Una mobilitazione dal basso e inattesa
Nei primi giorni
delle mobilitazioni popolari in Brasile, sui giornali e nei discorsi della
gente si poteva leggere lo sbalordimento di fronte al fatto che in uno dei
luoghi mitici del calcio nazionale e internazionale, nel paese del sole, del
samba, delle belle ragazze e dell’allegria esplodesse una rivolta di massa, non
solo giovanile. Occasionata dall’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici a
Rio de Janeiro e São Paulo, si è subito orientata anche e soprattutto contro le
folli spese in corso per ospitare i prossimi eventi calcistici e sportivi
internazionali (Coppe varie e Olimpiadi).
A tale sorpresa si
è unito quella dei non-disinteressati paladini dell’attuale e selvaggia
“liberalizzazione” capitalistica, della quale il Brasile è stata un teatro
vasto, famoso e duraturo nel tempo. Dove
mai andremo a finire, si chiedono i benpensanti liberisti di destra e di
sinistra se anche tra i giovani di un paese come il Brasile si diffonde la
preferenza per trasporti pubblici efficienti e a prezzi popolari, per ospedali
e scuole invece che per gli stadi?! È diventato uno slogan dei manifestanti “quero dinheiro para saúde e educação”.
Citiamo per tutti la rivista britannica The
Economist che, in un recente reportage sul Brasile, dopo aver additato
nell’inflazione la causa del malcontento esploso nel paese, se l’è presa con
quanti «invece di essere grati per le briciole che cadono dalle tavole dei ricchi
brasiliani, si sono svegliati per il fatto di pagare le imposte e di meritarsi
qualcosa in cambio».
Comunque sia,
centinaia e centinaia di migliaia em
mangas de camisa (equivalente portoghese del castigliano descamisados) intanto sono riusciti a
far rientrare il provvedimento che aumentava il prezzo dei pubblici trasporti.
E questo è un primo dato da tenere a mente. Ma non per questo la protesta è
finita giacché sono entrati a fare parte del pacchetto delle rivendicazioni la
gratuità dei trasporti, il carovita, il carico tributario, l’intera politica
economica del governo, le disuguaglianze socio-economiche, la corruzione, la
violenza della famigerata polizia brasiliana, mentre si diffonde il pericoloso
detto radicale “a política se faz nas
ruas”.
Ancora più
sovversivo il discorso di Paulo Motoryn: «Quello che vogliamo è abbattere le
barriere fra ricchi e poveri, rompere i muri fra centro e periferia,
consolidare il popolo come attore politico d’importanza senza pari e lottare
per un Brasile con giustizia sociale, senza disuguaglianze e con opportunità
per tutti e tutte. Niente di più, niente di meno». È esploso quindi un
malessere diffuso e fin qui sotto traccia e – come in Turchia – per un motivo
in sé minimale: l’aumento contestato era di appena 20 centavos, cioè 20 centesimi.
Altra delusione
sicuramente colpisce chi si nutre dei luoghi comuni diffusi dai media politicamente corretti: il governo
del Brasile da circa dieci anni è governato dal Partido dos Trabalhadores (Pt) di Lula da Silva e Dilma Rousseff
(le cui antiche velleità rivoluzionarie sono state da tempo archiviate per fare
posto a una tranquilla navigazione socialdemocratica), il paese ha una
rilevante crescita macroenomica, a Rio la criminalità sembra in diminuzione;
c’è la rassicurante militarizzazione delle favelas,
e così via. Eppure …
Forchettoni rossi alla brasiliana
Una cosa è sotto
gli occhi di tutti: la sinistra brasiliana al potere non da ieri ha smesso di
essere tale (e non solo per i ricorrenti, e ormai endemici, episodi di corruzione),
cosicché pure in Brasile si è verificato l’ennesimo tradimento degli ex
rivoluzionari diventati socialdemocratici e “forchettoni rossi” in salsa
tropicale. Sotto questo profilo è illuminante lo scritto pieno di amarezza
pubblicato il 22 giugno da Folha de São
Paulo, nel quale si parla di illusioni indotte «dalle vecchie volpi di
sinistra con la loro mimica democratica, mentre decidevano tutto in conventicole
al calar della notte. (...). Il bene era la sinistra, il male la destra. La sinistra poteva fare
emerite cacate, manipolare opinioni, perfino sviare fondi per la causa. “I fini
giustificano i mezzi”, dicevano le dirigenze progressiste. Alla fine siamo
riusciti ad abbattere la destra e mettere al potere la sinistra. E che si è
visto? La maggior sequenza di scandali e corruzione della nostra storia. Le
menzogne si ripetono, i nemici raggiungono accordi, destra e sinistra fanno di
tutto per mantenersi al potere».
Passati gli
entusiasmi iniziali per la prima vittoria elettorale di Lula, il sistema
brasiliano dimostra oggi di aver
mantenuto strutturalmente inalterate le sue caratteristiche di sempre:
profonde
disuguaglianze sociali di massa, e dominio - economico, politico e
nell’apparato statale - da parte di un’oligarchia di cui oggi fanno parte anche
settori “di sinistra”;
bassi salari, i cui
leggeri aumenti (sono sempre al di sotto della crescita dell’economia
nazionale) sono mistificati dalla discesa dei tassi di interesse che hanno
consentito incrementi nei consumi finanziati dai prestiti;
servizi pubblici
essenziali sulla cui qualità ed efficienza è meglio stendere un pietoso velo,
perennemente (e di proposito) decapitalizzati;
infrastrutture
inadeguate;
delinquenza di
notevole entità.
Taluni
miglioramenti nelle condizioni di vita di certi strati della popolazione non
sono sufficienti a modificare questo quadro.
La crescita
macroeconomica c’è, e ancora si mantiene, ma la redistribuzione della ricchezza
è minimale e ben al di sotto del possibile, e le aspettative – spontanee o
indotte – di salariati, giovani ed emarginati che hanno votato per il Partido dos Trabalhadores (Pt) sono
rimaste irrealizzate. Spesso, anzi, svolte demagogiche si sono risolte in
sperperi di denaro a favore di quelli che avrebbero dovuto essere i “nemici di
classe”.
È stato il caso
della famosa interruzione del pagamento del debito estero, voluta da Lula, poi
risoltosi nel pagamento del debito stesso a interessi ancora superiori.
Innegabilmente il Brasile è sfuggito agli artigli del Fondo Monetario
Internazionale (Fmi), ma a un prezzo pesante: il paese è caduto nelle mani di
creditori interni, cioè l’oligarchia nazionale, che hanno lucrato tassi di
interesse oltre il 10%, di modo che l’equivalente del 5,4% del Prodotto Interno
Lordo del 2009 è andato a favore di questi benefattori nazionali, per un
ammontare finanziario che viene calcolato pari a 13 volte di quanto Lula aveva
destinato al programma sociale. Famosa è
rimasta la sua dichiarazione riportata dal giornale Folha de São Paulo il 22 maggio del 2009:
«Se c’è una cosa di
cui nessun imprenditore brasiliano potrà lamentarsi nei miei sei anni di
mandato è che mai si è guadagnato tanto denaro come col mio governo»!
Peccato che non
possano dire lo stesso i ceti popolari per i quali un aumento dei trasporti
diventa un onere pesante, magarti la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Anche in Brasile i
commentatori politicamente corretti hanno manifestato stupore per una così
massiccia contestazione sociale in una fase di tangibile miglioramento dei
consumi e di facile accesso al credito. Volutamente dimenticando che nella
storia dell’umanità i sommovimenti sociali non si verificano solo nelle fasi di
crisi economica, cioè quando le masse degli emarginati non hanno più niente da
perdere e nulla da ottenere nemmeno ricorrendo alla microcriminalità; ma anche
(e a volte soprattutto) nelle fasi di crescita, perché queste consentono una
maggiore presa di coscienza della propria condizione e delle inerenti
ingiustizie.
Non manca chi
arriva ad attribuire all’economia brasiliana un ritmo di crescita eccessivo,
biasima la fretta con cui ci si è avviati alle prime (e insufficienti, diciamo
noi) costruzioni di uno Stato sociale e sostiene che gli attuali livelli di
consumi sarebbero al di sopra delle possibilità del paese. Si tratta di una
canzone ben nota, che non ci si stanca di ripetere. Creare sensi di colpa in
chi per la prima volta comincia a godere di un minimo benessere dopo una vita
di povertà additandolo come causa delle difficoltà economiche di un paese, è
sempre facile, ed evita di parlare di corruzione e dei flussi di denaro
pubblico sviati in favore di privati “amici degli amici”.
Cercando meglio le cause, si dissolvono le favole dei media
Diciamocela tutta:
senza l’improvvisa esplosione della rivolta brasiliana i nostri imperturbabili
mass-media avrebbero continuato a darci la solita edulcorata immagine del
Brasile, con la sua crescita economica, il miglioramento delle condizioni di
vita, la gente che viene da fuori per cercare lavoro e così via. Ora
“improvvisamente” gli stessi media
scoprono tutto quel che non va e adesso, per esempio, la Cnn statunitense
fornisce un quadro chiaro e preciso di quanto sta dietro le manifestazioni:
«Il Brasile sta
sperimentando attualmente un collasso generalizzato nelle sue infrastrutture.
Ci sono problemi con porti, aeroporti, trasporti pubblici, sanità e istruzione.
I brasiliani non vedono quali siano le ragioni per infrastrutture così brutte
quando c’è tanta ricchezza così altamente tassata. Nelle capitali le persone
perdono fino a quattro ore al giorno nel traffico, sia in automobile sia nel
trasporto pubblico che è davvero di bassissima qualità. Il governo brasiliano
ha adottato misure per rimediare e controllare l’inflazione solo intervenendo
sulle tasse e ancora non ha capito che il paradigma deve includere un
intervento più centrato sulle infrastrutture. Nello stesso tempo il governo sta
riproducendo su scala minore quanto fatto dall’Argentina qualche tempo fa (…)
il che sta portando a inflazione alta e bassa crescita. Oltre al problema delle
infrastrutture esistono vari scandali per corruzione che rimangono senza
giudizio processuale, e quando i giudizi ci sono tendono a concludersi con
l’assoluzione del reo. Il maggiore scandalo per corruzione della storia del
Brasile finalmente è finito con la condanna dei rei e ora il governo sta
tentando di ribaltare l’esito del processo manovrando attraverso emendamenti
costituzionali incredibili, come il Pec [Proposta di Emendamento
Costituzionale] 37 che eliminerà i poteri investigativi dei Pubblici Ministeri,
delegandoli interamente alla Polizia Federale. In più, un’altra proposta cerca
di sottoporre le decisioni della Suprema Corte Brasiliana al Congresso – una
completa violazione dei tre poteri».
E anche questo
scandalo legislativo ha infiammato vasti settori della popolazione.
A ben guardare con la protesta contro un aumento minimo delle tariffe dei
servizi di trasporto si viene ad affrontare un tema tanto essenziale quanto
politicamente scorrettissimo, e cioè si mette in discussione la polarizzazione
fra interessi pubblici e privati risolta dal neoliberalismo della
globalizzazione a favore di questi ultimi, mentre si dichiara che la specifica
questione relativa a chi debba finanziare i costi di un servizio pubblico
essenziale non va impostata subordinatamente alla brama di profitto delle
imprese private.
In questo quadro
l’ex calciatore Pelé ha perso l’occasione per stare zitto: di fronte a un
popolo giustamente inferocito per ragioni materiali concrete non ha trovato di
meglio che invitarlo a farla finita con le proteste di strada per concentrarsi
nell’appoggio alla Nazionale durante la Coppa delle Confederazioni e il
Mondiale 2014. Quanto Pelé sia lontano dalla realtà (o faccia finta di esserlo)
lo dimostra la contestazione subita dalla Presidente Rousseff proprio
all’inaugurazione della Coppa delle Confederazioni. Si tratta di un avvenimento
significativo poiché realizzato da un pubblico tutt’altro che di estrazione
proletaria, tant’è che ha potuto pagare il costo di 350 euro per biglietto. Nei
fatti esso esprime lo scontento di una classe media o medio-piccola
obiettivamente nata dalle politiche fin
qui sviluppate da Lula e Rousseff, che rispetto al passato ha potuto migliorare
le proprie condizioni di vita, ma che con l’inflazione attuale teme di
arretrare socio-economicamente.
D’altro canto c’è
molto da dire quando in un paese disastrato nelle infrastrutture e nelle
condizioni di vita della maggior parte del popolo si sperperano per i prossimi
eventi calcistici le somme diffuse dalla Folha
de São Paulo: per il Mondiale 2014 – benché la previsione iniziale fosse di
8.300 milioni di euro - già se ne sono andati 9.200 milioni, che alla fine
potrebbero arrivare a 11.500 milioni; l’85% del finanziamento è a carico dello
Stato brasiliano (governo federale, governi statali e municipalità); i costi
per i 12 stadi che ospiteranno il Mondiale sono pure lievitati da 1.900 milioni
a 2.500 milioni di euro. Tutto ciò per qualcosa che durerà meno di un mese.
Necessariamente gli
oneri tributari dovranno aumentare ancora, ma i veri guadagni andranno solo a
poche megaimprese e ai politici percettori di tangenti e benefici vari
Il governo non dà informazioni,
ma le voci circolano e taluni già vedono operai al lavoro vicino a casa loro:
le varie opere necessarie per il Mondiale (corridoi metropolitani, accessi
ferroviari, ricostruzione di strade, ampliamento di aeroporti e relativi
parcheggi, nuovi appartamenti) richiederanno lo sloggiamento dalle attuali
abitazioni di circa 170.000 persone. Naturalmente si tratta di insediamenti popolari e ultrapopolari. Ci saranno
indennizzi? E in che proporzione? Nessuno lo sa, il. Governo per
lo più tace. In buona sostanza i lavori per il Mondiale sono l’occasione propizia
per una grande “pulizia sociale” e per lucri immensi della speculazione
edilizia. Intanto resta nel paese il deficit abitativo di 5 milioni di alloggi.
C’è calcio e calcio, e la Fifa vuole farla da padrona
Tra gli osservatori sudamericani
(certo più attenti di quelli europei) esiste la conclusione che in Brasile in
definitiva - nonostante le apparenze e se si guarda agli accessi agli stadi e
ai beneficiari degli introiti sportivi - il calcio in Brasile sia cosa alquanto
elitaria; e che eventi come il Mondiale contribuiscano a fare degli stadi piattaforme
o occasione per gli affari con chiusura per i più.
Se guardiamo alla storia del
famoso stadio di Maracaná si deve convenire che la predetta conclusione non è
propriamente campata per aria. Nel 1950 alla finale tenutasi al Maracaná assistette
l’8,5% della popolazione di Río de Janeiro e l’80% degli spettatori occupava i
settori popolari dello stadio. Oggi il Maracaná è un’area “multiuso”, sede di eventi
sportivi, recital musicali e show di vario tipo. Appositi vetri separano dal
resto degli spettatori i Vip, i quali possono accedere allo stadio direttamente
con l’auto e dispongono di una rampa riservata che fa loro evitare il contatto
con la plebe.
A causa della finale del Mondiale
2014 e dei Giochi Olimpici del 2016 il Maracaná va ristrutturato (lasciando
solo la vecchia facciata), con un costo minimo di 600 milioni di euro, ma alla
maniera di un teatro. Quindi, niente più posti in piedi (come fu nel 1950) ma
solo sedili numerati. Questo stadio che fu uno dei maggiori del mondo, ma ora è
sceso al 14º posto, cesserà definitivamente di essere uno spazio popolare.
Non può certo aver
fatto piacere a molti brasiliani la notizia che ampi spazi verranno
privatizzati in favore della Fifa, la quale potrà pure contrattualizzare in
proprio 53.000 guardie di sicurezza, a spese però dello Stato brasiliano, e che
ogni stadio sarà dotato di una radio su cui la Fifa avrà l’esclusiva.
E c’è molto altro, perché
nel 2012 – piegandosi all’arroganza della Fifa a tutela dei suoi profitti – il Parlamento ha approvato una legge generale per
la Coppa delle Confederazioni secondo i criteri voluti dalla Fifa medesima, per
quanto in palese conflitto con la legislazione brasiliana. Per esempio, in
Brasile è proibita le vendita di alcolici negli stadi: invece la vendita viene liberalizzata;
la Fifa ha voluto una deroga alla normativa vigente che prevede lo sconto del
50% sui biglietti degli stadi per studenti, pensionati, invalidi ecc., nonché
la sospensione della “legge Pelé” che attribuisce il 5% degli introiti della
vendita di audiovisivi sugli eventi sportivi ai sindacati degli atleti
professionisti; la Fifa inoltre ha preteso l’emissione di visti e permessi per
tutti i membri delle delegazioni – compresi invitati, funzionari, giornalisti e
spettatori muniti di biglietti – con validità fino al 31 dicembre 2014, cioè
fino a sei mesi dopo il termine del Mondiale; le è stato accordato il diritto di autorizzare la vendita di
qualsiasi merce non solo nei luoghi delle gare, ma altresì nelle loro
prossimità e nelle vie di accesso; inoltre le aree esclusive per il commercio
dei suoi prodotti sono definite dalle municipalità secondo le richieste della
Fifa medesima e/o addirittura dei terzi da essa indicati; i venditori ambulanti
non possono operare nel raggio di due chilometri dagli stadi. Dulcis in fundo si prevede la possibile
istituzione di Giudici Speciali per le controversie inerenti allo svolgersi
degli eventi.
Per inciso notiamo
che questa legge (la nº 12.663, del
5 giugno 2012) di recente è stata impugnata innanzi al Supremo
Tribunale Federale dalla Procura Generale della Repubblica.
La presidenza dell’ex guerrigliera Dilma Rousseff
Assurta alla
presidenza, Dilma Rousseff ha decisamente puntato all’accelerazione del
processo che dovrebbe portare il Brasile a diventare una potenza globale. Sul
piano formale sia Lula sia la Rousseff hanno sviluppatoin modo proficuo
un’accorta politica d’immagine, tutto sommato ancora funzionante e lo dimostra
il fatto che mentre dinanzi alla protesta turca si è immediatamente parlato di
scontro fra “due Turchie”, per la rivolta brasiliana si stenta un po’ a parlare
di quei “due Brasili” che invece esistono. Questo aspetto è stato messo in evidenza e
approfondito da Folha de São Paulo in
un articolo del 21 giugno. Vi si dice
che la difficoltà di un tale riconoscimento sta nella specifica natura di
quello che potremmo chiamare “altro Brasile”, suscettibile di tre
visualizzazioni:
la prima
visualizzazione è quella dell’enorme esclusione sociale, le cui cause risalgono
sì all’era coloniale, ma si sono riprodotte sia pure mutando le forme e i suoi attori
dominanti rimangono le oligarchie dei grandi proprietari terrieri e il violento
caciquismo, le ristrette e razziste
elite politiche;
la seconda, comprende
la rivendicazione della democrazia partecipativa risalente agli ultimi 25 anni,
concretizzatasi finora nel processo che ha portato alla Costituzione del 1988, ai
bilanci partecipativi, alle politiche urbaniste di tante municipalità, alla
destituzione dell’ultracorrotto Presidente Collor de Mello nel 1992, la creazione
di Consigli cittadini per i principali settori delle politiche pubbliche
(sanità e istruzione) e ai vali livelli (municipale, statale e federale);
la terza attiene
alle politiche di inclusione sociale iniziate da Lula nel 2003, dalle quali
sono derivate una riduzione della povertà, la creazione di una classe media
propensa al consumo, il riconoscimento della discriminazione razziale verso
neri e indigeni.
Relativamente alle
ultime due visualizzazioni la presidenza della Rousseff la precedente
accelerazione si è fermata ed è regredita, con questo riguadagnando terreno
l’esclusione sociale. Oggi la democrazia partecipativa non funziona più come
prima; le generazioni più giovani – scarsamente sostenute da una vita famigliare
e comunitaria capace d’integrazione – restano preda di una spinta consumistica
a cui spesso non sono in grado di fare fronte; le politiche di inclusione
sociale si sono esaurite e con esse le inerenti aspettative popolari; la vita urbana
è peggiorata anche grazie alla preparazione di prestigiosi eventi
internazionali, per i quali sono stati sviati investimenti destinati ai
trasporti, alla sanità, all’istruzione e più in generale a tutta l’area dei
servizi pubblici; infine sono aumentati il razzismo e le uccisioni di leader
contadini e indigeni visti come ostacolo alla sviluppo.
Si può azzardare qualche previsione?
Ancora una volta
nella più recente storia contemporanea la cosiddetta rete sociale ha svolto un
ruolo fondamentale nella mobilitazione popolare, e infatti è del giorno 20 la
notizia che la Abin (Agência Brasileira
de Inteligência) è stata incaricata di monitorare quel che succede nella
Rete.
E ancora una volta
le statistiche citate da Folha de São
Paulo forniscono un determinato quadro: l’84% dei manifestanti non
apparterrebbe ad alcun partito politico, il 71% ha partecipato per la prima
volta a manifestazioni e il 53% ha meno di 25 anni. Notevole la partecipazione
di studenti e persone con titolo di studio superiore se rapportata ai dati nazionali
(fra i manifestanti gli studenti ammontano al 22%, mentre nel paese sono solo
il 5%, e quanti hanno terminato studi superiori ammontano al 77% dei
manifestanti, mentre nel paese sono il 22%).
È significativo e
importante che i manifestanti per lo più non vogliano commistioni, interferenze
o strumentalizzazioni da parte di partiti politici. Ci sono stati tumulti fra
manifestanti e membri di partiti. A São Paulo militanti del Pt presentatisi
alle manifestazioni sono stati chiamati opportunisti, e lo spiegamento di
bandiere di partiti a sinistra del Pt (come il Partido Socialista dos Trabalhadores Unificados-Pstu e il Partido Socialismo e Liberdade-Psol) è
stato fortemente contestato.
Non a caso il
famoso cineasta di Pernambuco, Rosemberg Cariri ha così commentato le
manifestazioni: «è un avvenimento storico importante: il popolo nelle strade.
Contro i mega-imprenditori, le opere per la Coppa, il mercato cannibale,
l’aumento dei trasporti, la stampa manipolata, la violenza fascista poliziesca,
la mancanza di scuole e ospedali (…) Ora manca solo che siano innalzate le
bandiere di protesta contro i massacri di indios, neri, bianchi e meticci
poveri, di diseredati figli della terra che resistono nelle periferie, nelle favelas e nei campi».
Intanto l’agitazione
prosegue sempre più massiccia, ma non sembra che le “autorità” – manganellate e
lacrimogeni della polizia a parte – siano intenzionate a seguire la via
intrapresa in Turchia da Erdoğan. Non si possono quindi escludere ulteriori
successi per i manifestanti. Tuttavia non c’è da farsi illusioni: ancora una
volta la rivoluzione sociale non è affatto dietro l’angolo. Essendosi schierata
dalla parte dei manifestanti anche la Central
Sindical Única (la maggiore confederazione brasiliana), nel Pt vari
dirigenti cominciano a preoccuparsi per la scarsa capacità di dialogo della
Rousseff - con i movimenti oltre che con i suoi stessi ministri - per il
diffuso timore che il partito possa perdere una parte dei suoi appoggi
elettorali (d’altra parte i sondaggi danno in calo l’indice di gradimento del
governo, passato dal 63% di marzo all’attuale 55%), e vorrebbero che la Presidente
affidasse a Gilberto Carvalho, Segretario Generale della Presidenza, l’incarico
di trattare con i manifestanti, ma con una certa autonomia.
Staremo a vedere e
ne parleremo in un secondo articolo.
(22 giugno 2013)
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