Alla ricerca di analogie
Non è difficile individuare analogie, o tratti similari, fra il sistema di
potere realizzato da Stalin (utilizzando anche presupposti e materiali frutto
dell’azione di Lenin, come la mitologizzazione del partito bolscevico) e le
teorizzazioni di matrice religiosa che furono parte dell’ideologia a sostegno
dell’assolutismo zarista. L’influsso dell’esperienza fatta durante gli anni
giovanili nel seminario ortodosso di Tiflis è importante dal punto di vista
della genesi formale, poiché in quel periodo Stalin fece la conoscenza di certi
moduli linguistici ecclesiastici, poi utilizzati nel culto della sua
personalità. Tuttavia non si trattò solo di influsso formale, giacché anche
taluni moduli strutturali finirono assimilati dal nostro personaggio.
Le analogie di cui parliamo rivelano il rovesciamento di simboli e
strutture del precedente contesto religioso/politico in funzione di un nuovo
assetto di segno contrario sì, ma speculare, per realizzare come punto di
arrivo un maggiore potere di controllo sulla società.
Un rovesciamento che, prima ancora di essere considerato arbitrario, è
semplicemente possibile, e non rappresenta una novità. Si pensi a ciò che
accade in simbologia con la famosa stella a cinque punte: con un solo vertice
in alto, rappresenta l’Uomo Universale; ma rovesciata è simbolo demoniaco del
caprone.
L’ideologia religiosa e
politica dello zarismo: modello “moscovita” e modello “pietrista”
Dovendo qui fare un discorso comparativo, è utile illustrare - sia pure in
sintesi - l’ideologia dello zarismo russo, giacché esso non fu una qualunque
monarchia assoluta, non riscontrandosi nulla di simile nell’Europa occidentale.
Le connotazioni particolari presentate dallo zarismo erano dovute a un mix di
elementi bizantini (l’ideologia del monarca - Βασιλέυς - sacralizzato, una
sorta di vescovo laico pari agli Apostoli) e orientali (desunti dai khanati
tartaro/mongoli dell’Orda d’Oro costituitisi in terra russa dal XIII secolo):
la risultante di ciò fece dello zar un autocrate a sé stante nell’insieme delle
monarchie di diritto divino, quanto meno per la maggiore pregnanza qualitativa.
Il rapporto fra lo zar e il suo regno era visto ideologicamente in senso
patrimonialistico, raffigurandolo cioè come il signore di un dominio personale
totalizzante (votčina), comprendente
tutto e tutti (per certi versi anche le anime). Il suo potere - in quanto
oggetto di un processo di divinizzazione - non era subordinato a nulla né
limitato da alcunché; in più l’ideologia ufficiale vagheggiava l’esistenza di
un’unione sacrale mistica fra zar e popolo, produttiva di amore e ubbidienza, e
magari di felicità.
A voler essere precisi, la predetta concezione dev’essere definita
“moscovita”, in quanto formatasi durante la monarchia insediata a Mosca; a essa
si aggiunse poi un’altra corrente ideologica definibile “pietrista” perché
formatasi con Pietro il Grande (1672-1725). Il pietrismo voleva emulare
l’assolutismo occidentale (e il corrispondente tipo di Stato), sistematizzando
il potere regale mediante le norme giuridiche e gli apparati burocratici. Ma in
questo modo il potere dello zar veniva normativizzato, nel senso che pur
essendo fonte della legge il sovrano, tuttavia - se non voleva trasformarsi in
despota - anche lui doveva rispettare le leggi finché vigenti, avendo esse
valore erga omnes.
In quest’ottica lo zar diventava, da mero autocrate circonfuso di luce
divina, l’autocrate cuspide dell’organizzazione statale. Non a caso Pietro, più
del titolo di zar, amava quello di gosudar
(sovrano), implicante il ruolo di primo agente dello Stato (gosudarstvo); mentre il titolo di zar
connotava principalmente il monarca quale Cesare bizantino, circonfuso di
un’aurea religiosa e sacrale. In sostanza quello di Pietro voleva essere un
assolutismo più secolarizzato e moderno.
Per il pericolo che nel tipo di organizzazione voluta da Pietro potessero
attecchire spinte autonomistiche rispetto al vertice (soprattutto da parte
dalla burocrazia), non tutti i successori di Pietro ne favorirono
l’impostazione; e anzi Alessandro III (1845-1894) e Nicola II (1868-1917) - in
particolare - la ostacolarono decisamente. In fondo era il modello moscovita a
essere più radicato nella tradizione politica e culturale russa, ed era anche
il più abituale per la popolazione.
Le teorizzazioni religioso/politiche del modello moscovita trovavano le
loro basi nel pensiero del monaco (poi santificato) Iosif Volokolamskij
(1439-1518)*. Nel monastero da lui fondato, e di cui fu priore (igúmeno), i monaci erano tenuti
all’obbedienza più assoluta e sottoposti a una vigilanza ossessiva, sia dello
stesso igúmeno sia dei sorveglianti da lui incaricati. E definire molto rigida
la gerarchia interna sarebbe un eufemismo. Il suo monastero non era un’unione
di liberi e uguali, bensì un piccolo esercito ultradisciplinato guidato con
mano ferrea da un capo assoluto nella lotta contro il male.
Ai nostri fini va ricordata la posizione di Volokolamskij verso le
dissidenze e le eterodossie religiose: persecuzione totale e condanna a morte.
Il pentimento successivo alla scoperta non aveva valore al fine di evitare la
pena, e avere rapporti con questi reietti era vietato. In più, stante il
carattere religioso e politico della figura dello zar, le manifestazioni di
pensiero non conformistiche erano da considerare crimini non solo religiosi ma
anche politici.
Il Dio/Giudice severo di Volokolamskij si intrecciava con il Dio/Re che si
incarnava nello zar, nelle cui mani – come egli stesso scrisse a Vassilij III
(1479-1533)
«per la
vita e la Grazia, Dio ha tutto deposto»,
giacché egli vedeva il sovrano
«per natura simile a tutti gli
uomini; in potere è simile a Dio»
oltre che capo della Chiesa (!). Su questa scia Ivan il Terribile (grosny) arriverà ad aggiungere che
«lo zar è chiamato a salvare le
anime dei suoi sudditi»
Siffatte teorizzazioni avvenivano proprio nella fase di formazione dello
Stato russo come monarchia, e non potevano non lasciare un segno profondo e
duraturo, nel clero e nella società.
Quanti credono nell’esistenza di tipicità di base nella cultura e nel modo
di essere dei singoli popoli vedono nella tipicità russa - fra l’altro - lo scontro dialettico tra spirito “anarchico”
e spirito servile. Se questo è vero, si tratta di una conseguenza della cultura (religiosa e politica) del vittorioso
modello moscovita, quand’anche nel più vasto ambito della cultura russa il
potere finisca con l’essere a doppia faccia: da un lato viene sacralizzato, e
da un altro lato è coesistente l’idea che esso sia fonte di male.
Il peculiare marxismo
bolscevico
Poiché Stalin e lo stalinismo non sono nati dal nulla, si deve ricordare
che la Rivoluzione d’Ottobre dei boscevichi aveva alla base un marxismo in
versione russa, e che la Rivoluzione fu fatta nel nome di Marx ma, per vari
profili, contro Marx. Il bolscevismo era portatore di un marxismo messianico in
senso forte – molto più forte che in Marx -
in cui si esaltava la volontà rivoluzionaria come forza dirompente e si
riduceva il proletariato da realtà empirica (socio/economica) a idea del proletariato;
un’idea che una minoranza (quand’anche microscopica) poteva assumere e gestire
traendone una volontà e capacità di lotta capace di infrangere tutti gli
ostacoli di una situazione data. Da qui il primato della politica sull’economia
e la scomparsa di quello che per comodità potremmo chiamare “umanesimo
marxiano”.
Il messianismo di questo marxismo coniugava la violenza con l’inganno,
ovvero con l’astuta capacità di elaborare le audaci parole d’ordine attese
dalle masse con la consapevolezza di tradirle poi nella sostanza, se e quando
fossero d’ostacolo alla presa del potere e alla sua gestione. Nel quadro di una
situazione particolare si è dimostrato essere una forza dirompente sol che un
uomo di grande intelligenza e determinazione riuscisse a gestirla. E tale fu
Lenin, convinto credente nella possibilità di realizzare volontaristicamente il
socialismo in Russia a prescindere dal grado di sviluppo del capitalismo, e
quindi dalla formazione di una numerosa classe operaia. Tuttavia, come la
realtà ha dimostrato, prendere il potere in nome del socialismo non vuole dire
riuscire poi a realizzarlo.
Dopo l’Ottobre del ’17 il partito bolscevico si avviò presto a perdere ogni
libertà al suo interno, al pari del monastero di Volokolamskij, e la
ricostruzione statale dell’ex impero zarista avvenne nel tradizionale segno
dell’onnipotenza dello Stato (sia pure, in questo caso, con una stretta
simbiosi fra partito e Stato). Tuttavia nessuno Stato - per quanto assai ben
disposto a usare in abbondanza il suo monopolio della coazione e della violenza
- può reggersi solo grazie alla violenza: ha bisogno di idee-forza idonee a
cementare e spingere in avanti. Ha bisogno di offrire una visione coerente
della sua ragion d’essere e del mondo, di miti di fondazione e di opportuni
simboli identitari. La classe operaia – già centrale nelle teorizzazioni di
Marx – diventò il tipo stesso dell’umanità superiore (la secolarizzazione del
concetto di popolo eletto), pur non essendo assunta nella sua concretezza,
bensì al suo “dover essere” inteso alla maniera bolscevica. E per plasmarla
adeguatamente si cercò di irregimentarne la vita secondo schemi ideologici volti
a produrre un uomo nuovo: nella
psiche, nell’emotività, nel comportamento (anche posturale).
E la libertà? Si narra che Lenin abbia risposto a un anarchico straniero
che dopo la Rivoluzione d’Ottobre gli poneva questo problema:
«La liberté pourquoi faire?»
Il fatto di non essere la libertà personale all’ordine del giorno del
bolscevismo non era un problema insormontabile all’interno della Russia. Per
secoli e secoli, e fino al ’17, il popolo russo non l’aveva mai conosciuta
direttamente (a parte eccezioni locali e limitate nel tempo, come a Novgorod);
semmai l’aveva vista come prerogativa – peraltro parziale – dei pochi
privilegiati della società. Ed era più abituato a vivere sotto il comando.
La “sacralizzazione”
assolutistica del partito bolscevico
Già prima dell’ascesa di Stalin – meglio ancora: quando era del tutto
inimmaginabile tale ascesa – si era affermato tra i bolscevichi un fenomeno che
in seguito verrà ulteriormente accentuato e che costituirà la cornice adatta a
quella che possiamo definire la ierocrazia atea stalinista: si tratta del
processo di mitizzazione e ontologizzazione metafisica del partito bolscevico.
Questo è dovuto all’azione di Lenin, ma anche a quella di Trotsky.
In buona sostanza, questo partito – a differenza di tutti gli altri partiti
marxisti – perse ben presto il carattere di libera unione politica di liberi ed
eguali, per diventare un feticcio di tipo religioso esistente in sè; una sorta
di entità metafisica trascendente i singoli membri, interprete autentico del
senso della storia e – unico – capace di
agire per il suo inveramento. Un po’ come accade in ambito esoterico -
massonico, per esempio - dove si ritiene che l’unione della loggia crei una
sorta di nuova entità (collettiva) ontologicamente rilevante (“egrégoro”).
In questa mitologizzazione non rilevava per nulla il dato contraddittorio
del processo decisionale nel partito bolscevico realizzato da quanti avevano la
maggioranza – inizialmente – e in seguito dall’autocrate Stalin: cioè da
determinati membri del partito, come è ovvio, non possedendo l’ente-partito
personalità autonoma. Costoro però parlavano e decidevano in nome dell’asserita
e non percettibile entità metafisica. Questi portavoce erano gli unici a poter
intendere la dialettica della Storia, a stabilire in che direzione muoversi,
cosa fare e – soprattutto – cosa si dovesse pensare nel partito e fuori.
Coerente con siffatto presupposto, invece, è tutto quanto accadde dopo la
presa del potere dalla fine del 1917: l’eliminazione degli avversari esterni,
il venir meno di ogni libertà nel partito bolscevico, la lotta ai dissidenti
interni, la pratica sfrenata della violenza, l’utilizzazione aproblematica
della crudeltà a fini politici, e più in generale la disinvolta utilizzazione
di qualsiasi mezzo quand’anche incompatibile col fine proposto. Qui sta – come
ha detto giustamente Roberto Massari – la dignità epistemologica della
questione dei fiumi di sangue versati.
Gli eventi sopra sunteggiati furono tutt’altro che casuali, stante la
convinzione di Lenin che senza un partito di quel tipo la classe operaia (in
quanto tale) non sarebbe riuscita a superare la fase della sindacalizzazione (o
tradeunionismo). È come se si affermasse l’inanità del marxismo senza il suo
coniugarsi con un Blanqui marxisteggiante. Quando una persona dell’intelligenza
di Trosky arrivò a teorizzare la preferibilità dell’avere torto insieme al
partito rispetto all’avere ragione contro di esso, allora è perfettamente
chiaro quale fosse il tasso di fanatismo “religioso” raggiunto dai bolscevichi.
Con Stalin la mistica del partito perverrà a un livello quantitativo e
qualitativo fino ad allora mai raggiunto: quello della confessione di crimini
mai commessi, con la conseguenza dell’accettazione (da interiorizzare) del
proprio sacrificio per il bene del partito(-chiesa). Questa finalità – ovvero
la consapevolezza di essa – finiva con l’essere vista, anche da vittime dello
stalinismo, come motivazione terribile ma accettabile, in un certo senso
prendendo il posto della ricompensa compensativa nell’al di là prospettata ai
fedeli dalla propaganda delle religioni monoteistiche di origine semita.
I primi segnali del
“compagno” Stalin: il ritualismo di matrice liturgica e la catechesi
a) il ritualismo
Del periodo iniziale del suo avvento ai vertici del potere nel partito e
nello Stato balzano all’attenzione, per quanto riguarda il nostro obiettivo,
due episodi: il discorso pronunciato da Stalin al II Congresso dei Soviet
dell'Urss il 26 gennaio 1924, cioè all'indomani della morte di Lenin, e la
decisione di farne imbalsamare il cadavere per poi esporlo alla venerazione del
popolo in un apposito mausoleo. Non si tratta di dettagli di scarsa importanza,
bensì – se visti in un’ottica globale – di veri e propri segni premonitori del
salto di qualità che Stalin si accingeva a realizzare.
Circa il discorso del ’24 – detto anche “giuramento di Stalin a Lenin” –
non ci soffermiamo sul paradosso di un ateo che giura su un cadavere e gli fa
promesse, giacché qui non si tratta di coerenza ideologica, bensì dell’avvio di
un ampio disegno di creazione di un assoggettamento fideistico.
Da notare con attenzione, invece, è la forma di quel discorso, che ha tutte
le cadenze della litania ecclesiale ortodossa. La scansione di tipo prettamente
liturgico si ha con la reiterazione di uno schema consistente nel rammentare un
punto-cardine del pensiero e/o dell’azione di Lenin, e quindi nel pronunciare
l’inerente formula di giuramento;
«Lasciandoci, il compagno Lenin
ci ha comandato di (...) Ti giuriamo, compagno Lenin, che noi adempiremo con
onore anche questo tuo comandamento!».
Ci sarebbe stato bene, dopo la recitazione di ogni giuramento, il liturgico Góspodi pomílui (Signore pietà)
che intercala in chiesa recitazioni del genere.
Residuo culturale degli anni del seminario? Certo, ma perché farvi ricorso?
Gli astanti dovevano capire ma soprattutto partecipare emotivamente, e perchè
ciò avvenisse era necessario ricorrere ai moduli formali a cui erano abituati,
vecchi di secoli e secoli.
Alla stessa logica corrispondono l’imbalsamazione e l’esposizione del
cadavere di Lenin; altrettanti elementi funzionali alla creazione di un culto
sostitutivo di quello religioso della vecchia Russia basato sulla gloria del
“Messia bolscevico”, premessa poi per un altro culto e un’altra apoteosi:
quelle del suo “Vicario” in terra che, ovviamente, qui avrebbe avuto un potere
maggiore (così come è stato per il Papa di Roma rispetto al Cristo). Il Vicario
sarà il nuovo Zar (come nella sua semplicità aveva ben capito la madre di
Stalin) e il capo di una nuova “chiesa”, quand’anche mancante di retroterra
metafisico.
Il ritualismo presente nel discorso del ’24 diventerà poi un elemento
ricorrente nel culto della personalità caratterizzante lo stalinismo: non
poteva esserci brindisi, scritto o discorso privo della
commemorazione/esaltazione del “compagno” Stalin; il che a un certo punto
avvenne mediante formule pressocché standardizzate. Ovvio, se no che culto sarebbe
stato? Se dietro la glorificazione del “todopoderoso” Stalin non ci fosse stata
l’ideologia atea ufficiale, la devozione alla sua figura avrebbe acquisito
tutti i caratteri della religione in senso proprio e forse la destalinizzazione
avviata da Kruscev – per quanto incompleta – avrebbe trovato difficoltà
ulteriori.
b) la catechesi
Un ulteriore “residuo” degli studi in seminario si riscontra nel modo di
scrivere di Stalin: tanto chiaro da essere accessibile a chiunque, estremamente
didattico e spesso e volentieri di tipo catechetico. Nel mondo ortodosso non vi
è mai stata abbondanza di catechismi, come invece nell’Occidente cristiano;
tuttavia nella Chiesa Ortodossa russa (rimasta isolata dal resto delle altre
Chiese Orientali a seguito dell’espansione ottomana, ed esposta a un doppio
proselitismo: il cattolico e il protestante) si affermò il poco organico
criterio di utilizzare elementi e moduli cattolici contro il Protestantesimo,
ed elementi e moduli protestanti contro il Cattolicesimo. Da qui l’uso di
catechismi.
Un esempio paradigmatico del modo catechistico di Stalin nell’esporre si ha
principalmente nell’operetta “Questioni del Leninismo” del 1926. Un lavoro di
propaganda fatto apposta per indottrinare e perché poi il “laico” comunista
ripetesse la lectio sacerdotalis
staliniana.
A caratterizzare questo scritto come testo catechetico è la struttura: si
susseguono le affermazioni apodittiche – tipo esposizione di un dogma – a cui
seguono domande retoriche che vorrebbero aprire il discorso a una maggiore
esplicazione, mentre già contengono in sé la risposta, e in senso perfettamente
conforme al contenuto del dogma enunciato in precedenza, più che argomentato e
motivato. Un esempio può essere sufficiente:
«Che cosa significa introdurre
nella definizione del leninismo l'arretratezza della Russia, il suo carattere
contadino? Significa fare del leninismo non più una dottrina proletaria
internazionale, ma un prodotto delle specifiche condizioni russe. Significa
fare il gioco di Bauer e di Kautsky, i quali negano che il leninismo convenga
ad altri paesi, capitalisticamente più sviluppati. E’ indiscutibile che la
questione contadina ha per la Russia la massima importanza, che il nostro paese
è un paese rurale. Ma quale importanza può avere questo fatto per caratterizzare
i principii del leninismo? Si è forse il leninismo formato soltanto sul suolo
della Russia e per la Russia, e non sul terreno dell'imperialismo, non per i
paesi imperialisti in generale?»
Come certi libri di teologia, così le Questioni
del Leninismo sono un testo dogmatico, strutturato in modo che il lettore e
lo studente non abbiano da pensare e riflettere criticamente al di fuori dal
percorso discorsivo tracciato dall’autore, la cui finalità è solo quella di
indottrinare proponendo il “verbo” da lui definito e da lui imposto al partito.
Pensarla diversamente implica mettersi contro il partito che tutto sa; implica
una dissidenza che assurge subito al rango di eresia.
L’iconografia
Il Novecento è stato il secolo dell’immagine, ben più delle epoche
precedenti, e quindi non stupisce se l’iconografia stalinista abbia una
capacità rivelatrice non secondaria. I quadri che raffigurano Stalin in mezzo
alla gente hanno un carattere parareligioso, e in certi casi fanno ricordare,
dal punto di vista dello stile, l’ingenua – e irritante perché menzognera -
iconografia dei Testimoni di Geova (tipicamente statunitense, peraltro). In
quelle immagini la presenza del “Padre” Stalin è fonte di serena felicità, di
appagamento; trasfigura anche gli astanti raccolti attorno a lui separandoli
dalle brutture del vecchio mondo e proiettandoli nella dimensione del “Mondo
Nuovo” come se fosse già realizzato.
Vi sono poi quadri raffiguranti il solo Stalin in cui le reminiscenze delle
icone ortodosse sono evidenti: specie in quelli in cui il dittatore è in giacca
bianca, la sua figura è pervasa di luce, e si ha quasi l’impressione che sia
lui a essere la fonte luminosa. Nelle case russe - in cui si erano conservate le icone sacre nonostante la
virulenta persecuzione religiosa che terminò solo con l’aggressione hitleriana
- immagini del genere potevano ben figurare accanto a quelle religiose. In
fondo il georgiano era l’onnipotente sulla terra di cui Dio aveva permesso
l’ascesa al potere. Il nuovo “sacro Zar”.
La ierocrazia atea del “compagno”
Stalin
Portando all’estremo la concezione leninista Stalin perfezionò un sistema
di potere degno erede (ma a livelli superiori) del dispotismo zarista. Questo è
tanto noto da non essere il caso di insisterci più di tanto, né di evidenziarne
la totale mancanza di sensibilità etica, trattandosi di caratteri tipici delle
tirannidi.
Piuttosto va rilevato che in realtà Stalin (più che Lenin) si pose come
vero e proprio soggetto attivo di un’apocalisse
atea della storia in senso escatologico animato da fanatismo messianico.
Per apocalisse si intende il disvelamento del significato recondito della
storia, nonché il giudizio su di essa. Giudizio non positivo, a motivo dei
molti mali esistenti e necessariamente da estirpare con la violenza e il sangue
ai fini dell’avvento dei nuovi cieli e della nuova terra di biblica memoria. La
stessa glorificazione della figura di Stalin risulta coerente con questa
apocalisse.
Stalin inoltre dette risposte concrete (e sanguinarie, ma Ivan il Terribile
non era passato invano nella storia russa) alla diffusa tendenza al dogmatismo
del popolo russo, al suo dogmatismo, alla venerazione per uno zar, all’attesa
di un regno messianico sulla terra, al suo messianismo universalizzante, alla
tendenza alla polarizzazione bene/male e – perché no? – alla diffidenza verso
l’intellighezia sentita come estranea e pericolosa.
In definitiva Stalin dette al popolo russo un nuovo Regno volto al
millenarismo quand’anche ateo, una ierocrazia rovesciata ma comunque non priva
di una sua sacralità, se per sacro si intende (riducendo all’osso) una potenza
superiore e incommensurabile, attiva anche sulle singole anime (così come era
stato per lo Zar).
Per la mentalità russa (almeno di quel tempo) i grandiosi – e sovente
chimerici – piani di rinnovamento e progresso di Stalin non potevano che
suscitare entusiasmo in un contesto culturale propenso a coltivare sogni e
progetti palingenetici, tanto più che egli offriva – oltre a una nuova
ortodossia – anche la possibilità per il popolo dell’Urss di alimentare (e
possibilmente concretizzare) radicate componenti messianiche attraverso il
messianismo del proletariato. Essenzialmente si trattò del proletariato russo,
che in tale modo finì con il personificare l’intero proletariato mondiale. Il
segno di ciò fu chiaro nella mutazione della valenza data al concetto di
patria: per Marx il proletariato non ne aveva; con Stalin fu l’Urss a diventare
la sua patria, anche se non si trattava di proletariato russo. Così, con un bel
salto dialettico, l’internazionalismo si ribaltò in nazionalismo
grande-russo.
Fede a tutta prova e possibilità di concretizzare interessi materiali (cioè
ascesa sociale) sono un “buona” miscela per esercitare il proprio potere e per
attirare adepti. Stalin voleva la prima e sapeva usare accortamente la seconda.
Così come le strutture del potere religioso sono amanti dei semplici di spirito
(o poveri di spirito, in senso peggiorativo) e pronte a tessere una rete di
clientele piccole e grandi.
Quanto sopra detto viene attestato dalla realtà psico/sociologica
dell’apparato di potere organizzato da Stalin una volta padrone del partito.
Egli realizzò l’immissione nella burocrazia (sempre più consistente, potente e
famelica) di una soverchiante massa di persone sostanzialmente incolte,
provenienti da famiglie operaie e contadine analfabete, del tutto estranee al
mondo della cultura russa, a essa ostili e pronti a trasformare in desiderio di
vendetta l’invidia e il rancore sedimentati in precedenza. Con gente simile sia
i non-bolscevichi, tacciabili di essere borghesi, sia i bolscevichi di ben
altro livello non avevano da spettarsi nulla di buono nè smagliature buoniste,
trattandosi di gente che a Stalin tutto doveva, altro aveva da aspettarsi, e
quindi gli era fedele.
In era staliniana si consolidò il processo di trasformazione del
materialismo storico di Marx in materialismo dialettico, lestamente
dogmatizzato. In termini ideologici il materialismo dialettico – almeno per chi
non ci crede – è rivelatore di un’impostazione religiosa rovesciata, per il
fatto di attribuirsi alla materia caratteri degni di uno spirito agente, di un’anima mundi o di un lógos, capovolgendo il materialismo storico in idealismo
materiale.
Assolutizzata e imposta alla società dell’Urss, questa componente
ideologica (al pari delle altre) per imporsi e per sostenersi aveva bisogno
vitale dei suoi eretici, eterodossi e dissidenti, facendo calare (per
necessitata conseguenza) una cappa di piombo sulle dinamiche culturali. Talché
in politica, in economia, in arte, nelle scienze, in filosofia, nei costumi
ecc. ad assumere rilievo essenziale non erano dicotomie tipo vero/falso,
esatto/erroneo, giusto/ingiusto, bensì – come accade nelle Chiese e nelle
organizzazioni religiose rigide o anelastiche – la dicotomia conforme/difforme,
ortodosso/eterodosso, rispetto alla linea del partito. Qui però con una
complicazione: la risaputa tendenza di Stalin a piegare la strategia alla
tattica faceva sì che le linee fissate dal partito (cioè da lui) erano
contingenti e ad alto tasso di variabilità. Con la conseguenza che per gli
“zeloti” di una linea precedente – quando nella fase successiva non venivano
fucilati – le porte del Gulag erano sempre aperte. Gente pre-condannata a
essere martirizzata; ma le Chiese insegnano che il sangue dei martiri è
semente. In questo caso – con un ulteriore rovesciamento – doveva a esserlo
proprio a favore di chi lo faceva spargere.
Il “sole ingannatore”
Come lo zar della tradizione moscovita non era assoggettato ad alcuna legge
umana (nemmeno alla sua), e per quelle divine se la vedeva direttamente con
Dio, così Stalin realizzò il suo dispotismo in spregio totale alle stesse
Costituzioni dell’Urss. In tal modo ponendosi (e facendosi osannare) come una
sorta di “mandatario del Cielo” (per dirla alla cinese), pur trattandosi di un
Cielo vuoto, in base all’ateismo ufficiale. I profondi sconvolgimenti nella
vita sociale in Urss avvenuti durante il suo dominio lo facevano apparire - in
quanto motore di questo vasto titanismo
che abbatteva e ricreava - come il Demiurgo dell’atteso Mondo nuovo;
come colui che muove e decide, lasciando agli altri la “libertà” di operare
secondo le linee da lui indicate. Lui era il fattore indispensabile per dare
corpo all’Eden socialista, talché Marx finiva con l’essere il Giovanni Battista
del Socialismo e Lenin un Messia offuscato da un Vicario senza il quale la sua
opera avrebbe avuto ben scarso futuro.
Proprio come accade nel quadro della predestinazione religiosa, nell’ottica
stalinista l’essere umano da soggetto agente diventava strumento operativo di
una forza incommensurabile che lo trascende e lo schiaccia se vuole
separarsene, poiché essa è proiettata a essere totalizzante.
In fondo è come se Stalin - a un certo punto diventato più grande-russo dei
russi etnici e degli slavofili del sec. XIX - avesse voluto creare e imporre
una propria “Quarta Roma”, ma dai tratti deformati. Essa è finita nella
sanguinosa pattumiera della Storia. Poco male, direbbe un cinico. Ma oltre a
20-30 milioni di morti causati dalla repressione e dalla fame programmata per
schiantare le resistenze dei contadini (come in Ucraina) resta in piedi il
lascito negativo di Stalin (e del bolscevismo) consistente nell’identificazione
(lestamente ripresa dal nemico di classe) fra il sistema realizzato in Russia a
partire dal 1917 - e poi esteso ai paesi del “socialismo reale” - e il
comunismo, mentre esso, per ragioni di ideologia e di spirito, nulla ha a che
vedere con il comunismo e col marxismo, in termini sociali, economici, politici
e culturali.
Dostoevskij, che era un vero cristiano, disse che il Paradiso è qui; per
Stalin (come per le dottrine ecclesiastiche) esso è di là da venire, e nella
sua attesa regna l’inferno.
J. Stalin, Opere scelte, Edizioni
in lingue estere di Mosca, Mosca 1949, vol. I, pagg. 15-18.