Intervista di Maria Albanese per la Tesi di laurea in Filosofia dedicata a Mario Mineo e il gruppo Praxis
A quando
risale l'incontro umano e politico con Mineo?
Posso dire che l'incontro «umano e politico» con Mario Mineo avvenne
nel 1969, ma era stato preparato da una certa aura mitologica che circondava la
sua figura, come punto di riferimento della sezione italiana dei Gcr (Quarta
internazionale) in Sicilia e particolarmente a Palermo.
Entrato nella Quarta alla fine del 1966 (avevo vent’anni e il
corrispondente entusiasmo), avevo subito sentito parlare del Circolo Labriola e
di Mineo nel quadro del progetto politico che ruotava intorno alla rivista La Sinistra. Il gruppo palermitano aveva
il merito di non essere stato coinvolto nella pratica dell’entrismo e quindi in
un certo senso aveva anticipato i tempi di scelte che verranno prese molto
tardivamente dalla Quarta nel corso del 1968.
L’aura mitologica era destinata a crescere dopo il mio ritorno da Cuba
(un soggiorno di 6 mesi come ospite del governo cubano), a fine dicembre 1968. In Italia trovai che i Gcr erano andati in frantumi e che quasi tutti i suoi dirigenti ne
erano usciti per creare propri gruppi per lo più locali, ma solo dopo essersi
convertiti improvvisamente al maoismo. Ebbene, il gruppo di Palermo, oltre al
nucleo di Perugia e altri compagni sparsi tra Roma e Venezia - legati per
tradizione alla persona di Mario Mineo - pur essendo usciti dai Gcr in
occasione della crisi del '68, non si erano convertiti al maoismo, non avevano
rinnegato il riferimento ideologico a Trotsky e non si erano camuffati per
rendersi più accettabili tra le file della nuova radicalizzazione, ormai
dominata da partitini presuntuosi e gerarchici, diretti spesso da personaggi
che non avevano avuto alcun ruolo nel movimento: fu il momento più alto della diffusione
della follia marxista-leninista-maoista.
Nell'autunno del 1969, essendomi laureato e avendo ricevuto la mia
prima borsa di studio del Cnr, riuscii ad affittare a p.za dei Sanniti 30, nel
quartiere S. Lorenzo, un appartamento (che era stato anche la prima sede a Roma
di Potere operaio) e mi trovai come vicino di casa (in realtà anche di
ballatoio) Francesco Mistretta, detto «Ciccio»: un insegnante palermitano
reduce da un periodo in Egitto, membro appassionato del circolo Labriola
(divenuto ormai Circolo Lenin) ed emissario speciale di Mario Mineo a Roma. Tra
me e Ciccio Mistretta nacque un'intensa amicizia, politica e personale.
Politicamente ci univa il fatto di considerarci un po’ orfani rispetto a ciò
che era accaduto in Italia (la scomparsa della Quarta e la diffusione del
maoismo tra le nuove generazioni radicalizzate) e non faticammo molto a
metterci d’accordo sul fatto che bisognasse aiutare Mineo a costruire una rete
di «leninisti» in grado di utilizzare il meglio della tradizione trotskista, senza
però far più parte della Quarta. All’epoca io avevo ancora una certa notorietà
come uno dei quadri che avevano avuto un ruolo importante nel '68 romano, ma
cominciava anche il lungo ostracismo nei miei confronti dovuto proprio al fatto
che avevo rotto l’omertà non accettando di sottopormi all'umiliante rito della
maoistizzazione, a differenza di tutti (veramente tutti) i miei compagni di
movimento.
Fu così che si decise il mio primo viaggio a Palermo. Non ricordo la
data esatta, ma fu certamente nell’autunno del 1969, dopo aver compiuto una
sorta di sopralluogo politico nel Norditalia (fino a Trento), alla ricerca di
compagni che eventualmente avrebbero potuto prender parte al progetto di
costruzione di un'organizzazione che all’epoca definivamo sbrigativamente come
«leninista». Ricordo Renato Covino e Alessandro Mantovani per il Circolo Carlo
Marx di Perugia e Stefano Semenzato per il circolo omonimo di Venezia. Ma vanno
citate anche le ambiguità dell'incontro che ebbi con Luigi Vinci di Avanguardia
Operaia a Milano (di lui si diceva che fosse l’unico della Quarta a non esser
passato al maoismo e di esser rimasto segretamente trotskista) che non si
pronunciò né a favore né contro il progetto di Mineo, ma di Mario mi parlò in
termini positivi. (Si incaricherà poi il futuro di mostrare che in realtà Luigi
Vinci si avviava verso strade molto diverse dalle nostre, che lo porteranno ad
essere eletto due volte come parlamentare europeo per conto di Rifondazione,
della quale condividerà tutte le principali scelte politiche). A questi vanno
aggiunti i rapporti politici che stavamo costruendo a Roma (soprattutto con
alcune reclute del Manifesto mensile appena nato, come Giulia Firrao e il suo
compianto marito e pochi altri) e quelli che Mistretta intratteneva a Tivoli
dove aveva avuto l’incarico d’insegnante e dove aveva fondato il Circolo Tibur:
i due fratelli Tavani (uno entrerà nella clandestinità e l'altro, Riccardo,
avrà un ruolo dirigente nell'Autonomia operaia del 1977) mossero i primi passi
della loro vita politica nel Circolo fondato da Mistretta, in collegamento
ideale quindi con Mineo (che successivamente visiterà Tivoli) e con il nostro
comune progetto.
Ricordo che in Sicilia andai per mare, partendo da Napoli. Ad
accogliermi al porto di Palermo c’era Mistretta che mi accompagnò da Mario,
lasciandoci soli. Tra Mario e me ci fu un’intesa immediata, che non esiterei a
definire quasi padre/figlio. Oltre che di politica, parlammo di cose personali.
Mario, per es., mi diede dei saggi suggerimenti su come liberarmi degli
strascichi di un mio grande amore finito male a maggio del '68 e che
continuava a farmi soffrire; mi dimostrò interesse per le cose che stavo
facendo; mi fece sentire come uno della famiglia. Forse in questo pesava il
fatto che non aveva avuto figli. Riproverò in seguito sensazioni analoghe in
altri rapporti «padre/figlio» con personalità politiche significative (in
particolare con Alfonso Leonetti e Gino Doné).
Politicamente non c’è molto da dire, perché eravamo d’accordo
praticamente su tutto. La comune provenienza dalla Quarta ci dava un retroterra
ideologico saldo e acquisito. Ed eravamo anche d'accordo sulla tattica da
adottare in Italia: raccogliere tutti i «leninisti» antistaliniani (quindi non
solo i trotskisti), opporci alla diffusione del maoismo (io ero per una linea
dura, lui più possibilista), fondare una rivista, dar vita a un’organizzazione
non tanto «leninista» e comunque non rigidamente gerarchica e centralizzata
com'erano all'epoca tutti i gruppi m-l. Eravamo anche d’accordo che avremmo
dovuto ritessere i fili di un rapporto con Livio Maitan, che entrambi stimavano
anche se lo consideravamo assolutamente inadeguato sul piano tattico e
organizzativo. Ritenevamo che la crisi italiana fosse di «regime» - espressione
cara a Mineo - ma non perdevamo di vista nemmeno le varianti e le soluzioni che
erano ancora disponibili per quella crisi.
Sul terreno dell'internazionalismo c'era una qualche sfasatura, perché
io, reduce da Cuba e all'epoca impegnato segretamente con vari gruppi di guerriglia
latinoamericani (personalmente ero anche membro delle Faln di Douglas Bravo in
Venezuela), guardavo molto al di là dell'Italia e dell'Europa. Mineo ragionava
essenzialmente in termini di tattica nazionale anche se gli si deve riconoscere
che a differenza di altri politici siciliani non peccava affatto di localismo
palermitano.
Eh, già! Non dimentichiamo che Mineo era un autentico figlio della
Sicilia da cima a fondo. Ricordo ancora che fu lui il primo a parlarmi dei
legami che il Pci siciliano intratteneva con la Mafia. E nonostante tutto il
disprezzo che potevo nutrire per conto mio nei confronti del togliattismo,
confesso che la cosa mi provocò un ulteriore trauma. Tanto che la ricordo
ancora.
Poi Mineo venne a Roma, in una fase di euforia perché vedevamo che il
nostro progetto raccoglieva consensi. Io tornai una seconda volta a Palermo
(sempre da Napoli). Ma su questo secondo viaggio non vorrei dire sciocchezze
perché i ricordi si sfumano e potrebbero sovrapporsi. Riesco solo a ricordare
che ci fu un'andata a Palermo, presente Ciccio Mistretta (che mi portò a
mangiare i cannoli alla siciliana a Monreale - indimenticabili…) e un’andata
senza di lui.
Come si
sono divise le vostre strade?
Le strade si sono divise quando Mineo decise di aderire a il Manifesto, nei primi mesi del 1970. In realtà non fu un fulmine a ciel sereno. Mineo aveva cominciato a prendere rapporti con i
dirigenti del gruppo, ne parlava in termini positivi (anche se con il suo modo
caratteristico di liquidare le persone, ma finendo col salvarne le idee - non
oso ripetere cosa diceva, per es., di Rossana Rossanda), riconosceva che il
Manifesto era ben lungi dall'avere una prospettiva rivoluzionaria (cioè
radicalmente anticapitalistica), ma da bravo centrista sui generis era convinto che lo sviluppo della crisi di
regime e la pressione dei movimenti di massa (all’epoca veramente forti e
diffusi nel Paese) avrebbero costretto il nucleo centrale (da entrambi noi
giustamente definito centrista di tipo classico) a spostarsi verso sinistra e a
fungere da punto di incontro per le varie tendenze politiche, all'epoca
intruppate e fanatizzate all’interno della nuova gruppettistica italiana.
Non mi dilungo su cosa significhi «centrista sui generis» - formula che
conierò nel 1974 per Livio Maitan e la direzione della Quarta internazionale e
che provocherà l'espulsione mia e di tutti coloro che la pensavano come me, in
Italia e all'estero - anche perché al tema ho dedicato un intero volume
di circa 600 pagine (intitolato per l’appunto Il centrismo sui generis. La
polemica contro Maitan e la Quarta internazionale, Bolsena 2006). Qui sto
solo applicando retrospettivamente una definizione storico-politica che
all'epoca ero lungi dall'elaborare. Mineo rientrava perfettamente nella
categoria del centrismo sui generis (cioè del centrismo di origine trotskoide),
ma all'epoca non ero in grado di rendermene conto, e in più aveva
caratteristiche sue specifiche, determinate in larga misura dall’esperienza
politica siciliana.
Non mi resi nemmeno conto, o me ne resi conto troppo tardi, che i
rapporti organizzativi tra lui e il Manifesto erano andati molto avanti e
segretamente o perlomeno a mia insaputa: cioè non informando il compagno che
Mineo considerava a torto o ragione il suo luogotenente, il suo braccio destro
(anzi sinistro) nella realizzazione del progetto politico complessivo.
Sicché quando Mineo mi disse (complice forse Mistretta) che Luigi
Pintor andava a fare un giro per l'Umbria e le Marche per presentare il Manifesto ancora mensile e che mi
avrebbe portato con sé, fui felice di accettare. Per me fu un'esperienza molto
positiva (conobbi tante gente perché si parlava sempre in assemblee strapiene)
ed ebbi modo di familiarizzarmi anche sotto il profilo umano con un personaggio
come Pintor: una mente molto lucida, una pungente ironia, grandi capacità
intuitive, ma scarso interesse per le grandi questioni teoriche (niente di
paragonabile a Lucio Magri, sotto questo profilo e tanto per fare un paragone
endogeno). Ma ciò che sentii e ciò che capii in quel viaggio indimenticabile
mi convinsero ancor di più che il Manifesto non era una soluzione del problema,
bensì parte del problema. Il gruppo dirigente (unito nella diversità) rientrava
in una tradizione riformista e parolaia molto italiana, sia pur capace di grandi
radicalismi in determinati momenti, bene o male ancora legata alla doppiezza
togliattiana e purtroppo ancora carica di ambiguità nei confronti dello
stalinismo. Devo aggiungere che all’epoca Rossanda, Magri e Castellina si
dichiaravano apertamente maoisti e comunque nel Manifesto si respirava
un'atmosfera favorevole a questa variante cinese dello stalinismo.
Nelle intenzioni di chi mi aveva spedito al fianco di Pintor c'era però
la convinzione che la sua personalità e l'esperienza del viaggio mi avrebbero
convinto a cambiare giudizio sul Manifesto. E infatti, praticamente al ritorno
dal viaggio (durato almeno tre giorni), trovai l'invito esplicito da parte di
Mineo ad aderire al Manifesto (futuro Pdup). In realtà non faticai ad
accorgermi che la loro adesione era un fatto puramente formale, perché Mineo e
gli altri responsabili del progetto (per es. Covino a Perugia) erano già
entrati di fatto. Non avendo partecipato alle «trattative», ignoravo cosa si
fossero detti e che garanzie fossero loro state date (per come andranno le cose
dovevano essere molto scarse…).
Per me terminava lì la collaborazione con Mineo perché nei confronti
del gruppo politico del Manifesto ho sempre avuto una sana diffidenza che con
il tempo non poteva che approfondirsi e dimostrarsi sempre più fondata. Mi
seccò anche il ricorso ai sotterfugi che avevano accompagnato quella che io
consideravo una «resa» al riformismo di sinistra.
Ma non sbattei la porta, non litigai con Mineo, non scrissi una lettera
di addio, lasciai cadere le consuete accuse di settarismo e subii in silenzio
anche le ironie di Ciccio Mistretta, visto che come vicini di casa i nostri
rapporti non potevano interrompersi bruscamente. Mistretta era stato comunque
il mio unico e vero tramite nei rapporti con Mario Mineo.
Col fallimento di quel progetto, per me si chiudeva un’epoca. Ero
sinceramente sconvolto dalla degenerazione psicologica e politica dei «quadri
di movimento» che avevano fatto il '68 e ora si adattavano come «capetti» alle
strutture gerarchiche dei gruppi. Non potevo fare a meno di commisurare lo
spirito di sacrificio dei compagni latinoamericani (che continuavo a
frequentare intensamente – per tutti basti il nome di Hilda Gadea, la prima
moglie del Che che visse per un po’ a Roma con me) con l’opportunismo dei nuovi
dirigenti partitici italiani. Molti di loro li conoscevo bene sul piano
personale, anche perché vari provenivano dalla Quarta, e cessai in quei mesi di
nutrire qualsiasi illusione nei confronti della cosiddetta «sinistra
extraparlamentare» italiana.
Ebbi una crisi profonda. A pasqua del 1970 mi ritirai per alcuni
giorni nel convento della Verna, in una cella in mezzo ai frati, io ateo, ma
ammiratore del primo francescanesimo e lì, nel silenzio e tra la neve dei
boschi meditai e meditai. Alla fine decisi di rimboccarmi le maniche e di
ricominciare da capo su salde basi di ordine etico. Ancora oggi seguo la linea
di condotta politica che adottai in quei giorni alla Verna.
Dopo Praxis
Mineo non lo rividi più, e Mistretta lo persi di vista quando andai a
vivere nei pressi di via Gregorio VII. Seguii però le vicende della rivista Praxis e del gruppo (i «mineiani») che
vi faceva capo. Conservo ancora tutta la collezione, rilegata. La storia di
quella vicenda è nota e non mi dilungo. Sarebbe del resto anche troppo facile
cadere in banali considerazioni, del tipo «lo avevo detto» o «se la sono andati
a cercare» ecc.: la storia e la politica, del resto, sono fatte anche di errori
e di miraggi. Anzi, per quanto riguarda il movimento rivoluzionario, sembrano
esservi quasi solo errori e miraggi da più di un secolo.
Dopo aver dato vita alla Fmr internazionale, alla sua sezione italiana
(la Lega comunista) e al suo giornale La
Classe, mi ritrovai coinvolto nella politica attiva all'interno di quella
che ancora si poteva considerare l'«estrema sinistra» italiana. In quel
contesto mi trovai a polemizzare (per iscritto, sul giornale) con tutti i
principali gruppi italiani. Non poteva mancare la polemica con Praxis che cominciò nel n. 4 (febbr.
1977), con un articolo da me scritto ma non firmato dal titolo: «Dove va il
gruppo Praxis». Nell'articolo si ricostruiva la storia del gruppo - che in
Italia ero uno dei pochi a conoscere bene - partendo dalla Sinistra comunista
palermitana del 1963 fino all'entrata nel Manifesto, senza tralasciare
ovviamente la fase della collaborazione tra me e Mineo. Nel n. 5-6 del
marzo/aprile 1977, uscì il secondo articolo dedicato al periodo di permanenza
di Praxis nel Manifesto, fino all'espulsione, commentata nel terzo articolo (n.
8, giugno/luglio 1977). A febbraio del 1978, uscì un mio nuovo articolo,
firmato, dal titolo «Polemica col gruppo Praxis» - in realtà una lunga lettera
che avevo scritto a dicembre, alla quale finalmente Mario Mineo rispose con una
mezza paginetta datata 4 gennaio 1978.
Forse sarebbe stato meglio per lui non rompere il silenzio che aveva
mantenuto nei mesi precedenti, benché lo stessi incalzando con la serie dei 4
articoli, perché quelle poche righe - piene di livore, di processi alle
intenzioni e volte esplicitamente a troncare qualsiasi possibilità di ripresa
di contatto - non vanno certo a suo onore. Sotto questo profilo posso dire che
Mineo è caduto nello stesso errore che aveva commesso tre anni prima Livio
Maitan (al quale Mario si era molto riavvicinato dopo l'espulsione dal
Manifesto) quando aveva rifiutato il confronto politico, preferendo scrivere
una mezza paginetta di insulti. Le analogie tra i due comportamenti di due
anziani esponenti del movimento trotskoide italiano mi hanno sempre colpito.
Anzi, direi che mi hanno anche aiutato a capire tanti altri aspetti psicologici
della cosiddetta «milizia rivoluzionaria» che qui non posso nemmeno accennare.
Tutti e quattro gli articoli citati e la risposta di Mineo furono
pubblicati in La Classe, ma si ritrovano
anche nel mio volume Il '77 e dintorni,
a cura di Antonella Marazzi, introduzione di Piero Bernocchi (Bolsena 2007, pp.
406-32). Va ricordato anche l’articolo che pubblicai in La Classe a maggio del 1980 - «Praxis: brutto pure lo scioglimento»
- in cui tirai un bilancio definitivo dell’esperienza mineiana, arrivata
realmente al capolinea, come si è poi potuto verificare negli anni seguenti.
L’articolo è stato ripubblicato nel mio volume antologico, sempre a cura di
Antonella Marazzi con introduzione di Michele Nobile: Rapimento Moro e declino della sinistra, di cui vale la pena in questa sede di ricordare anche il sottotitolo: L’avvio della mutazione genetica della sinistra, 1978-1980 (Bolsena 2007, pp. 314-17).
A me dispiacque che una bella amicizia politica - nata nel fervore delle lotte postsessantottesche - si dovesse concludere in quel modo. E mi dispiacque ovviamente anche per l’immagine un po’ negativa che Mineo offriva di sé, giunto ormai quasi alla conclusione della sua vita politica. Ma le passioni dell’animo umano sono imprevedibili e non dimentico certo che Mineo era animato
da una carica di passionalità esasperata, quasi morbosa nel modo di affrontare
la politica. Senza dubbio considerava la politica una sfida personale, oltre
che un terreno di confronto teorico. Non so se fosse così anche nella vita
privata. Ma di questo può essere un testimone attendibile il nipote Corradino
Mineo che conobbi a Palermo quando animava il giornale Controscuola e la Lega degli studenti rivoluzionari.
Di Mario Mineo conservo comunque un buon ricordo, capisco ma non
giustifico l'irritazione finale, so darmi una spiegazione del suo modo di
concepire il confronto e penso che il suo livello politico - per onestà e
lucidità - fosse comunque molto ma molto al di sopra dei vari Segretari o
intellettuali-pronti-per-la-bisogna che hanno infestato la gruppettistica
italiana dopo il '68 e continuano a infestarla.