Saudita, oltre che degli Stati Uniti, nell’attuale caos del Vicino e Medio Oriente. Circa la particolare spregiudicata e pericolosa utilizzazione del radicalismo islamico per i fini geostrategici di Washington si è già detto nel precedente articolo, ma qui sarà opportuno estendere un po’ il discorso.
Preliminarmente va sottolineato come l’occupazione jihadista di Ramadi e Falluja sia avvenuta all’insegna della creazione – a cavallo di Iraq e Siria – di una nuova entità “statuale” islamica: la “Dawlah (paese, o Stato) islamica di Levante e Sham” (vale a dire “Grande Siria”, nome che dall’epoca del califfato Umayyade di Damasco designava l’area oggi divisa fra Siria, Libano, Palestina e Giordania). Questa iniziativa militare, quindi, non solo si proietta sulla guerra civile siriana e sulle turbolenze libanesi ma altresì vorrebbe essere la prima pietra per la ricostituzione del califfato sunnita, estinto forzatamente da Atatürk negli anni '20 del secolo scorso. Poiché l’Arabia Saudita sta attivamente dietro all’azione della galassia radicale islamica (dal Marocco al Caucaso e alla Cina), è ragionevole pensare che tale obiettivo non appartenga anche alla dirigenza saudita? Già in relazione a essa si parla con maggiore frequenza del processo avviato in Arabia per la creazione di un’unione politica e monetaria e di una forza militare unica nella penisola. Iniziative che vorrebbero portare  a un’entità istituzionale abbastanza unitaria e altresì tanto ricca da poter fungere da punto di agglutinazione per la ricomposizione - in termini strettamente islamisti - dei risultati dell’azione disgregativa che i jihadisti vanno realizzando (o si sforzano di realizzare) nei paesi dell’Africa settentrionale e sub sahariana, del Vicino e Medio Oriente e del Caucaso.
Gli osservatori politicamente corretti motivano l’attuale atteggiamento passivo degli Stati Uniti ricorrendo all’attuale esigenza di concentrarsi nell’area del Pacifico per il contenimento della Cina, ormai inserita nella lista dei futuri nemici. Ma questa spiegazione non regge a un esame anche superficiale: infatti, anche volendo ammettere un pericolo cinese per gli Usa, sta di fatto che ancora esso non sarebbe attuale, mentre al contrario attualissimo appare quello jihadista. Ma il Grande Gioco imperialista in atto nei paesi islamici è complicato, ragion per cui gli osservatori politicamente scorretti opinano che in realtà agli Stati Uniti facciano assai comodo sia il rafforzamento delle monarchie della penisola araba sia la creazione di una forte aggregazione islamista a esse collegata e capace di operare contro la Russia a partire dal Caucaso islamico e contro la Cina nelle sue regioni a maggioranza musulmana; e a buon bisogno capace di creare seri fastidi all’Iran sciita (soprattutto nelle zone petrolifere del Kuzistan, la cui popolazione è in maggioranza araba e sunnita) e ai suoi alleati siriani, libanesi e iraqeni (almeno persistendo gli attuali rapporti con Teheran).
Intanto va registrato che in Russia – dove nel Caucaso da tempo l’Arabia Saudita aiuta la guerriglia islamica – la mano saudita ha proprio incrementato la propria sfera di azione, tant’è che per i recenti attentati a Volgograd lo stesso Putin ha esplicitamente accusato di terrorismo l’Arabia Saudita, addirittura preannunciando rappresaglie tali da far «cambiare la situazione in Medio Oriente». D’altro canto era stato proprio il famigerato principe Bandar bin Sultan (capo dei servizi segreti sauditi), nell’incontro avuto con Putin a settembre dello scorso anno, a prospettare la possibilità di attentati se la Russia non avesse abbandonato al-Assad. 

Per i sauditi Washington è un alleato poco affidabile
Se, come dianzi detto, Washington potrebbe essere interessata all’eventuale esito positivo di certi aspetti della strategia saudita, c’è pur sempre per Riyadh la “spada di Damocle” consistente nei progetti statunitensi per la frantumazione dell’attuale assetto statuale del Vicino e Medio Oriente, di cui abbiamo già parlato[1]. Ma le cause di diffidenza non riducono a ciò. Per quanto a Washington i settori repubblicani più reazionari o conservatori continuino nei tentativi di ostacolare la politica estera di Obama, e per quanto i rapporti poco idilliaci intercorsi con Teheran possano far pensare il contrario, non è affatto improbabile che si realizzi un’intesa con l’Iran a tutto scapito della monarchia saudita. Come mai? La risposta principale si chiama “economia”. I repubblicani possono pure indignarsi, ma è concreto l’interesse delle grandi imprese statunitensi (e anche europee) per i lucrosi investimenti volti a modernizzare l’economia iraniana, con particolare riguardo ai progetti energetici, industriali e nei campi delle telecomunicazioni e dei trasporti, finora rimasti congelati a causa delle sanzioni occidentali. E poi l’Iran è pur sempre un grande e non sfruttato mercato di almeno 70 milioni di abitanti. In definitiva, l’Iran si presenta come una possibile fonte di introiti ben maggiori di quelli ricavabili dai paesi della penisola araba.
Inoltre esistono anche le ragioni politiche in senso proprio. È di tutta evidenza pure per Washington che l’Arabia Saudita sta facendo un suo peculiare gioco indipendentemente dalle convenienze di Washington e che la sua incontrollabilità tende a diventare pericolosa. Ne consegue che l’eventuale accordo sul nucleare iraniano potrebbe anche diventare il primo passo per un contrappeso strategico (anche militare) all’insidiosa politica saudita nel Golfo Persico e nella Mezzaluna Fertile. E di questa eventualità la dirigenza saudita ha decisamente paura.        
Ma non è solo l’economia a incidere. Trattandosi di potenza imperialista, gli Stati Uniti hanno fatto proprio l’enunciato di Winston Churchill che teorizzava la mancanza di alleati permanenti e la presenza invece di interessi permanenti. Ciò a prescindere dalla tendenza della politica estera statunitense a creare situazioni pasticciate, da cui comunque trae profitto. In quest’ottica l’esistenza di un interesse statunitense al miglioramento dei rapporti con l’Iran è fuori discussione per almeno due ordini di motivi. Il primo è un’applicazione del vecchio divide et impera, in quanto per il controllo del Vicino e Medio Oriente fa comodo l’esistenza di più di una potenza regionale; quindi vanno mantenute e incentivate le tensioni fra Arabia Saudita e Iran insieme a opportune forme che ne equilibrino l’influenza. A tali fini può essere utile anche fare dei giri di valzer e creare gelosie. Tanto più se si aprissero delle possibilità per il miglioramento delle relazioni (oggi pessime) col mondo sciita, più utili di ieri giacché proprio l’influenza religiosa e politica della “alleata” Arabia Saudita ha orientato e orienta in senso anti-statunitense settori consistenti dell’Islam sunnita. Lasciare le cose come stanno significherebbe per Washington guadagnarci poco e fare gli interessi pressoché esclusivi dei sauditi, il cui disinvolto autonomismo potrebbe coinvolgere in pericolose e non gradite iniziative. E c’è un precedente di non poco conto: l’anno scorso a sfilarsi dal coinvolgimento nell’attacco alla Siria caldeggiato da Riyadh è stato proprio uno dei più granitici e fedeli alleati di Washington: la Gran Bretagna.

Mezzaluna e stella a 6 punte si incontrano
Il pericolo di essere trascinati da Riyadh dove non si voglia porta al capitolo degli attuali rapporti fra l’Arabia Sudita e Israele; ideologicamente “contro natura”, ma sostenuti da una ferrea realpolitik a dimostrazione della fatto che l’assenza di rapporti diplomatici ufficiali non ostacola nulla. Una prima convergenza fra Arabia Saudita e Israele si è verificata a proposito della deposizione del Presidente egiziano al-Mursi: per Israele era fondamentale l’assenza di rischi di denuncia del trattato di pace firmato da Anwar al-Sadat; per l’Arabia Saudita si è trattato di punire un ex protetto (la Fratellanza Musulmana) a un certo momento postosi come autonomo e alternativo sul piano islamico e politico (cioè antimonarchico). La seconda convergenza corrisponde alla comune ostilità verso l’Iran, nel caso di Israele motivata in primo luogo dal timore per il nucleare iraniano.
Inopinate iniziative contro l’Iran eventualmente realizzate da Israele in connivenza politica e logistica con i sauditi, potrebbero far saltare pericolosamente molti giochi di Washington nella regione, e anche oltre. E in più esiste un pericolo non indifferente per le scelte politiche statunitensi non appiattite sugli interessi sauditi e israeliani: la non impossibile saldatura fra la potente lobby sionista operante a Washington e le notevoli risorse finanziarie dell’Arabia Saudita.       

Le debolezze saudite
L’attuale politica militare di Riyadh verso le altre monarchie peninsulari si muove proprio in funzione anti-iraniana, quand’anche finora non abbiano conseguito obiettivi decisivi: sul piano militare è stato costituito un abbozzo di comando più o meno unificato, ma senza arrivare ancora alla formazione di forze armate congiunte. Non c’è da stupirsi, giacché in questa specifica fase le monarchie del Golfo non hanno ancora metabolizzato la prospettiva di un ovvio accrescimento dell’egemonia saudita nei loro confronti, e neppure sono particolarmente interessate a iniziative suscettibili di peggiorare i loro rapporti con Iran.
Dal canto suo a Teheran non si dorme, come rivela la visita effettuata nei paesi del Golfo ai primi dello scorso dicembre dal ministro degli Esteri iraniano, Muhammad Javad Zarif. Le iniziative da lui prospettate per rendere più stabile e sicura quell’area sembra aver riscosso il positivo interesse delle dirigenze di Kuwait, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti.
Non si può sottacere che in Arabia Saudita la situazione interna è stabile solo in apparenza, sia per tutti i limiti derivanti dal governo assoluto di una notevole gerontocrazia (solo per fare un esempio, l’erede al trono è un ottantenne) sia per la dissidenza della minoranza sciita, concentrata in zone ricche di petrolio e appoggiata dall’Iran: finora è stata repressa duramente, ma domani? Formalmente l’Arabia Saudita – infuriata per essere venuto meno l’attacco statunitense alla Siria, apparentemente certo fino all’ultimo momento - fa la voce grossa e assume atteggiamenti da “vergine offesa”: ha rifiutato il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e nello scorso dicembre il suo ambasciatore a Londra, principe Muhammad bin Nawaf bin Abdulaziz al-Saud, ha confermato che il suo governo avrebbe continuato a lottare contro Siria e Iran anche da solo. Secondo vari osservatori – a parte le enormi risorse economiche da cui trae per l’esterno un forte potere di corruzione e una grande capacità di finanziamento di gruppi armati – la voce grossa dell’Arabia Saudita non incide sulla sua realtà de gigante dai piedi di argilla, secondo alcuni probabilmente destinato ad andare in pezzi a medio termine. Lo stesso avviso esiste in Israele, alla luce del cosiddetto Piano Ynon, secondo il quale L’intera penisola arabica sarebbe un candidato naturale alla disintegrazione per pressioni interne ed esterne, cosa inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita
In caso di esattezza di tali analisi, allora i piani statunitensi di balcanizzazione dell’area troverebbero una facilità in più. Accentuabile se gli Stati Uniti – nel loro complicato Grande Gioco – giocassero davvero la carta iraniana, come già teorizzato dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, secondo cui la riconciliazione tra Stati Uniti e Iran sarebbe resa necessaria da interessi strategici comuni in relazione a un’area estremamente “volatile”.
Il quadro va integrato dalle prospettive che sembra avere la ragion d’essere del potere saudita: il petrolio. La competizione tra Arabia Saudita (più di 10 milioni di barili a giorno) e Russia per il primo posto nella produzione mondiale di petrolio, non deve ingannare, per il non trascurabile fatto che né l’Arabia Saudita né l’Opec sono attualmente in grado di esercitare una decisiva influenza sul mercato energetico, e ancor meno lo saranno un domani. Nuovi produttori di rilievo sono comparsi sulla scena, oltre al vecchio Messico, e sono Angola e Venezuela; inoltre gli Stati Uniti hanno riacquistato un ruolo non secondario, atteso che si è avuto la riattivazione di vecchi pozzi petroliferi ed è stato introdotto – per il momento solo sul mercato interno - lo shale gas, dai costi di gran lunga inferiori. Il risultato è che gli Stati Uniti sembrano avviarsi alla riduzione significativa della loro dipendenza dal petrolio arabo, e per giunta l’Agenzia internazionale per l’energia prevede addirittura che entro il 2020 gli Stati Uniti avranno la leadership nella produzione mondiale di petrolio e conseguiranno l’indipendenza energetica per poi diventare tra il 2020 e il 2035 esportatori di energia. Oggi le forniture agli Usa dal Golfo Persico non vanno oltre il 10% del petrolio ivi estratto. Si può quindi dire che il petrolio saudita non sia più essenziale (anzi) come invece lo era una volta; il che ovviamente incide sull’importanza strategica per Washington di quel paese; paese che ricava il 90% delle proprie entrate dal petrolio.   Sul versante saudita questo vorrebbe dire peggioramento di posizione nel settore energetico e riduzione della capacità/possibilità di influenza politica. Inoltre, stante l’attuale dinamica dei consumi interni, è concreta la possibilità che per il 2030 il petrolio saudita verrà consumato pressoché totalmente dal suo mercato interno. Magari si cercheranno nuove forme di produzione energetica, ma non sembra proprio che il futuro si prospetti allo stesso livello dell’attuale e pingue ricchezza finanziaria.   

I possibili bersagli arabi non restano passivi
A essere nel mirino dei sauditi e dei loro alleati non sono solo Stati falliti come il Mali o già destabilizzati come la Libia, ma anche realtà più consistenti, seppure travagliate da enormi problemi interni e finanziariamente non comparabili con l’attuale Arabia Saudita. Comunque fra le “vittime” dirette o indirette c’è anche l’Iran. È quasi fisiologico che si instaurino forme di collaborazione contro il nemico comune, così come in Iraq non è escluso affatto che all’inerzia statunitense supplisca l’intervento iraniano.
Esiste una certa tendenza a visualizzare l’odierno caos nei paesi arabi nei termini dell’eterno conflitto intra-islamico fra Sciiti e Sunniti: il che è vero solo in parte. La maggioranza dei Siriani è sunnita (come pure i militari che combattono con Assad) e sunniti sono Egitto, Giordania, Marocco ecc. Ovviamente nei vari paesi interessati sono state adottate le necessarie misure di sicurezza, e non è escluso che le collaborazioni fra servizi segreti aumentino quantitativamente e qualitativamente. Ciò non toglie l’indispensabilità di un’offensiva ideologico-religiosa per contrastare la propaganda jihadista basata su letture parziali ed estreme del Corano e della Sunna. Il che vuole dire opporsi visibilmente alla versione wahhabita dell’Islam, ufficialmente adottata dall’Arabia Saudita. 
Dal punto di vista formale, il primo a rompere i tabù e a puntare il dito accusatore contro il wahabismo saudita è stato al-Assad; il che sembra quasi banale e privo della giusta autorità, non foss’altro per l’alawismo del Presidente siriano. Tuttavia di recente proprio la massima autorità morale e culturale dell’Islam sunnita, cioè l’Università di al-Azhar al Cairo, attraverso lo shaykh Ahmad al-Tayab, ha annunciato la prossima apertura di un canale televisivo multilingue (arabo, inglese, francese e tedesco) per diffondere una visione corretta dell’Islam – quindi in funzione anti-wahhabita – e lottare contro il jihadismo e la sua ideologia.



[1] Riguardano: a) divisione della Siria in tre parti: un piccolo Stato alawita sulla costa mediterranea comprendente Homs, Damasco e Hama, fusione del nord curdo con il Kurdistan iracheno di Mosul, Stato sunnita al centro della Siria eventualmente federabile con le province sunnite irachene; b) divisione dell’Iraq in tre Stati: curdo a nord (insieme alla parte curda della Siria), da Baghdad a Falluja fino all’attuale confine siriano; sciita a sud (da Najaf a Nasiriyha a Bassora) a maggioranza prevalentemente sciita; c) divisione dell’Arabia Saudita in cinque parti: uno Stato wahhabita a Riad, uno a nord, uno a ovest con Gedda e La Mecca, uno a est con capitale ad-Dammam e infine uno a sud. Lo Yemen (dopo la riunificazione del 1990) potrebbe ridividersi tra il nord con Sana'a e il sud con Aden.   

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