I Curdi oggi
I Curdi: un popolo
che numericamente si aggira fra i 35 e i 40 milioni di persone senza Stato
proprio, diviso fra più Stati, perseguitato in vario modo a seconda dei paesi e
costretto a una forte emigrazione (riguarda almeno un milione di persone
stanziatesi in Germania, Scandinavia e Stati Uniti; esistono piccole comunità
curde anche in Libano,
Giordania,
Georgia,
Azerbaigian,
Afghanistan
e Pakistan).
Probabilmente sono i discendenti degli antichi Medi, etnicamente affini alle
popolazioni dell’altopiano iranico, e appartengono al ceppo linguistico
indoeuropeo ma non hanno una lingua unitaria: la cosiddetta lingua curda è la mera sommatoria di
vari linguaggi (i principali sono il Kurmanji in Turchia e il Sorani in Iraq,
ma ne esistono altri ancora) fra loro imparentati. Sul piano religioso sono in
maggioranza musulmani sunniti, ma esistono anche minoranze sciite, cristiane e
anche israelite. In Turchia sono il 18-20 % della popolazione; in Iraq circa il
12%; in Siria più del 5%; in Iran il 4% e in Armenia l’1,3%.
Oltre alla
divisione territoriale i Curdi hanno al loro passivo storico anche una forte e
radicata disunione all’interno delle stesse singole realtà regionali, con faide
politiche e non. Si pensi - ne parleremo in seguito - al fenomeno del
collaborazionismo armato col governo turco da parte di miliziani curdi
organizzati nelle guardie di villaggio, oppure alle sanguinose contese che
contrapposero in Iraq il clan Barzani al clan Talabani, nonché ai non facili
rapporti fra Kurdistan iracheno e Pkk. Non è detto, comunque, che un’eventuale
unità curda (ipotetica, al momento) faciliterebbe la lotta per la formazione di
uno Stato curdo unitario, giacché darebbe luogo a una poderosa coalizione
anticurda, facilitata dalla geografia politica.
I presupposti non recenti della questione curda
L’intricata e
ancora irrisolta questione curda è in genere presente al pubblico dei media per
fatti di cronaca a essa inerenti, ma assai meno per la sua genesi; e non molti
sanno che essa è nata dall’esito della Prima guerra mondiale, negativo per
l’Impero ottomano. Essa cioè proviene dalla disgregazione di quanto restava di
tale impero voluta da Gran Bretagna e Francia, e quindi dall’assetto dato da
Londra e Parigi al Vicino Oriente. Tuttavia - essendo sempre le nascite precedute
da concepimenti - per una maggiore comprensione si deve risalire ad avvenimenti
del secolo precedente che ne hanno posto le premesse.
In Europa il
periodo compreso fra il secolo XIX e la prima metà del XX è stato
caratterizzato - fra l’altro - dall’esplosione e del dilagare dei nazionalismi.
La loro forza virulenta ha squassato dall’interno e indebolito all’estremo gli
Stati imperiali multinazionali del continente, con particolare riguardo agli
Imperi asburgico e ottomano. Per quest’ultimo fu un’autentica e sanguinosa
tragedia, poco evidenziata dai libri di storia occidentali, per lo più scritti
nell’ottica dei popoli (e/o delle loro minoranze) che si ribellarono al Sultano
di Costantinopoli. Quest’ottica ha prodotto la duplice conseguenza di occultare
i vari aspetti positivi dell’esperienza storica ottomana (di recente rivalutata
dalla storiografia d’Oltralpe) e d’ignorare disinvoltamente gli atroci massacri
e le pulizie etniche subite dai sudditi ottomani di religione islamica,
sbrigativamente spacciati per turchi, quand’anche non fossero (o non fossero
più) etnicamente tali.
Ai nostri fini si
deve partire proprio dai contraccolpi del nazionalismo indipendentista
greco-slavo nelle terre e nelle società musulmane ancora facenti parte
dell’Impero ottomano. In certi settori dell’élite si andò formando la
consapevolezza dell’oggettivo cambiamento politico-culturale determinato dal
nazionalismo delle popolazioni cristiane, tanto più che il virus cominciava a
manifestarsi anche in settori arabi dell’Impero, travalicando l’unità religiosa
islamica. Programmaticamente la presa del potere da parte dei Giovani Turchi
puntò in una prima fase a instaurare un ottomanismo che battesse in breccia il
nazionalismo attraverso l’uguaglianza giuridica di tutti i sudditi dell’Impero
a prescindere dalla religione (aspetto fondamentale in uno Stato musulmano,
essendo all’origine degli statuti di gruppo - e quindi personali - per i
non-islamici). Fu un esperimento fallimentare a cui mancarono dopo la sconfitta
nelle Guerre balcaniche del 1912-13 i necessari presupposti socio-culturali,
considerato il grado di esclusione verso l’esterno raggiunto dal sentimento
identitario etnico-religioso tra le popolazioni cristiane greche e armene -
ancora massicciamente presenti a Costantinopoli, in Anatolia e nelle isole egee
– nonché l’enorme afflusso in Tracia e Anatolia di profughi musulmani scampati
ai massacri compiuti da greci, serbi e bulgari nei Balcani, e quindi animati da
un odio feroce verso i Cristiani. Era ormai ridotta ai minimi termini la
possibilità del radicamento di una non meglio specificata identità ottomana. A
ciò si aggiunga che la scelta effettuata, prima dell’avvento dei Giovani
Turchi, da parte del sultano Abdülhamit in favore di una rinnovata enfasi
sull’Islam come collante dell’impero già appariva priva di vera efficacia ai
fini del rafforzamento della compagine statale, come avrebbero dimostrato nel
1914 e anni seguenti la mancata risposta all’appello alla guerra santa fatto
dal Sultano-Califfo di Costantinopoli da parte degli islamici sotto dominazione
anglo-francese, nonché la rivolta di tribù beduine poi organizzata dalla Gran
Bretagna durante la Grande Guerra.
Diventava
inevitabile per il governo ottomano ricorrere a un differente elemento
unificatore (effettivo o meno, non interessa, giacché anche i nazionalismi
europei si sono basati per lo più su tradizioni identitarie inventate, seppur
dotate di un’innegabile presa nell’immaginario collettivo). Non esistendo altro
a disposizione, diventò obbligata la scelta di riesumare la vetusta realtà
degli antichi conquistatori dell’impero bizantino, cioè un passato
effettivamente turco riattualizzato artificialmente per la bisogna. Da qui il
mito del Panturanismo, ovvero dell’unione politica di tutti i popoli turchi, in
quanto provenienti dalla mitica terra di Turan.
Qualifichiamo
artificiale tale scelta perché da tempo ormai la maggior parte dei sudditi
ottomani islamici non solo non era più definibile “turca ” in senso etnico (a
parte la minoranza dei nomadi turcomanni) per via delle tante unioni miste
(forzate e volontarie) realizzate nel corso di almeno 5 secoli, e altresì
poiché implicava un salto culturale non da poco, in quanto da tempo per i
benpensanti ottomani i Turchi non erano loro (pur se considerati tali dagli
Europei), bensì quelli che potremmo definire gli “zotici” dell’Anatolia.
Tuttavia nasceva
così il nazionalismo turco, anch’esso dotato di forza escludente rispetto agli
altri popoli dell’Impero, e semmai proiettato verso l’esterno, giacché i popoli
“turanici” (ben più turchi degli Ottomani) erano tutti fuori dai confini
imperiali. A quel punto il nazionalismo turco non poteva non inoculare germi
analoghi anche in etnie rimaste immuni dal sogno di uno Stato per ciascun
popolo, quand’anche si sia trattato di germi con maturazione non immediata. La
piega successivamente assunta dagli eventi storici avrebbe poi determinato il
passaggio dalla potenza all’atto.
Le conseguenze della sconfitta ottomana del 1918
Se prima del 1918
la Turchia ancora non esisteva di fatto, e probabilmente nemmeno a livello di
sentimento diffuso (nonostante gli sforzi dei Giovani Turchi), tuttavia
cominciò a manifestarsi subito dopo la sconfitta in quanto, con il distacco da
Costantinopoli delle aree di lingua araba (tutte occupate e riorganizzate dagli
anglo-francesi), del vecchio Impero restavano solo territori di lingua turca e
curda, oltre tutto oggetto delle mire spartitorie degli Alleati e minacciati da
un’invasione greca dell’Anatolia favorita dal governo britannico dell’epoca. A
far veramente nascere la Turchia fu l’azione del generale Mustafa Kemal Pasha
(poi detto Atatürk, padre dei Turchi), vincendo la Guerra di indipendenza
(1920-23) contro l’esercito greco, che fra l’altro aveva occupato Smirne
(Izmir) e parte dell’Anatolia, altresì obbligando Britannici, Francesi e
Italiani a sgomberare le zone da essi controllate. A completare le strutture di
base dell’indipendenza turca sarebbero in seguito intervenuti l’abolizione del
Sultanato, la proclamazione della Repubblica laica - il cui motto qualificativo
e programmatico è la frase di Kemal ne
mutlu Türküm diyene («fortunato chi può dirsi Turco») – e in fine lo
scambio di popolazioni convenuto fra Atatürk e il premier greco Eleftérios
Venizélos, avvenuto sulla base del solo elemento religioso (invio forzato dei
Cristiani in Grecia e dei Musulmani in Turchia) a totale scapito di quello
linguistico. Il nazionalismo turco aveva realizzato la sua definitiva vittoria
pur inquinando la sua coerenza laica, ma la Storia non offre solo questa
contraddizione.
Prima della
riscossa di Kemal gli Alleati – attuando un brutale divide et impera – avevano “pensato bene” di fare ai Curdi un
regalo a scapito di quel che restava al Sultano, magari all’epoca da essi poco
richiesto: e così il primo Trattato di pace firmato dallo sconfitto impero
ottomano, a Sèvres nel 1920, aveva illuso i Curdi con la previsione di un
Kurdistan anatolico indipendente. Che non fu mai realizzato, in quanto questo
accordo fu poi messo nel dimenticatoio della politica a seguito della grande
vittoria kemalista, fu sostituito nel 1923 dal Trattato di Losanna che ignorava
del tutto qualsiasi ipotesi di Kurdistan e ci pensò l’esercito kemalista a
reprimere ogni velleità dei Curdi che avevano fatto affidamento sugli accordi di
Sèvres. Negli ex territori ottomani maggioritariamente di lingua araba i Curdi
finirono divisi, in misura quantitativamente diversa, fra Armenia, Iraq e
Siria. In Iran già c’erano. In quasi tutti questi Stati per loro si apriva una
fase di persecuzione in misura e con modalità variabili.
Il problema curdo nei vari paesi orientali
a) Turchia
La Repubblica
fondata da Atatürk era turca, per i Turchi e i suoi abitanti dovevano
turchizzarsi qualora già non lo fossero. In base a tali presupposti ideologici
non stupisce che i Curdi ufficialmente non furono più tali, bensì “Turchi della
montagna” (diventati poi “Turchi orientali” nel 1980). Fin qui, e in astratto,
niente di male; almeno se si aderisce al detto shakespeariano “sotto un altro
nome la rosa profuma ugualmente”. Ma le cose non si limitarono al formalismo
del nome, bensì giunsero a includere le sfere linguistica e culturale; vale a
dire gli elementi di base di quel che definiamo “nazionalità”, talché quando i
Curdi di Turchia cominciarono a rivendicare seriamente la propria identità
etnica e culturale fino al desiderio di autonomia o di indipendenza, la
repressione sanguinosa e implacabile non fu inaspettata ma – per così dire –
rientrò nella logica delle cose. I primi a non doversene stupire avrebbero dovuto
essere proprio i Curdi, avendo entusiasticamente e spontaneamente partecipato
al grande massacro armeno ordinato durante la Grande Guerra da Talaat Pasha ed
Enver Pasha. Infatti era di tutta evidenza che la tragica decisione assunta dal
governo dei Giovani Turchi nasceva dall’intenzione di disfarsi di una minoranza
palesemente separatistica, orientata in senso filorusso o filo francese e
quindi pericolosa per l’unità dell’Impero; tant’è che di un analogo massacro
non era stata vittima la minoranza greca dell’Impero giacché la Grecia non
faceva parte del fronte bellico degli Alleati e i Greci ottomani non alzarono
violentemente la testa se non dopo la vittoria degli Alleati. In buona
sostanza, l’esperienza armena avrebbe dovuto allertare i Curdi sul fatto che né
l’autonomismo né, a maggior ragione, l’indipendentismo avrebbero potuto
manifestarsi senza incorrere in pesantissime conseguenze.
Inquadrare il
sanguinoso precipitare della situazione nella sola ottica della crudeltà o
dell’intolleranza fine a se stessa sarebbe tuttavia riduttivo, perché a monte
esiste un problema più ampio e certamente complesso che, almeno per certe sue
caratteristiche, ritroviamo anche in Iraq, come si dirà in seguito. Nel caso
della Turchia va seriamente considerato che non si tratta per nulla di un paese
omogeneo sul piano etnico, giacché nel suo territorio – oltre alla consistente
minoranza curda - troviamo Turcomanni, genti di origine slava, Circassi, Arabi
siriaci, una minoranza israelita e la permanenza di Greci e Armeni (per lo più
a Istanbul, ormai). L’elemento unificante scelto da Atatürk è stato in
definitiva solo uno, almeno ufficialmente: la nuova lingua turca, scritta in
alfabeto latino, che ha preso il posto dell’ottomano (un misto di turco,
persiano e arabo) in caratteri arabi ed è stata pressoché totalmente depurata
dagli elementi linguistico-sintattici arabi e persiani. In più, essere
musulmani, sia pure come fatto privato e controllato dallo Stato, era ed è cosa
assai gradita e utile. L’impresa – pur se azzardata per le sue fondamenta non
granitiche - è riuscita, ma con la forzata turchizzazione delle minoranze, se
non volevano essere costrette ad andarsene.
Questo dato di
fatto, animato dai condizionamenti ideologici della rivoluzione kemalista, ha
determinato la totale impreparazione (psicologica e politica) delle classi
dirigenti della Repubblica turca a gestire il problema del riconoscimento
dell’identità culturale e politica di una consistente minoranza come quella
curda. Si può aggiungere un ulteriore elemento: la memoria storica di queste
classi dirigenti è palesemente dominata dal complesso dell’assedio da parte di
potenze nemiche intenzionate a disgregare
e a ridurre la presenza turca a una piccola parte dell’Anatolia. Di
conseguenza il sospetto è dominante e la reazione violenta, appena si abbia
sentore del pericolo, fa parte di una diffusa mentalità turca. Effettivamente
da parte di paesi confinanti non mancano le latenti rivendicazioni, per il
momento solo teoriche versando essi in condizioni tali da risultare ridicole di
fronte alla potenza militare ed economica della Turchia. In proposito
ricordiamo che nell’immaginario collettivo greco (è fenomeno tipico
dell’Oriente il fatto di vivere come recenti gli avvenimenti di un passato
cronologicamente lontano) le nostalgie bizantine non sono affatto morte e
Istanbul resta la perduta Costantinopoli, Edirne è l’Adrianopoli che la Grecia
non poté annettere dopo la Grande Guerra, i Turchi sono gli Unni o i Mongoli
che non si è riusciti a ricacciare nelle steppe dell’Asia centrale, esiste il
contenzioso su Cipro e sull’estensione delle acque territoriali egee (per il
controllo di risorse energetiche sottomarine); dal canto suo l’Armenia, se solo
potesse, si impadronirebbe con gioia dei territori ex armeni della Turchia
orientale, cacciandone in massa i Turchi (cioè i loro superstiti, dopo la
pulizia etnica di prammatica); infine la Siria volentieri metterebbe le mani
sul vecchio sangiaccato di Alessandretta, ceduto dalla Francia, durante il
periodo del suo mandato, alla Turchia di Kemal. Dei suoi stessi alleati attuali
la Turchia non si fida poi molto, vigendo sempre il principio (peraltro
sperimentato nel corso della Storia) che nei rapporti internazionali “il solo
amico del Turco è Turco”.
Da tutto questo è
derivata, sul piano politico e giuridico, la messa al bando della lingua e
della cultura dei Curdi, con le consequenziali persecuzioni verso i dissidenti,
e si è formato un problema curdo ignoto all’impero ottomano. L’aver attivamente
partecipato i Curdi alla Guerra di indipendenza non poteva costituire un titolo
di merito di tale portata da determinare un’eccezione per la generale
turchizzazione del paese. Normalmente i tentativi di forzato sradicamento
dell’identità culturale e linguistica di una popolazione hanno cattivo esito e
provocano reazioni violente e rivendicazioni politiche orientate – nella
migliore delle ipotesi – all’autonomia, con la richiesta di indipendenza sempre
dietro l’angolo. Così è stato per i Curdi di Turchia. Dal 1974, con
l’organizzarsi di una parte dei Curdi nel Partito del lavoratori del Kurdistan
(Pkk), formalmente di orientamento marxista. guerriglia e repressione militare
hanno devastato la Turchia orientale, con varie provincie messe in stato
d’assedio, massacri da ambo le parti, torture e circa 35.000 morti, 3 milioni
di profughi e almeno 10.000 prigionieri politici, un enorme costo economico
della repressione, che ha impegnato almeno 300.000 militari, più 50.000 miliziani
curdi organizzati e pagati da Ankara. Da notare che il Pkk è forse l’unica
formazione curda su cui si è appuntata l’ostilità dell’Occidente ed è
considerata gruppo terrorista, a differenza degli iracheni Partito democratico del Kurdistan
(Pdk) e Unione patriottica del Kurdistan
(Upk), degli iraniani Partito
democratico del Kurdistan Iraniano e il Partito per
la libertà del Kurdistan.
Pur con tutto il
suo violento rigore il governo di Ankara non ha realizzato il perseguito
obiettivo unitario, ed è certo che oggi come oggi un ipotetico ritiro
dell’Esercito turco dai territori curdi porterebbe alla formazione di un
Kurdistan anatolico indipendente (fatti salvi altri interventi esterni). Il
governo di Recep Tayyip Erdoğan ha allentato la pressione culturale sui Curdi,
anche e soprattutto per le esigenze di cosmesi imposte dall’Unione Europea e
legate al fantomatico ingresso della Turchia. Comunque il caso della deputata
curda finita in galera per aver usato la propria lingua nell’aula parlamentare
forse appartiene al passato. Ma non è detto. La concessione dell’autonomia a un
Kurdistan turco resta ancora una misura non facilmente digeribile dalla
politica turca e dalle Forze Armate. In Turchia, quindi, il problema curdo
resta aperto e senza soluzione sullo sfondo.
b) Iraq
In questo paese la
sorte dei Curdi è stata di gran lunga la peggiore, sia per la maggiore forza
della resistenza curda, sia per il fatto che
le zone di Kirkuk,
e Mossul,
ad alta concentrazione curda, sono ricche di petrolio. Massacri con armi
convenzionali e chimiche, deportazioni e distruzione di villaggi sono stati
misure disinvoltamente usate dai governi dell’Iraq e ondate di profughi si sono
riversate in Turchia e Iran. Sotto certi aspetti si potrebbe anche parlare di
tentativo iracheno di genocidio della minoranza curda.
Nella seconda metà
del secolo scorso i Curdi iracheni – oltre a combattere contro il regime di
Baghdad – si sono massacrati fra di loro per la sanguinosa rivalità fra il Partito
democratico del Kurdistan (Pdk) fondato da Mustafa Barzani (e dopo la sua morte
nel 1979 guidato dal figlio Massud) e l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk)
di Jalal Talabani. Riavvicinatisi dopo la rivoluzione iraniana, i movimenti
curdi a marzo del 1991 scatenarono una nuova sanguinosissima ribellione contro
Saddam Hussein, ma il mese dopo Barzani e Talabani andarono a Baghdad per trattare
senza esito con Saddam. L’obiettivo era il riconoscimento dell’amministrazione
curda nel nord (la petrolifera Kirkuk compresa)
e la democrazie in Iraq. Nell’aprile del 1991, dopo che il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu aveva adottato una risoluzione per la fine della repressione contro i
Curdi, gli Stati Uniti stabilirono una zona di esclusione aerea per le forze
irachene a nord del 36° parallelo, e le forze armate di Baghdad dovettero
ritirarsi dalla zona curda. Furono indette nel maggio 1992 elezioni per la
nomina di un parlamento regionale curdo, tenutesi sotto supervisione
internazionale nel maggio 1992. Questo organismo deliberò l’adozione di uno
statuto federale del Kurdistan all’interno dell’Iraq, creando fortissime
preoccupazioni in Turchia, Siria e l’Iran.
Nel 1994 c’è stata
una nuova guerra civile fra i due grandi partiti curdi, causata essenzialmente
dal conflitto tra i rispettivi interessi (più o meno mafiosi) sul commercio
illegale di petrolio con Turchia e Iran (più di 50.000 barili al giorno) e sul
traffico di droga. Turchia e Iraq si schierarono con Barzani e l’Iran con
Talabani. Nell’agosto 1996 Barzani, con l’aiuto di truppe irachene (!),
conquistò la città di Erbil, roccaforte di Talabani. Gli Usa non intervennero e
così – mercé l’alleato Pdk – Baghdad poté ripremdere il controllo della regione
curda. Talabani e i suoi si rifugiarono in Iran.
Una volta caduto
Saddam Hussein nulla impediva che i Curdi conquistassero autonomia regionale
assai ampia; essa e il nuovo assetto dello Stato iracheno -.con l’inerente
spartizione delle poltrone - hanno fatto sì che al momento Massud Barzani e
Jalal Talabani abbiano accantonato le loro tracdizionali rivalità: Barzani è diventato
Presidente della Regione del Kurdistan e Talabani Presidente della
Repubblica irachena. Questo può far pensare che i due capi-clan curdi abbiano
rinunciato alle pretese indipendentiste, tanto più che la Turchia altrimenti
non avrebbe instaurato rapporti economici stretti con tale regione. La mancanza
di pericolosità del Kurdistan iracheno per Ankara è attestata dal fatto che la
Turchia non abbia battuto ciglio di fronte a un vero e proprio governo curdo
locale, a un suo esercito non facente parte di quello dell’Iraq, alla sua autonomia
finanziaria e al suo sfruttamento del petrolio locale. Tutto bene, quindi?
Forse no in prospettiva, in quanto questo assetto si inserisce nel piano
statunitense per il controllo di un territorio strategico e delle locali
risorse energetiche. Il Kurdistan iracheno non è indipendente (la Turchia non
l’avrebbe permesso e Washington non ha alcun interesse ad alienarsi questa sua
alleata) e ancora non controlla le zone petrolifere di Kirkuk e di Mossul.
Parlavamo prima di
una qualche analogia nella questione curda fra Turchia e Iraq, e ora dobbiamo
spiegarla: essa si chiama fragilità interna. Il problema fondamentale dell’Iraq
è che si tratta di una creazione assolutamente artificiale dovuta alla
creatività imperialistica di Winston Churchill. La cosa risulta subito dal
tracciato pressoché geometrico dei suoi confini. Nel nuovo Stato Londra ha
messo insieme - di propria e non di altrui volontà - Curdi, Assiri, Cristiani e
Arabi, questi ultimi divisi fra una minoranza di sunniti e la maggioranza
sciita (cioè due gruppi che si odiano dagli esordi dell’Islam), non solo
costringendoli a convivere nella stessa entità politica – centralizzata, oltre
tutto - ma altresì dando il potere ai sunniti. Una polveriera siffatta poteva
essere evitata (forse) solo creando una federazione di cantoni su base
religiosa e/o etnica. Il mantenimento dell’assetto centralista dello Stato
iracheno implicava necessariamente il fatto di vedere nell’autonomismo curdo un
pericolo mortale per il dominio arabo sunnita e per la stessa compagine
statale.
c) Iran
I Curdi iraniani
sono per lo più sunniti nel paese che è invece la casa-madre dell’Islam sciita,
e sempre si sono caratterizzati come minoranza riottosa. Le loro aspirazioni
autonomistiche si sono manifestate con impeto in due precisi momenti storici:
il primo nel 1946, quando la presenza di truppe sovietiche nel nord del paese
permise la proclamazione della cosiddetta Repubblica di Mahabad, poi eliminata
dalle truppe dello Shah a seguito del ritiro delle forze armate di Mosca; il secondo
subito dopo la vittoria di Khomeini, ma ancora una volta la ribellione curda fu
repressa nel sangue. Tra queste due fasi di rilievo fu il temporaneo appoggio
dello Shah a Mustafa Barzani contro l’Iraq, sospeso appena Teheran, nel 1974,
riuscì a conseguire un accordo con
Baghdad sulle acque territoriali nel Golfo Persico.
Caduta la monarchia
nel 1979, il Partito democratico del Kurdistan iraniano (Pdki) dette vita a una
ribellione per ottenere l’autonomia da uno Stato centralista. La repressione di
Teheran ebbe successo dopo ben due anni di lotta e almeno 10.000 morti. In quel
tempo l’Iraq era per l’Occidente l’elemento di punta per contrastare il
radicalismo Khomeinista, per cui – nonostante le dure repressioni del regime
iracheno – il capo del Pdki, Ghassemlu, cercò l’aiuto di Saddam Hussein il
quale finanziò la guerriglia curda in territorio iraniano, costringendo Teheran
a distogliere dal fronte con l’Iraq forti contingenti di truppe nel nord e ad
imporre lo stato d’assedio nella regione curda. Tuttavia, morto Khomeini,
Ghassemlu cercò di trattare col regime iraniano, tanto che in Austria furono
avviati dei negoziati, ma nel 1989 fu assassinato da agenti iraniani, e la
stessa sorte subì nel 1992 il suo successore. Oggi la morsa repressiva si è in parte
attenuata, e i Curdi – sia pure precariamente – fruiscono di una minima
autonomia.
d) Siria
La Siria è una
realtà antichissima, che l’imperialismo ha solo mutilato di regioni siriane da
molto tempo, come il Libano e la Palestina, tuttavia è pur sempre un mosaico
etnico e religioso. Il raggiungimento, nel corso dei secoli, di equilibri fra
le varie entità lascia inalterato il fatto del trattarsi di equilibri delicati
e potenzialmente fragili, che in Siria la guerra civile ha forse
definitivamente compromesso. Comunque, anche a prescindere da ciò, concedere
l’autonomia a taluni implicherebbe una reazione a catena da parte di tutti gli
altri con effetti dirompenti. I diretti interessati possono anche non capirlo,
tuttavia lo capiscono gli altri, soprattutto chi comanda.
In Siria la
posizione del regime baathista può essere definito altalenante ed opportunista,
alternando bastone e carota a seconda dei momenti e delle convenienze. Prima
della guerra civile i Curdi non sempre avevano avuto vita facile. Anche qui
l’uso della parlata curda era sostanzialmente bandito nelle scuole, nella
televisione e nella radio; negli anni ’60 dalle zone curde erano stati imposti insegnanti
di lingua araba, c’erano state deportazioni di curdi dai territori d'origine e
si era modificata con termini arabi la toponomastica stradale e locale. In più nel
1963 circa 100.000 curdi persero per legge la cittadinanza siriana. Non erano
permessi partiti curdi, le organizzazioni curde erano costrette alla
clandestinità e la partecipazione a esse era punita. Negli anni ’90, tuttavia,
la repressione si era fortemente allentata. Oggi potremmo considerare i Curdi di
fatto allineati col regime nella guerra civile. Il governo di al-Assad ha
lasciato nelle mani di milizie curde il controllo armato delle zone del
nord-est in cui sono per lo più stanziate le comunità curde. Il Partito
dell'unione democratica (Pyk), da cui dipendono tali milizie, è considerato proiezione
del Pkk della Turchia, e le infiltrazioni di combattenti di quest’ultimo
partito in Siria sono già avvenute, come dimostrato dagli scontri da costoro
sostenuti presso Aleppo contro formazioni di ribelli siriani.
e) Armenia
In Armenia la
situazione dei Curdi va inquadrata distinguendo fra prima e dopo l’Unione
Sovietica.
Nell’Armenia sovietica
i Curdi non avevano problemi specifici, essendo riconosciuti come minoranza
protetta, avevano un proprio giornale con l’assistenza statale e una radio a
carattere culturale. Situazione capovoltasi con l’implosione dell’Urss. Gli
Armeni, infatti, non hanno mai dimenticato l’appoggio curdo al massacro di
armeni durante la I Guerra mondiale e l’occasione per la poco cristiana
vendetta si è avuta durante il conflitto con l’Azerbaigian per il controllo del
Nagorno Karabakh. I Curdi d’Armenia hanno quindi perduto tutti i loro privilegi
dell’epoca sovietica, vari loro insediamenti sono stati distrutti, in
moltissimi sono stati costretti ad abbandonare le loro case e fuggire
all’estero e in alcune migliaia sono stati deportati.
Prospettive? Poche e per un tempo indefinibile
Poiché anche le
previsioni per il futuro prossimo sono estremamente aleatorie, spingersi più
avanti non è consigliabile. Si può solo dire cosa si legga nei dati di fatto
attuali. Essi ci dicono che - a parte la presente, e fragile, autonomia curda
dell’Iraq – altrove i Curdi hanno poco da aspettarsi. Saranno fortunati se in
Turchia otterranno qualche margine di riconoscimento ulteriore. Qui però c’è un
elemento a doppia faccia, da aggiungere all’ideologia di quella Repubblica e
alla radicata diffidenza turca: il fallimento sostanziale della lotta armata
curda, da un lato potrebbe essere suscettibile di portare il governo di Ankara
ad ammorbidire ancor di più la sua politica, ma anche di distoglierlo da ciò
proprio per il fallimento del Pkk. Altrove i segnali positivi non abbondano.
La scelta fra lotta
armata e via negoziale dipende sempre dalle situazioni locali e dalle
circostanze e sta di fatto che essa non ha dato risultati né in Turchia né in
Iran. Il caso iracheno appare del tutto particolare, e senza l’intervento
imperialista di Washington con tutta probabilità non si sarebbe arrivati alla
situazione attuale. Comunque nella situazione attuale, e sotto un certo
profilo, i dirigenti curdi in Iraq potrebbero fungere solo da punto di riferimento
morale (e di invidia) per altre realtà regionali curde, ma ben poco di più: i
rapporti e tutto sommato buoni che hanno attualmente con la Turchia e anche con
l’Iran fanno pensare che lo spazio di manovra dei Barzani e dei Talabani sia
assai ridotto. Per esempio, la Turchia resta assolutamente ostile alla
costituzione di un’autonomia curda in Siria. Se il Kurdistan iracheno non vorrà
alienarsi Ankara e Teheran dovrà accuratamente evitare l’imitazione del ruolo
del Regno di Sardegna nella storia d’Italia.
Nel calderone del
Vicino Oriente di “carne al fuoco” ce n’è anche troppa: oltre al problema
curdo, abbiamo la questione palestinese, il sostegno delle monarchie arabe
all’estremismo islamico, le dissidenze sciite nella penisola araba, la guerra
civile siriana, le spinte centrifughe in Libano, l’instabilità irachena con la
lotta fra Sciiti e Sunniti, la crisi per il nucleare iraniano e le minacce di
Israele e Usa all’Iran. Nel quadro di questo immenso pasticcio politico non vi
è dubbio che l’evoluzione di ognuno dei predetti problemi influisca su tutti
gli altri, pur tuttavia nell’insieme la questione curda appare essere di minor
momento, e il massimo conseguibile in Iraq è il consolidamento dell’autonomia,
e in Turchia il mantenimento degli spazi ottenuti (per lo più culturali).
Di Kurdistan
unitario non pare proprio che sia il caso di parlare: lo si può solo sognare.
Ma qui si innesta un problema in genere poco affrontato, preferendosi fare il
tifo per questo o per quello: fermo cioè restando che le repressioni alla
maniera turca o irachena hanno il controproducente effetto di rafforzare il
nazionalismo e le rivendicazioni anche meno realistiche, c’è da interrogarsi
sulla sua effettiva presa in fasi e ambienti definibili più “normali”. Un
esempio banale: in metropoli come Istanbul e Ankara le azioni del Pkk non hanno
mai creato un clima “nordirlandese”, mentre in esse i curdi abbondano, vivono e
lavorano. Certo, diversa è la situazione a Dyarbakır, città della regione curda
resa ultranazionalista dalla repressione, ma ci si può chiedere se il
ribellismo curdo sia questione di una minoranza etnica, oppure se riguardi la
minoranza in una minoranza (Iraq a parte). Ben poco dicono al riguardo le
percentuali di curdi che, anche all’estero, pagano il “pizzo” al Pkk, giacché
la cosa si pone al confine fra la “tassa rivoluzionaria” e l’estorsione
para-mafiosa, non essendoci possibilità di scelta per i “contribuenti”. Nei
giochi di equilibrismo a cui le dirigenze curde sono chiamate può svolgere un
ruolo positivo la sostanziale impermeabilità (almeno finora) alle suggestioni e
alla penetrazione dell’estremismo musulmano. Ma c’è una trappola da evitare
assolutamente: le “sirene” israeliane e il rischio della taccia di connivenza
con i Sionisti. Non si tratta di un’ipotesi campata per aria. Non dimenticando
che, soprattutto nel Vicino Oriente, tante alleanze sono sorte e sorgono in
assenza della benché minima affinità ideologica: semplicemente sulla base
dell’inimicizia di taluno verso il nemico di talaltro, sta di fatto che Israele
ha sempre cercato di avere buoni rapporti con i Curdi iracheni e iraniani, e
nello specifico in passato i Barzani ricevettero aiuti militari da Israele.
Inoltre nelle regioni curde gli Ebrei non hanno mai avuto particolari problemi.
Non vi è dubbio che Israele vedrebbe positivamente la creazione di uno Stato
curdo, poiché ciò offrirebbe il duplice vantaggio di indebolire in primis lo Stato arabo di provenienza
e poi offrire un potenziale (o presunto) alleato nella regione. Il rischio però
sembra essere percepito dagli immediati destinatari, i Curdi dell’Iraq, i quali
ben sanno che la loro fortunata contingenza si base sui buoni rapporti con la
Turchia e con l’Iran (per quanto voci non confermate sostengano che Israele nel
Kurdistan iracheno disporrebbe di punti di monitoraggio verso l’Iran). Ad ogni
modo quando di recente Massud Barzani si è recato negli Usa ha accuratamente evitato
di incontrarsi con locali comunità ebraiche.
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