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giovedì 25 aprile 2013

LA QUESTIONE CURDA IN 5 PAESI ORIENTALI, di Pier Francesco Zarcone


I Curdi oggi
I Curdi: un popolo che numericamente si aggira fra i 35 e i 40 milioni di persone senza Stato proprio, diviso fra più Stati, perseguitato in vario modo a seconda dei paesi e costretto a una forte emigrazione (riguarda almeno un milione di persone stanziatesi in Germania, Scandinavia e Stati Uniti; esistono piccole comunità curde anche in Libano, Giordania, Georgia, Azerbaigian, Afghanistan e Pakistan). Probabilmente sono i discendenti degli antichi Medi, etnicamente affini alle popolazioni dell’altopiano iranico, e appartengono al ceppo linguistico indoeuropeo ma non hanno una lingua unitaria: la cosiddetta lingua curda è la mera sommatoria di vari linguaggi (i principali sono il Kurmanji in Turchia e il Sorani in Iraq, ma ne esistono altri ancora) fra loro imparentati. Sul piano religioso sono in maggioranza musulmani sunniti, ma esistono anche minoranze sciite, cristiane e anche israelite. In Turchia sono il 18-20 % della popolazione; in Iraq circa il 12%; in Siria più del 5%; in Iran il 4% e in Armenia l’1,3%.
Oltre alla divisione territoriale i Curdi hanno al loro passivo storico anche una forte e radicata disunione all’interno delle stesse singole realtà regionali, con faide politiche e non. Si pensi - ne parleremo in seguito - al fenomeno del collaborazionismo armato col governo turco da parte di miliziani curdi organizzati nelle guardie di villaggio, oppure alle sanguinose contese che contrapposero in Iraq il clan Barzani al clan Talabani, nonché ai non facili rapporti fra Kurdistan iracheno e Pkk. Non è detto, comunque, che un’eventuale unità curda (ipotetica, al momento) faciliterebbe la lotta per la formazione di uno Stato curdo unitario, giacché darebbe luogo a una poderosa coalizione anticurda, facilitata dalla geografia politica. 



I presupposti non recenti della questione curda
L’intricata e ancora irrisolta questione curda è in genere presente al pubblico dei media per fatti di cronaca a essa inerenti, ma assai meno per la sua genesi; e non molti sanno che essa è nata dall’esito della Prima guerra mondiale, negativo per l’Impero ottomano. Essa cioè proviene dalla disgregazione di quanto restava di tale impero voluta da Gran Bretagna e Francia, e quindi dall’assetto dato da Londra e Parigi al Vicino Oriente. Tuttavia - essendo sempre le nascite precedute da concepimenti - per una maggiore comprensione si deve risalire ad avvenimenti del secolo precedente che ne hanno posto le premesse.
In Europa il periodo compreso fra il secolo XIX e la prima metà del XX è stato caratterizzato - fra l’altro - dall’esplosione e del dilagare dei nazionalismi. La loro forza virulenta ha squassato dall’interno e indebolito all’estremo gli Stati imperiali multinazionali del continente, con particolare riguardo agli Imperi asburgico e ottomano. Per quest’ultimo fu un’autentica e sanguinosa tragedia, poco evidenziata dai libri di storia occidentali, per lo più scritti nell’ottica dei popoli (e/o delle loro minoranze) che si ribellarono al Sultano di Costantinopoli. Quest’ottica ha prodotto la duplice conseguenza di occultare i vari aspetti positivi dell’esperienza storica ottomana (di recente rivalutata dalla storiografia d’Oltralpe) e d’ignorare disinvoltamente gli atroci massacri e le pulizie etniche subite dai sudditi ottomani di religione islamica, sbrigativamente spacciati per turchi, quand’anche non fossero (o non fossero più) etnicamente tali.
Ai nostri fini si deve partire proprio dai contraccolpi del nazionalismo indipendentista greco-slavo nelle terre e nelle società musulmane ancora facenti parte dell’Impero ottomano. In certi settori dell’élite si andò formando la consapevolezza dell’oggettivo cambiamento politico-culturale determinato dal nazionalismo delle popolazioni cristiane, tanto più che il virus cominciava a manifestarsi anche in settori arabi dell’Impero, travalicando l’unità religiosa islamica. Programmaticamente la presa del potere da parte dei Giovani Turchi puntò in una prima fase a instaurare un ottomanismo che battesse in breccia il nazionalismo attraverso l’uguaglianza giuridica di tutti i sudditi dell’Impero a prescindere dalla religione (aspetto fondamentale in uno Stato musulmano, essendo all’origine degli statuti di gruppo - e quindi personali - per i non-islamici). Fu un esperimento fallimentare a cui mancarono dopo la sconfitta nelle Guerre balcaniche del 1912-13 i necessari presupposti socio-culturali, considerato il grado di esclusione verso l’esterno raggiunto dal sentimento identitario etnico-religioso tra le popolazioni cristiane greche e armene - ancora massicciamente presenti a Costantinopoli, in Anatolia e nelle isole egee – nonché l’enorme afflusso in Tracia e Anatolia di profughi musulmani scampati ai massacri compiuti da greci, serbi e bulgari nei Balcani, e quindi animati da un odio feroce verso i Cristiani. Era ormai ridotta ai minimi termini la possibilità del radicamento di una non meglio specificata identità ottomana. A ciò si aggiunga che la scelta effettuata, prima dell’avvento dei Giovani Turchi, da parte del sultano Abdülhamit in favore di una rinnovata enfasi sull’Islam come collante dell’impero già appariva priva di vera efficacia ai fini del rafforzamento della compagine statale, come avrebbero dimostrato nel 1914 e anni seguenti la mancata risposta all’appello alla guerra santa fatto dal Sultano-Califfo di Costantinopoli da parte degli islamici sotto dominazione anglo-francese, nonché la rivolta di tribù beduine poi organizzata dalla Gran Bretagna durante la Grande Guerra.
Diventava inevitabile per il governo ottomano ricorrere a un differente elemento unificatore (effettivo o meno, non interessa, giacché anche i nazionalismi europei si sono basati per lo più su tradizioni identitarie inventate, seppur dotate di un’innegabile presa nell’immaginario collettivo). Non esistendo altro a disposizione, diventò obbligata la scelta di riesumare la vetusta realtà degli antichi conquistatori dell’impero bizantino, cioè un passato effettivamente turco riattualizzato artificialmente per la bisogna. Da qui il mito del Panturanismo, ovvero dell’unione politica di tutti i popoli turchi, in quanto provenienti dalla mitica terra di Turan.
Qualifichiamo artificiale tale scelta perché da tempo ormai la maggior parte dei sudditi ottomani islamici non solo non era più definibile “turca ” in senso etnico (a parte la minoranza dei nomadi turcomanni) per via delle tante unioni miste (forzate e volontarie) realizzate nel corso di almeno 5 secoli, e altresì poiché implicava un salto culturale non da poco, in quanto da tempo per i benpensanti ottomani i Turchi non erano loro (pur se considerati tali dagli Europei), bensì quelli che potremmo definire gli “zotici” dell’Anatolia.
Tuttavia nasceva così il nazionalismo turco, anch’esso dotato di forza escludente rispetto agli altri popoli dell’Impero, e semmai proiettato verso l’esterno, giacché i popoli “turanici” (ben più turchi degli Ottomani) erano tutti fuori dai confini imperiali. A quel punto il nazionalismo turco non poteva non inoculare germi analoghi anche in etnie rimaste immuni dal sogno di uno Stato per ciascun popolo, quand’anche si sia trattato di germi con maturazione non immediata. La piega successivamente assunta dagli eventi storici avrebbe poi determinato il passaggio dalla potenza all’atto.

Le conseguenze della sconfitta ottomana del 1918
Se prima del 1918 la Turchia ancora non esisteva di fatto, e probabilmente nemmeno a livello di sentimento diffuso (nonostante gli sforzi dei Giovani Turchi), tuttavia cominciò a manifestarsi subito dopo la sconfitta in quanto, con il distacco da Costantinopoli delle aree di lingua araba (tutte occupate e riorganizzate dagli anglo-francesi), del vecchio Impero restavano solo territori di lingua turca e curda, oltre tutto oggetto delle mire spartitorie degli Alleati e minacciati da un’invasione greca dell’Anatolia favorita dal governo britannico dell’epoca. A far veramente nascere la Turchia fu l’azione del generale Mustafa Kemal Pasha (poi detto Atatürk, padre dei Turchi), vincendo la Guerra di indipendenza (1920-23) contro l’esercito greco, che fra l’altro aveva occupato Smirne (Izmir) e parte dell’Anatolia, altresì obbligando Britannici, Francesi e Italiani a sgomberare le zone da essi controllate. A completare le strutture di base dell’indipendenza turca sarebbero in seguito intervenuti l’abolizione del Sultanato, la proclamazione della Repubblica laica - il cui motto qualificativo e programmatico è la frase di Kemal ne mutlu Türküm diyene («fortunato chi può dirsi Turco») – e in fine lo scambio di popolazioni convenuto fra Atatürk e il premier greco Eleftérios Venizélos, avvenuto sulla base del solo elemento religioso (invio forzato dei Cristiani in Grecia e dei Musulmani in Turchia) a totale scapito di quello linguistico. Il nazionalismo turco aveva realizzato la sua definitiva vittoria pur inquinando la sua coerenza laica, ma la Storia non offre solo questa contraddizione.
Prima della riscossa di Kemal gli Alleati – attuando un brutale divide et impera – avevano “pensato bene” di fare ai Curdi un regalo a scapito di quel che restava al Sultano, magari all’epoca da essi poco richiesto: e così il primo Trattato di pace firmato dallo sconfitto impero ottomano, a Sèvres nel 1920, aveva illuso i Curdi con la previsione di un Kurdistan anatolico indipendente. Che non fu mai realizzato, in quanto questo accordo fu poi messo nel dimenticatoio della politica a seguito della grande vittoria kemalista, fu sostituito nel 1923 dal Trattato di Losanna che ignorava del tutto qualsiasi ipotesi di Kurdistan e ci pensò l’esercito kemalista a reprimere ogni velleità dei Curdi che avevano fatto affidamento sugli accordi di Sèvres. Negli ex territori ottomani maggioritariamente di lingua araba i Curdi finirono divisi, in misura quantitativamente diversa, fra Armenia, Iraq e Siria. In Iran già c’erano. In quasi tutti questi Stati per loro si apriva una fase di persecuzione in misura e con modalità variabili.

Il problema curdo nei vari paesi orientali
a) Turchia
La Repubblica fondata da Atatürk era turca, per i Turchi e i suoi abitanti dovevano turchizzarsi qualora già non lo fossero. In base a tali presupposti ideologici non stupisce che i Curdi ufficialmente non furono più tali, bensì “Turchi della montagna” (diventati poi “Turchi orientali” nel 1980). Fin qui, e in astratto, niente di male; almeno se si aderisce al detto shakespeariano “sotto un altro nome la rosa profuma ugualmente”. Ma le cose non si limitarono al formalismo del nome, bensì giunsero a includere le sfere linguistica e culturale; vale a dire gli elementi di base di quel che definiamo “nazionalità”, talché quando i Curdi di Turchia cominciarono a rivendicare seriamente la propria identità etnica e culturale fino al desiderio di autonomia o di indipendenza, la repressione sanguinosa e implacabile non fu inaspettata ma – per così dire – rientrò nella logica delle cose. I primi a non doversene stupire avrebbero dovuto essere proprio i Curdi, avendo entusiasticamente e spontaneamente partecipato al grande massacro armeno ordinato durante la Grande Guerra da Talaat Pasha ed Enver Pasha. Infatti era di tutta evidenza che la tragica decisione assunta dal governo dei Giovani Turchi nasceva dall’intenzione di disfarsi di una minoranza palesemente separatistica, orientata in senso filorusso o filo francese e quindi pericolosa per l’unità dell’Impero; tant’è che di un analogo massacro non era stata vittima la minoranza greca dell’Impero giacché la Grecia non faceva parte del fronte bellico degli Alleati e i Greci ottomani non alzarono violentemente la testa se non dopo la vittoria degli Alleati. In buona sostanza, l’esperienza armena avrebbe dovuto allertare i Curdi sul fatto che né l’autonomismo né, a maggior ragione, l’indipendentismo avrebbero potuto manifestarsi senza incorrere in pesantissime conseguenze.
Inquadrare il sanguinoso precipitare della situazione nella sola ottica della crudeltà o dell’intolleranza fine a se stessa sarebbe tuttavia riduttivo, perché a monte esiste un problema più ampio e certamente complesso che, almeno per certe sue caratteristiche, ritroviamo anche in Iraq, come si dirà in seguito. Nel caso della Turchia va seriamente considerato che non si tratta per nulla di un paese omogeneo sul piano etnico, giacché nel suo territorio – oltre alla consistente minoranza curda - troviamo Turcomanni, genti di origine slava, Circassi, Arabi siriaci, una minoranza israelita e la permanenza di Greci e Armeni (per lo più a Istanbul, ormai). L’elemento unificante scelto da Atatürk è stato in definitiva solo uno, almeno ufficialmente: la nuova lingua turca, scritta in alfabeto latino, che ha preso il posto dell’ottomano (un misto di turco, persiano e arabo) in caratteri arabi ed è stata pressoché totalmente depurata dagli elementi linguistico-sintattici arabi e persiani. In più, essere musulmani, sia pure come fatto privato e controllato dallo Stato, era ed è cosa assai gradita e utile. L’impresa – pur se azzardata per le sue fondamenta non granitiche - è riuscita, ma con la forzata turchizzazione delle minoranze, se non volevano essere costrette ad andarsene.
Questo dato di fatto, animato dai condizionamenti ideologici della rivoluzione kemalista, ha determinato la totale impreparazione (psicologica e politica) delle classi dirigenti della Repubblica turca a gestire il problema del riconoscimento dell’identità culturale e politica di una consistente minoranza come quella curda. Si può aggiungere un ulteriore elemento: la memoria storica di queste classi dirigenti è palesemente dominata dal complesso dell’assedio da parte di potenze nemiche intenzionate a disgregare  e a ridurre la presenza turca a una piccola parte dell’Anatolia. Di conseguenza il sospetto è dominante e la reazione violenta, appena si abbia sentore del pericolo, fa parte di una diffusa mentalità turca. Effettivamente da parte di paesi confinanti non mancano le latenti rivendicazioni, per il momento solo teoriche versando essi in condizioni tali da risultare ridicole di fronte alla potenza militare ed economica della Turchia. In proposito ricordiamo che nell’immaginario collettivo greco (è fenomeno tipico dell’Oriente il fatto di vivere come recenti gli avvenimenti di un passato cronologicamente lontano) le nostalgie bizantine non sono affatto morte e Istanbul resta la perduta Costantinopoli, Edirne è l’Adrianopoli che la Grecia non poté annettere dopo la Grande Guerra, i Turchi sono gli Unni o i Mongoli che non si è riusciti a ricacciare nelle steppe dell’Asia centrale, esiste il contenzioso su Cipro e sull’estensione delle acque territoriali egee (per il controllo di risorse energetiche sottomarine); dal canto suo l’Armenia, se solo potesse, si impadronirebbe con gioia dei territori ex armeni della Turchia orientale, cacciandone in massa i Turchi (cioè i loro superstiti, dopo la pulizia etnica di prammatica); infine la Siria volentieri metterebbe le mani sul vecchio sangiaccato di Alessandretta, ceduto dalla Francia, durante il periodo del suo mandato, alla Turchia di Kemal. Dei suoi stessi alleati attuali la Turchia non si fida poi molto, vigendo sempre il principio (peraltro sperimentato nel corso della Storia) che nei rapporti internazionali “il solo amico del Turco è Turco”. 
Da tutto questo è derivata, sul piano politico e giuridico, la messa al bando della lingua e della cultura dei Curdi, con le consequenziali persecuzioni verso i dissidenti, e si è formato un problema curdo ignoto all’impero ottomano. L’aver attivamente partecipato i Curdi alla Guerra di indipendenza non poteva costituire un titolo di merito di tale portata da determinare un’eccezione per la generale turchizzazione del paese. Normalmente i tentativi di forzato sradicamento dell’identità culturale e linguistica di una popolazione hanno cattivo esito e provocano reazioni violente e rivendicazioni politiche orientate – nella migliore delle ipotesi – all’autonomia, con la richiesta di indipendenza sempre dietro l’angolo. Così è stato per i Curdi di Turchia. Dal 1974, con l’organizzarsi di una parte dei Curdi nel Partito del lavoratori del Kurdistan (Pkk), formalmente di orientamento marxista. guerriglia e repressione militare hanno devastato la Turchia orientale, con varie provincie messe in stato d’assedio, massacri da ambo le parti, torture e circa 35.000 morti, 3 milioni di profughi e almeno 10.000 prigionieri politici, un enorme costo economico della repressione, che ha impegnato almeno 300.000 militari, più 50.000 miliziani curdi organizzati e pagati da Ankara. Da notare che il Pkk è forse l’unica formazione curda su cui si è appuntata l’ostilità dell’Occidente ed è considerata gruppo terrorista, a differenza degli iracheni Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e Unione patriottica del Kurdistan (Upk), degli iraniani Partito democratico del Kurdistan Iraniano e il Partito per la libertà del Kurdistan.
Pur con tutto il suo violento rigore il governo di Ankara non ha realizzato il perseguito obiettivo unitario, ed è certo che oggi come oggi un ipotetico ritiro dell’Esercito turco dai territori curdi porterebbe alla formazione di un Kurdistan anatolico indipendente (fatti salvi altri interventi esterni). Il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha allentato la pressione culturale sui Curdi, anche e soprattutto per le esigenze di cosmesi imposte dall’Unione Europea e legate al fantomatico ingresso della Turchia. Comunque il caso della deputata curda finita in galera per aver usato la propria lingua nell’aula parlamentare forse appartiene al passato. Ma non è detto. La concessione dell’autonomia a un Kurdistan turco resta ancora una misura non facilmente digeribile dalla politica turca e dalle Forze Armate. In Turchia, quindi, il problema curdo resta aperto e senza soluzione sullo sfondo.   

b) Iraq
In questo paese la sorte dei Curdi è stata di gran lunga la peggiore, sia per la maggiore forza della resistenza curda, sia per il fatto che  le zone di Kirkuk, e Mossul, ad alta concentrazione curda, sono ricche di petrolio. Massacri con armi convenzionali e chimiche, deportazioni e distruzione di villaggi sono stati misure disinvoltamente usate dai governi dell’Iraq e ondate di profughi si sono riversate in Turchia e Iran. Sotto certi aspetti si potrebbe anche parlare di tentativo iracheno di genocidio della minoranza curda.
Nella seconda metà del secolo scorso i Curdi iracheni – oltre a combattere contro il regime di Baghdad – si sono massacrati fra di loro per la sanguinosa rivalità fra il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) fondato da Mustafa Barzani (e dopo la sua morte nel 1979 guidato dal figlio Massud) e l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk) di Jalal Talabani. Riavvicinatisi dopo la rivoluzione iraniana, i movimenti curdi a marzo del 1991 scatenarono una nuova sanguinosissima ribellione contro Saddam Hussein, ma il mese dopo Barzani e Talabani andarono a Baghdad per trattare senza esito con Saddam. L’obiettivo era il riconoscimento dell’amministrazione curda nel nord (la petrolifera  Kirkuk compresa) e la democrazie in Iraq. Nell’aprile del 1991, dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva adottato una risoluzione per la fine della repressione contro i Curdi, gli Stati Uniti stabilirono una zona di esclusione aerea per le forze irachene a nord del 36° parallelo, e le forze armate di Baghdad dovettero ritirarsi dalla zona curda. Furono indette nel maggio 1992 elezioni per la nomina di un parlamento regionale curdo, tenutesi sotto supervisione internazionale nel maggio 1992. Questo organismo deliberò l’adozione di uno statuto federale del Kurdistan all’interno dell’Iraq, creando fortissime preoccupazioni in Turchia, Siria e l’Iran.
Nel 1994 c’è stata una nuova guerra civile fra i due grandi partiti curdi, causata essenzialmente dal conflitto tra i rispettivi interessi (più o meno mafiosi) sul commercio illegale di petrolio con Turchia e Iran (più di 50.000 barili al giorno) e sul traffico di droga. Turchia e Iraq si schierarono con Barzani e l’Iran con Talabani. Nell’agosto 1996 Barzani, con l’aiuto di truppe irachene (!), conquistò la città di Erbil, roccaforte di Talabani. Gli Usa non intervennero e così – mercé l’alleato Pdk – Baghdad poté ripremdere il controllo della regione curda. Talabani e i suoi si rifugiarono in Iran. 
Una volta caduto Saddam Hussein nulla impediva che i Curdi conquistassero autonomia regionale assai ampia; essa e il nuovo assetto dello Stato iracheno -.con l’inerente spartizione delle poltrone - hanno fatto sì che al momento Massud Barzani e Jalal Talabani abbiano accantonato le loro tracdizionali rivalità: Barzani è diventato Presidente della Regione del Kurdistan e  Talabani Presidente della Repubblica irachena. Questo può far pensare che i due capi-clan curdi abbiano rinunciato alle pretese indipendentiste, tanto più che la Turchia altrimenti non avrebbe instaurato rapporti economici stretti con tale regione. La mancanza di pericolosità del Kurdistan iracheno per Ankara è attestata dal fatto che la Turchia non abbia battuto ciglio di fronte a un vero e proprio governo curdo locale, a un suo esercito non facente parte di quello dell’Iraq, alla sua autonomia finanziaria e al suo sfruttamento del petrolio locale. Tutto bene, quindi? Forse no in prospettiva, in quanto questo assetto si inserisce nel piano statunitense per il controllo di un territorio strategico e delle locali risorse energetiche. Il Kurdistan iracheno non è indipendente (la Turchia non l’avrebbe permesso e Washington non ha alcun interesse ad alienarsi questa sua alleata) e ancora non controlla le zone petrolifere di Kirkuk e di Mossul.
Parlavamo prima di una qualche analogia nella questione curda fra Turchia e Iraq, e ora dobbiamo spiegarla: essa si chiama fragilità interna. Il problema fondamentale dell’Iraq è che si tratta di una creazione assolutamente artificiale dovuta alla creatività imperialistica di Winston Churchill. La cosa risulta subito dal tracciato pressoché geometrico dei suoi confini. Nel nuovo Stato Londra ha messo insieme - di propria e non di altrui volontà - Curdi, Assiri, Cristiani e Arabi, questi ultimi divisi fra una minoranza di sunniti e la maggioranza sciita (cioè due gruppi che si odiano dagli esordi dell’Islam), non solo costringendoli a convivere nella stessa entità politica – centralizzata, oltre tutto - ma altresì dando il potere ai sunniti. Una polveriera siffatta poteva essere evitata (forse) solo creando una federazione di cantoni su base religiosa e/o etnica. Il mantenimento dell’assetto centralista dello Stato iracheno implicava necessariamente il fatto di vedere nell’autonomismo curdo un pericolo mortale per il dominio arabo sunnita e per la stessa compagine statale.

c) Iran
I Curdi iraniani sono per lo più sunniti nel paese che è invece la casa-madre dell’Islam sciita, e sempre si sono caratterizzati come minoranza riottosa. Le loro aspirazioni autonomistiche si sono manifestate con impeto in due precisi momenti storici: il primo nel 1946, quando la presenza di truppe sovietiche nel nord del paese permise la proclamazione della cosiddetta Repubblica di Mahabad, poi eliminata dalle truppe dello Shah a seguito del ritiro delle forze armate di Mosca; il secondo subito dopo la vittoria di Khomeini, ma ancora una volta la ribellione curda fu repressa nel sangue. Tra queste due fasi di rilievo fu il temporaneo appoggio dello Shah a Mustafa Barzani contro l’Iraq, sospeso appena Teheran, nel 1974, riuscì  a conseguire un accordo con Baghdad sulle acque territoriali nel Golfo Persico. 
Caduta la monarchia nel 1979, il Partito democratico del Kurdistan iraniano (Pdki) dette vita a una ribellione per ottenere l’autonomia da uno Stato centralista. La repressione di Teheran ebbe successo dopo ben due anni di lotta e almeno 10.000 morti. In quel tempo l’Iraq era per l’Occidente l’elemento di punta per contrastare il radicalismo Khomeinista, per cui – nonostante le dure repressioni del regime iracheno – il capo del Pdki, Ghassemlu, cercò l’aiuto di Saddam Hussein il quale finanziò la guerriglia curda in territorio iraniano, costringendo Teheran a distogliere dal fronte con l’Iraq forti contingenti di truppe nel nord e ad imporre lo stato d’assedio nella regione curda. Tuttavia, morto Khomeini, Ghassemlu cercò di trattare col regime iraniano, tanto che in Austria furono avviati dei negoziati, ma nel 1989 fu assassinato da agenti iraniani, e la stessa sorte subì nel 1992 il suo successore. Oggi la morsa repressiva si è in parte attenuata, e i Curdi – sia pure precariamente – fruiscono di una minima autonomia.

d) Siria
La Siria è una realtà antichissima, che l’imperialismo ha solo mutilato di regioni siriane da molto tempo, come il Libano e la Palestina, tuttavia è pur sempre un mosaico etnico e religioso. Il raggiungimento, nel corso dei secoli, di equilibri fra le varie entità lascia inalterato il fatto del trattarsi di equilibri delicati e potenzialmente fragili, che in Siria la guerra civile ha forse definitivamente compromesso. Comunque, anche a prescindere da ciò, concedere l’autonomia a taluni implicherebbe una reazione a catena da parte di tutti gli altri con effetti dirompenti. I diretti interessati possono anche non capirlo, tuttavia lo capiscono gli altri, soprattutto chi comanda.
In Siria la posizione del regime baathista può essere definito altalenante ed opportunista, alternando bastone e carota a seconda dei momenti e delle convenienze. Prima della guerra civile i Curdi non sempre avevano avuto vita facile. Anche qui l’uso della parlata curda era sostanzialmente bandito nelle scuole, nella televisione e nella radio; negli anni ’60 dalle zone curde erano stati imposti insegnanti di lingua araba, c’erano state deportazioni di curdi dai territori d'origine e si era modificata con termini arabi la toponomastica stradale e locale. In più nel 1963 circa 100.000 curdi persero per legge la cittadinanza siriana. Non erano permessi partiti curdi, le organizzazioni curde erano costrette alla clandestinità e la partecipazione a esse era punita. Negli anni ’90, tuttavia, la repressione si era fortemente allentata. Oggi potremmo considerare i Curdi di fatto allineati col regime nella guerra civile. Il governo di al-Assad ha lasciato nelle mani di milizie curde il controllo armato delle zone del nord-est in cui sono per lo più stanziate le comunità curde. Il Partito dell'unione democratica (Pyk), da cui dipendono tali milizie, è considerato proiezione del Pkk della Turchia, e le infiltrazioni di combattenti di quest’ultimo partito in Siria sono già avvenute, come dimostrato dagli scontri da costoro sostenuti presso Aleppo contro formazioni di ribelli siriani.

e) Armenia
In Armenia la situazione dei Curdi va inquadrata distinguendo fra prima e dopo l’Unione Sovietica.
Nell’Armenia sovietica i Curdi non avevano problemi specifici, essendo riconosciuti come minoranza protetta, avevano un proprio giornale con l’assistenza statale e una radio a carattere culturale. Situazione capovoltasi con l’implosione dell’Urss. Gli Armeni, infatti, non hanno mai dimenticato l’appoggio curdo al massacro di armeni durante la I Guerra mondiale e l’occasione per la poco cristiana vendetta si è avuta durante il conflitto con l’Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh. I Curdi d’Armenia hanno quindi perduto tutti i loro privilegi dell’epoca sovietica, vari loro insediamenti sono stati distrutti, in moltissimi sono stati costretti ad abbandonare le loro case e fuggire all’estero e in alcune migliaia sono stati deportati.

Prospettive? Poche e per un tempo indefinibile
Poiché anche le previsioni per il futuro prossimo sono estremamente aleatorie, spingersi più avanti non è consigliabile. Si può solo dire cosa si legga nei dati di fatto attuali. Essi ci dicono che - a parte la presente, e fragile, autonomia curda dell’Iraq – altrove i Curdi hanno poco da aspettarsi. Saranno fortunati se in Turchia otterranno qualche margine di riconoscimento ulteriore. Qui però c’è un elemento a doppia faccia, da aggiungere all’ideologia di quella Repubblica e alla radicata diffidenza turca: il fallimento sostanziale della lotta armata curda, da un lato potrebbe essere suscettibile di portare il governo di Ankara ad ammorbidire ancor di più la sua politica, ma anche di distoglierlo da ciò proprio per il fallimento del Pkk. Altrove i segnali positivi non abbondano.
La scelta fra lotta armata e via negoziale dipende sempre dalle situazioni locali e dalle circostanze e sta di fatto che essa non ha dato risultati né in Turchia né in Iran. Il caso iracheno appare del tutto particolare, e senza l’intervento imperialista di Washington con tutta probabilità non si sarebbe arrivati alla situazione attuale. Comunque nella situazione attuale, e sotto un certo profilo, i dirigenti curdi in Iraq potrebbero fungere solo da punto di riferimento morale (e di invidia) per altre realtà regionali curde, ma ben poco di più: i rapporti e tutto sommato buoni che hanno attualmente con la Turchia e anche con l’Iran fanno pensare che lo spazio di manovra dei Barzani e dei Talabani sia assai ridotto. Per esempio, la Turchia resta assolutamente ostile alla costituzione di un’autonomia curda in Siria. Se il Kurdistan iracheno non vorrà alienarsi Ankara e Teheran dovrà accuratamente evitare l’imitazione del ruolo del Regno di Sardegna nella storia d’Italia.
Nel calderone del Vicino Oriente di “carne al fuoco” ce n’è anche troppa: oltre al problema curdo, abbiamo la questione palestinese, il sostegno delle monarchie arabe all’estremismo islamico, le dissidenze sciite nella penisola araba, la guerra civile siriana, le spinte centrifughe in Libano, l’instabilità irachena con la lotta fra Sciiti e Sunniti, la crisi per il nucleare iraniano e le minacce di Israele e Usa all’Iran. Nel quadro di questo immenso pasticcio politico non vi è dubbio che l’evoluzione di ognuno dei predetti problemi influisca su tutti gli altri, pur tuttavia nell’insieme la questione curda appare essere di minor momento, e il massimo conseguibile in Iraq è il consolidamento dell’autonomia, e in Turchia il mantenimento degli spazi ottenuti (per lo più culturali).
Di Kurdistan unitario non pare proprio che sia il caso di parlare: lo si può solo sognare. Ma qui si innesta un problema in genere poco affrontato, preferendosi fare il tifo per questo o per quello: fermo cioè restando che le repressioni alla maniera turca o irachena hanno il controproducente effetto di rafforzare il nazionalismo e le rivendicazioni anche meno realistiche, c’è da interrogarsi sulla sua effettiva presa in fasi e ambienti definibili più “normali”. Un esempio banale: in metropoli come Istanbul e Ankara le azioni del Pkk non hanno mai creato un clima “nordirlandese”, mentre in esse i curdi abbondano, vivono e lavorano. Certo, diversa è la situazione a Dyarbakır, città della regione curda resa ultranazionalista dalla repressione, ma ci si può chiedere se il ribellismo curdo sia questione di una minoranza etnica, oppure se riguardi la minoranza in una minoranza (Iraq a parte). Ben poco dicono al riguardo le percentuali di curdi che, anche all’estero, pagano il “pizzo” al Pkk, giacché la cosa si pone al confine fra la “tassa rivoluzionaria” e l’estorsione para-mafiosa, non essendoci possibilità di scelta per i “contribuenti”. Nei giochi di equilibrismo a cui le dirigenze curde sono chiamate può svolgere un ruolo positivo la sostanziale impermeabilità (almeno finora) alle suggestioni e alla penetrazione dell’estremismo musulmano. Ma c’è una trappola da evitare assolutamente: le “sirene” israeliane e il rischio della taccia di connivenza con i Sionisti. Non si tratta di un’ipotesi campata per aria. Non dimenticando che, soprattutto nel Vicino Oriente, tante alleanze sono sorte e sorgono in assenza della benché minima affinità ideologica: semplicemente sulla base dell’inimicizia di taluno verso il nemico di talaltro, sta di fatto che Israele ha sempre cercato di avere buoni rapporti con i Curdi iracheni e iraniani, e nello specifico in passato i Barzani ricevettero aiuti militari da Israele. Inoltre nelle regioni curde gli Ebrei non hanno mai avuto particolari problemi. Non vi è dubbio che Israele vedrebbe positivamente la creazione di uno Stato curdo, poiché ciò offrirebbe il duplice vantaggio di indebolire in primis lo Stato arabo di provenienza e poi offrire un potenziale (o presunto) alleato nella regione. Il rischio però sembra essere percepito dagli immediati destinatari, i Curdi dell’Iraq, i quali ben sanno che la loro fortunata contingenza si base sui buoni rapporti con la Turchia e con l’Iran (per quanto voci non confermate sostengano che Israele nel Kurdistan iracheno disporrebbe di punti di monitoraggio verso l’Iran). Ad ogni modo quando di recente Massud Barzani si è recato negli Usa ha accuratamente evitato di incontrarsi con locali comunità ebraiche.  


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