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sabato 17 marzo 2012

LA IEROCRAZIA ATEA DEL «COMPAGNO» STALIN, di Pier Francesco Zarcone

Alla ricerca di analogie
Non è difficile individuare analogie, o tratti similari, fra il sistema di potere realizzato da Stalin (utilizzando anche presupposti e materiali frutto dell’azione di Lenin, come la mitologizzazione del partito bolscevico) e le teorizzazioni di matrice religiosa che furono parte dell’ideologia a sostegno dell’assolutismo zarista. L’influsso dell’esperienza fatta durante gli anni giovanili nel seminario ortodosso di Tiflis è importante dal punto di vista della genesi formale, poiché in quel periodo Stalin fece la conoscenza di certi moduli linguistici ecclesiastici, poi utilizzati nel culto della sua personalità. Tuttavia non si trattò solo di influsso formale, giacché anche taluni moduli strutturali finirono assimilati dal nostro personaggio.
Le analogie di cui parliamo rivelano il rovesciamento di simboli e strutture del precedente contesto religioso/politico in funzione di un nuovo assetto di segno contrario sì, ma speculare, per realizzare come punto di arrivo un maggiore potere di controllo sulla società. 
Un rovesciamento che, prima ancora di essere considerato arbitrario, è semplicemente possibile, e non rappresenta una novità. Si pensi a ciò che accade in simbologia con la famosa stella a cinque punte: con un solo vertice in alto, rappresenta l’Uomo Universale; ma rovesciata è simbolo demoniaco del caprone.

L’ideologia religiosa e politica dello zarismo: modello “moscovita” e modello “pietrista”
Dovendo qui fare un discorso comparativo, è utile illustrare - sia pure in sintesi - l’ideologia dello zarismo russo, giacché esso non fu una qualunque monarchia assoluta, non riscontrandosi nulla di simile nell’Europa occidentale. Le connotazioni particolari presentate dallo zarismo erano dovute a un mix di elementi bizantini (l’ideologia del monarca - Βασιλέυς - sacralizzato, una sorta di vescovo laico pari agli Apostoli) e orientali (desunti dai khanati tartaro/mongoli dell’Orda d’Oro costituitisi in terra russa dal XIII secolo): la risultante di ciò fece dello zar un autocrate a sé stante nell’insieme delle monarchie di diritto divino, quanto meno per la maggiore pregnanza qualitativa.
Il rapporto fra lo zar e il suo regno era visto ideologicamente in senso patrimonialistico, raffigurandolo cioè come il signore di un dominio personale totalizzante (votčina), comprendente tutto e tutti (per certi versi anche le anime). Il suo potere - in quanto oggetto di un processo di divinizzazione - non era subordinato a nulla né limitato da alcunché; in più l’ideologia ufficiale vagheggiava l’esistenza di un’unione sacrale mistica fra zar e popolo, produttiva di amore e ubbidienza, e magari di felicità.
A voler essere precisi, la predetta concezione dev’essere definita “moscovita”, in quanto formatasi durante la monarchia insediata a Mosca; a essa si aggiunse poi un’altra corrente ideologica definibile “pietrista” perché formatasi con Pietro il Grande (1672-1725). Il pietrismo voleva emulare l’assolutismo occidentale (e il corrispondente tipo di Stato), sistematizzando il potere regale mediante le norme giuridiche e gli apparati burocratici. Ma in questo modo il potere dello zar veniva normativizzato, nel senso che pur essendo fonte della legge il sovrano, tuttavia - se non voleva trasformarsi in despota - anche lui doveva rispettare le leggi finché vigenti, avendo esse valore erga omnes.
In quest’ottica lo zar diventava, da mero autocrate circonfuso di luce divina, l’autocrate cuspide dell’organizzazione statale. Non a caso Pietro, più del titolo di zar, amava quello di gosudar (sovrano), implicante il ruolo di primo agente dello Stato (gosudarstvo); mentre il titolo di zar connotava principalmente il monarca quale Cesare bizantino, circonfuso di un’aurea religiosa e sacrale. In sostanza quello di Pietro voleva essere un assolutismo più secolarizzato e moderno.
Per il pericolo che nel tipo di organizzazione voluta da Pietro potessero attecchire spinte autonomistiche rispetto al vertice (soprattutto da parte dalla burocrazia), non tutti i successori di Pietro ne favorirono l’impostazione; e anzi Alessandro III (1845-1894) e Nicola II (1868-1917) - in particolare - la ostacolarono decisamente. In fondo era il modello moscovita a essere più radicato nella tradizione politica e culturale russa, ed era anche il più abituale per la popolazione.
Le teorizzazioni religioso/politiche del modello moscovita trovavano le loro basi nel pensiero del monaco (poi santificato) Iosif Volokolamskij (1439-1518)*. Nel monastero da lui fondato, e di cui fu priore (igúmeno), i monaci erano tenuti all’obbedienza più assoluta e sottoposti a una vigilanza ossessiva, sia dello stesso igúmeno sia dei sorveglianti da lui incaricati. E definire molto rigida la gerarchia interna sarebbe un eufemismo. Il suo monastero non era un’unione di liberi e uguali, bensì un piccolo esercito ultradisciplinato guidato con mano ferrea da un capo assoluto nella lotta contro il male.
Ai nostri fini va ricordata la posizione di Volokolamskij verso le dissidenze e le eterodossie religiose: persecuzione totale e condanna a morte. Il pentimento successivo alla scoperta non aveva valore al fine di evitare la pena, e avere rapporti con questi reietti era vietato. In più, stante il carattere religioso e politico della figura dello zar, le manifestazioni di pensiero non conformistiche erano da considerare crimini non solo religiosi ma anche politici. 
Il Dio/Giudice severo di Volokolamskij si intrecciava con il Dio/Re che si incarnava nello zar, nelle cui mani – come egli stesso scrisse a Vassilij III (1479-1533)
«per la vita e la Grazia, Dio ha tutto deposto»,
giacché egli vedeva il sovrano
«per natura simile a tutti gli uomini; in potere è simile a Dio»
oltre che capo della Chiesa (!). Su questa scia Ivan il Terribile (grosny) arriverà ad aggiungere che
«lo zar è chiamato a salvare le anime dei suoi sudditi»
Siffatte teorizzazioni avvenivano proprio nella fase di formazione dello Stato russo come monarchia, e non potevano non lasciare un segno profondo e duraturo, nel clero e nella società.
Quanti credono nell’esistenza di tipicità di base nella cultura e nel modo di essere dei singoli popoli vedono nella tipicità russa - fra l’altro -  lo scontro dialettico tra spirito “anarchico” e spirito servile. Se questo è vero, si tratta di una conseguenza della  cultura (religiosa e politica) del vittorioso modello moscovita, quand’anche nel più vasto ambito della cultura russa il potere finisca con l’essere a doppia faccia: da un lato viene sacralizzato, e da un altro lato è coesistente l’idea che esso sia fonte di male.

Il peculiare marxismo bolscevico
Poiché Stalin e lo stalinismo non sono nati dal nulla, si deve ricordare che la Rivoluzione d’Ottobre dei boscevichi aveva alla base un marxismo in versione russa, e che la Rivoluzione fu fatta nel nome di Marx ma, per vari profili, contro Marx. Il bolscevismo era portatore di un marxismo messianico in senso forte – molto più forte che in Marx -  in cui si esaltava la volontà rivoluzionaria come forza dirompente e si riduceva il proletariato da realtà empirica (socio/economica) a idea del proletariato; un’idea che una minoranza (quand’anche microscopica) poteva assumere e gestire traendone una volontà e capacità di lotta capace di infrangere tutti gli ostacoli di una situazione data. Da qui il primato della politica sull’economia e la scomparsa di quello che per comodità potremmo chiamare “umanesimo marxiano”.
Il messianismo di questo marxismo coniugava la violenza con l’inganno, ovvero con l’astuta capacità di elaborare le audaci parole d’ordine attese dalle masse con la consapevolezza di tradirle poi nella sostanza, se e quando fossero d’ostacolo alla presa del potere e alla sua gestione. Nel quadro di una situazione particolare si è dimostrato essere una forza dirompente sol che un uomo di grande intelligenza e determinazione riuscisse a gestirla. E tale fu Lenin, convinto credente nella possibilità di realizzare volontaristicamente il socialismo in Russia a prescindere dal grado di sviluppo del capitalismo, e quindi dalla formazione di una numerosa classe operaia. Tuttavia, come la realtà ha dimostrato, prendere il potere in nome del socialismo non vuole dire riuscire poi a realizzarlo.
Dopo l’Ottobre del ’17 il partito bolscevico si avviò presto a perdere ogni libertà al suo interno, al pari del monastero di Volokolamskij, e la ricostruzione statale dell’ex impero zarista avvenne nel tradizionale segno dell’onnipotenza dello Stato (sia pure, in questo caso, con una stretta simbiosi fra partito e Stato). Tuttavia nessuno Stato - per quanto assai ben disposto a usare in abbondanza il suo monopolio della coazione e della violenza - può reggersi solo grazie alla violenza: ha bisogno di idee-forza idonee a cementare e spingere in avanti. Ha bisogno di offrire una visione coerente della sua ragion d’essere e del mondo, di miti di fondazione e di opportuni simboli identitari. La classe operaia – già centrale nelle teorizzazioni di Marx – diventò il tipo stesso dell’umanità superiore (la secolarizzazione del concetto di popolo eletto), pur non essendo assunta nella sua concretezza, bensì al suo “dover essere” inteso alla maniera bolscevica. E per plasmarla adeguatamente si cercò di irregimentarne la vita secondo schemi ideologici volti a produrre un uomo nuovo: nella psiche, nell’emotività, nel comportamento (anche posturale).
E la libertà? Si narra che Lenin abbia risposto a un anarchico straniero che dopo la Rivoluzione d’Ottobre gli poneva questo problema:
«La liberté pourquoi faire?»
Il fatto di non essere la libertà personale all’ordine del giorno del bolscevismo non era un problema insormontabile all’interno della Russia. Per secoli e secoli, e fino al ’17, il popolo russo non l’aveva mai conosciuta direttamente (a parte eccezioni locali e limitate nel tempo, come a Novgorod); semmai l’aveva vista come prerogativa – peraltro parziale – dei pochi privilegiati della società. Ed era più abituato a vivere sotto il comando.

La “sacralizzazione” assolutistica del partito bolscevico
Già prima dell’ascesa di Stalin – meglio ancora: quando era del tutto inimmaginabile tale ascesa – si era affermato tra i bolscevichi un fenomeno che in seguito verrà ulteriormente accentuato e che costituirà la cornice adatta a quella che possiamo definire la ierocrazia atea stalinista: si tratta del processo di mitizzazione e ontologizzazione metafisica del partito bolscevico. Questo è dovuto all’azione di Lenin, ma anche a quella di Trotsky.
In buona sostanza, questo partito – a differenza di tutti gli altri partiti marxisti – perse ben presto il carattere di libera unione politica di liberi ed eguali, per diventare un feticcio di tipo religioso esistente in sè; una sorta di entità metafisica trascendente i singoli membri, interprete autentico del senso della storia e  – unico – capace di agire per il suo inveramento. Un po’ come accade in ambito esoterico - massonico, per esempio - dove si ritiene che l’unione della loggia crei una sorta di nuova entità (collettiva) ontologicamente rilevante (“egrégoro”). 
In questa mitologizzazione non rilevava per nulla il dato contraddittorio del processo decisionale nel partito bolscevico realizzato da quanti avevano la maggioranza – inizialmente – e in seguito dall’autocrate Stalin: cioè da determinati membri del partito, come è ovvio, non possedendo l’ente-partito personalità autonoma. Costoro però parlavano e decidevano in nome dell’asserita e non percettibile entità metafisica. Questi portavoce erano gli unici a poter intendere la dialettica della Storia, a stabilire in che direzione muoversi, cosa fare e – soprattutto – cosa si dovesse pensare nel partito e fuori.
Coerente con siffatto presupposto, invece, è tutto quanto accadde dopo la presa del potere dalla fine del 1917: l’eliminazione degli avversari esterni, il venir meno di ogni libertà nel partito bolscevico, la lotta ai dissidenti interni, la pratica sfrenata della violenza, l’utilizzazione aproblematica della crudeltà a fini politici, e più in generale la disinvolta utilizzazione di qualsiasi mezzo quand’anche incompatibile col fine proposto. Qui sta – come ha detto giustamente Roberto Massari – la dignità epistemologica della questione dei fiumi di sangue versati.
Gli eventi sopra sunteggiati furono tutt’altro che casuali, stante la convinzione di Lenin che senza un partito di quel tipo la classe operaia (in quanto tale) non sarebbe riuscita a superare la fase della sindacalizzazione (o tradeunionismo). È come se si affermasse l’inanità del marxismo senza il suo coniugarsi con un Blanqui marxisteggiante. Quando una persona dell’intelligenza di Trosky arrivò a teorizzare la preferibilità dell’avere torto insieme al partito rispetto all’avere ragione contro di esso, allora è perfettamente chiaro quale fosse il tasso di fanatismo “religioso” raggiunto dai bolscevichi.
Con Stalin la mistica del partito perverrà a un livello quantitativo e qualitativo fino ad allora mai raggiunto: quello della confessione di crimini mai commessi, con la conseguenza dell’accettazione (da interiorizzare) del proprio sacrificio per il bene del partito(-chiesa). Questa finalità – ovvero la consapevolezza di essa – finiva con l’essere vista, anche da vittime dello stalinismo, come motivazione terribile ma accettabile, in un certo senso prendendo il posto della ricompensa compensativa nell’al di là prospettata ai fedeli dalla propaganda delle religioni monoteistiche di origine semita.

I primi segnali del “compagno” Stalin: il ritualismo di matrice liturgica e la catechesi
a) il ritualismo
Del periodo iniziale del suo avvento ai vertici del potere nel partito e nello Stato balzano all’attenzione, per quanto riguarda il nostro obiettivo, due episodi: il discorso pronunciato da Stalin al II Congresso dei Soviet dell'Urss il 26 gennaio 1924, cioè all'indomani della morte di Lenin, e la decisione di farne imbalsamare il cadavere per poi esporlo alla venerazione del popolo in un apposito mausoleo. Non si tratta di dettagli di scarsa importanza, bensì – se visti in un’ottica globale – di veri e propri segni premonitori del salto di qualità che Stalin si accingeva a realizzare.
Circa il discorso del ’24 – detto anche “giuramento di Stalin a Lenin” – non ci soffermiamo sul paradosso di un ateo che giura su un cadavere e gli fa promesse, giacché qui non si tratta di coerenza ideologica, bensì dell’avvio di un ampio disegno di creazione di un assoggettamento fideistico.
Da notare con attenzione, invece, è la forma di quel discorso, che ha tutte le cadenze della litania ecclesiale ortodossa. La scansione di tipo prettamente liturgico si ha con la reiterazione di uno schema consistente nel rammentare un punto-cardine del pensiero e/o dell’azione di Lenin, e quindi nel pronunciare l’inerente formula di giuramento;
«Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di (...) Ti giuriamo, compagno Lenin, che noi adempiremo con onore anche questo tuo comandamento!»[1].

Ci sarebbe stato bene, dopo la recitazione di ogni giuramento, il liturgico Góspodi pomílui (Signore pietà) che intercala in chiesa recitazioni del genere.
Residuo culturale degli anni del seminario? Certo, ma perché farvi ricorso? Gli astanti dovevano capire ma soprattutto partecipare emotivamente, e perchè ciò avvenisse era necessario ricorrere ai moduli formali a cui erano abituati, vecchi di secoli e secoli.
Alla stessa logica corrispondono l’imbalsamazione e l’esposizione del cadavere di Lenin; altrettanti elementi funzionali alla creazione di un culto sostitutivo di quello religioso della vecchia Russia basato sulla gloria del “Messia bolscevico”, premessa poi per un altro culto e un’altra apoteosi: quelle del suo “Vicario” in terra che, ovviamente, qui avrebbe avuto un potere maggiore (così come è stato per il Papa di Roma rispetto al Cristo). Il Vicario sarà il nuovo Zar (come nella sua semplicità aveva ben capito la madre di Stalin) e il capo di una nuova “chiesa”, quand’anche mancante di retroterra metafisico.
Il ritualismo presente nel discorso del ’24 diventerà poi un elemento ricorrente nel culto della personalità caratterizzante lo stalinismo: non poteva esserci brindisi, scritto o discorso privo della commemorazione/esaltazione del “compagno” Stalin; il che a un certo punto avvenne mediante formule pressocché standardizzate. Ovvio, se no che culto sarebbe stato? Se dietro la glorificazione del “todopoderoso” Stalin non ci fosse stata l’ideologia atea ufficiale, la devozione alla sua figura avrebbe acquisito tutti i caratteri della religione in senso proprio e forse la destalinizzazione avviata da Kruscev – per quanto incompleta – avrebbe trovato difficoltà ulteriori.
b) la catechesi
Un ulteriore “residuo” degli studi in seminario si riscontra nel modo di scrivere di Stalin: tanto chiaro da essere accessibile a chiunque, estremamente didattico e spesso e volentieri di tipo catechetico. Nel mondo ortodosso non vi è mai stata abbondanza di catechismi, come invece nell’Occidente cristiano; tuttavia nella Chiesa Ortodossa russa (rimasta isolata dal resto delle altre Chiese Orientali a seguito dell’espansione ottomana, ed esposta a un doppio proselitismo: il cattolico e il protestante) si affermò il poco organico criterio di utilizzare elementi e moduli cattolici contro il Protestantesimo, ed elementi e moduli protestanti contro il Cattolicesimo. Da qui l’uso di catechismi.
Un esempio paradigmatico del modo catechistico di Stalin nell’esporre si ha principalmente nell’operetta “Questioni del Leninismo” del 1926. Un lavoro di propaganda fatto apposta per indottrinare e perché poi il “laico” comunista ripetesse la lectio sacerdotalis staliniana.
A caratterizzare questo scritto come testo catechetico è la struttura: si susseguono le affermazioni apodittiche – tipo esposizione di un dogma – a cui seguono domande retoriche che vorrebbero aprire il discorso a una maggiore esplicazione, mentre già contengono in sé la risposta, e in senso perfettamente conforme al contenuto del dogma enunciato in precedenza, più che argomentato e motivato. Un esempio può essere sufficiente:
«Che cosa significa introdurre nella definizione del leninismo l'arretratezza della Russia, il suo carattere contadino? Significa fare del leninismo non più una dottrina proletaria internazionale, ma un prodotto delle specifiche condizioni russe. Significa fare il gioco di Bauer e di Kautsky, i quali negano che il leninismo convenga ad altri paesi, capitalisticamente più sviluppati. E’ indiscutibile che la questione contadina ha per la Russia la massima importanza, che il nostro paese è un paese rurale. Ma quale importanza può avere questo fatto per caratterizzare i principii del leninismo? Si è forse il leninismo formato soltanto sul suolo della Russia e per la Russia, e non sul terreno dell'imperialismo, non per i paesi imperialisti in generale?»

Come certi libri di teologia, così le Questioni del Leninismo sono un testo dogmatico, strutturato in modo che il lettore e lo studente non abbiano da pensare e riflettere criticamente al di fuori dal percorso discorsivo tracciato dall’autore, la cui finalità è solo quella di indottrinare proponendo il “verbo” da lui definito e da lui imposto al partito. Pensarla diversamente implica mettersi contro il partito che tutto sa; implica una dissidenza che assurge subito al rango di eresia. 

 L’iconografia
Il Novecento è stato il secolo dell’immagine, ben più delle epoche precedenti, e quindi non stupisce se l’iconografia stalinista abbia una capacità rivelatrice non secondaria. I quadri che raffigurano Stalin in mezzo alla gente hanno un carattere parareligioso, e in certi casi fanno ricordare, dal punto di vista dello stile, l’ingenua – e irritante perché menzognera - iconografia dei Testimoni di Geova (tipicamente statunitense, peraltro). In quelle immagini la presenza del “Padre” Stalin è fonte di serena felicità, di appagamento; trasfigura anche gli astanti raccolti attorno a lui separandoli dalle brutture del vecchio mondo e proiettandoli nella dimensione del “Mondo Nuovo” come se fosse già realizzato.
Vi sono poi quadri raffiguranti il solo Stalin in cui le reminiscenze delle icone ortodosse sono evidenti: specie in quelli in cui il dittatore è in giacca bianca, la sua figura è pervasa di luce, e si ha quasi l’impressione che sia lui a essere la fonte luminosa. Nelle case russe - in cui si erano conservate le icone sacre nonostante la virulenta persecuzione religiosa che terminò solo con l’aggressione hitleriana - immagini del genere potevano ben figurare accanto a quelle religiose. In fondo il georgiano era l’onnipotente sulla terra di cui Dio aveva permesso l’ascesa al potere. Il nuovo “sacro Zar”.

La ierocrazia atea del “compagno” Stalin
Portando all’estremo la concezione leninista Stalin perfezionò un sistema di potere degno erede (ma a livelli superiori) del dispotismo zarista. Questo è tanto noto da non essere il caso di insisterci più di tanto, né di evidenziarne la totale mancanza di sensibilità etica, trattandosi di caratteri tipici delle tirannidi.
Piuttosto va rilevato che in realtà Stalin (più che Lenin) si pose come vero e proprio soggetto attivo di un’apocalisse atea della storia in senso escatologico animato da fanatismo messianico. Per apocalisse si intende il disvelamento del significato recondito della storia, nonché il giudizio su di essa. Giudizio non positivo, a motivo dei molti mali esistenti e necessariamente da estirpare con la violenza e il sangue ai fini dell’avvento dei nuovi cieli e della nuova terra di biblica memoria. La stessa glorificazione della figura di Stalin risulta coerente con questa apocalisse.  
Stalin inoltre dette risposte concrete (e sanguinarie, ma Ivan il Terribile non era passato invano nella storia russa) alla diffusa tendenza al dogmatismo del popolo russo, al suo dogmatismo, alla venerazione per uno zar, all’attesa di un regno messianico sulla terra, al suo messianismo universalizzante, alla tendenza alla polarizzazione bene/male e – perché no? – alla diffidenza verso l’intellighezia sentita come estranea e pericolosa.
In definitiva Stalin dette al popolo russo un nuovo Regno volto al millenarismo quand’anche ateo, una ierocrazia rovesciata ma comunque non priva di una sua sacralità, se per sacro si intende (riducendo all’osso) una potenza superiore e incommensurabile, attiva anche sulle singole anime (così come era stato per lo Zar).
Per la mentalità russa (almeno di quel tempo) i grandiosi – e sovente chimerici – piani di rinnovamento e progresso di Stalin non potevano che suscitare entusiasmo in un contesto culturale propenso a coltivare sogni e progetti palingenetici, tanto più che egli offriva – oltre a una nuova ortodossia – anche la possibilità per il popolo dell’Urss di alimentare (e possibilmente concretizzare) radicate componenti messianiche attraverso il messianismo del proletariato. Essenzialmente si trattò del proletariato russo, che in tale modo finì con il personificare l’intero proletariato mondiale. Il segno di ciò fu chiaro nella mutazione della valenza data al concetto di patria: per Marx il proletariato non ne aveva; con Stalin fu l’Urss a diventare la sua patria, anche se non si trattava di proletariato russo. Così, con un bel salto dialettico, l’internazionalismo si ribaltò in nazionalismo grande-russo. 
Fede a tutta prova e possibilità di concretizzare interessi materiali (cioè ascesa sociale) sono un “buona” miscela per esercitare il proprio potere e per attirare adepti. Stalin voleva la prima e sapeva usare accortamente la seconda. Così come le strutture del potere religioso sono amanti dei semplici di spirito (o poveri di spirito, in senso peggiorativo) e pronte a tessere una rete di clientele piccole e grandi.
Quanto sopra detto viene attestato dalla realtà psico/sociologica dell’apparato di potere organizzato da Stalin una volta padrone del partito. Egli realizzò l’immissione nella burocrazia (sempre più consistente, potente e famelica) di una soverchiante massa di persone sostanzialmente incolte, provenienti da famiglie operaie e contadine analfabete, del tutto estranee al mondo della cultura russa, a essa ostili e pronti a trasformare in desiderio di vendetta l’invidia e il rancore sedimentati in precedenza. Con gente simile sia i non-bolscevichi, tacciabili di essere borghesi, sia i bolscevichi di ben altro livello non avevano da spettarsi nulla di buono nè smagliature buoniste, trattandosi di gente che a Stalin tutto doveva, altro aveva da aspettarsi, e quindi gli era fedele.
In era staliniana si consolidò il processo di trasformazione del materialismo storico di Marx in materialismo dialettico, lestamente dogmatizzato. In termini ideologici il materialismo dialettico – almeno per chi non ci crede – è rivelatore di un’impostazione religiosa rovesciata, per il fatto di attribuirsi alla materia caratteri degni di uno spirito agente, di un’anima mundi o di un lógos, capovolgendo il materialismo storico in idealismo materiale.  
Assolutizzata e imposta alla società dell’Urss, questa componente ideologica (al pari delle altre) per imporsi e per sostenersi aveva bisogno vitale dei suoi eretici, eterodossi e dissidenti, facendo calare (per necessitata conseguenza) una cappa di piombo sulle dinamiche culturali. Talché in politica, in economia, in arte, nelle scienze, in filosofia, nei costumi ecc. ad assumere rilievo essenziale non erano dicotomie tipo vero/falso, esatto/erroneo, giusto/ingiusto, bensì – come accade nelle Chiese e nelle organizzazioni religiose rigide o anelastiche – la dicotomia conforme/difforme, ortodosso/eterodosso, rispetto alla linea del partito. Qui però con una complicazione: la risaputa tendenza di Stalin a piegare la strategia alla tattica faceva sì che le linee fissate dal partito (cioè da lui) erano contingenti e ad alto tasso di variabilità. Con la conseguenza che per gli “zeloti” di una linea precedente – quando nella fase successiva non venivano fucilati – le porte del Gulag erano sempre aperte. Gente pre-condannata a essere martirizzata; ma le Chiese insegnano che il sangue dei martiri è semente. In questo caso – con un ulteriore rovesciamento – doveva a esserlo proprio a favore di chi lo faceva spargere.

Il “sole ingannatore”
Come lo zar della tradizione moscovita non era assoggettato ad alcuna legge umana (nemmeno alla sua), e per quelle divine se la vedeva direttamente con Dio, così Stalin realizzò il suo dispotismo in spregio totale alle stesse Costituzioni dell’Urss. In tal modo ponendosi (e facendosi osannare) come una sorta di “mandatario del Cielo” (per dirla alla cinese), pur trattandosi di un Cielo vuoto, in base all’ateismo ufficiale. I profondi sconvolgimenti nella vita sociale in Urss avvenuti durante il suo dominio lo facevano apparire - in quanto motore di questo vasto titanismo  che abbatteva e ricreava - come il Demiurgo dell’atteso Mondo nuovo; come colui che muove e decide, lasciando agli altri la “libertà” di operare secondo le linee da lui indicate. Lui era il fattore indispensabile per dare corpo all’Eden socialista, talché Marx finiva con l’essere il Giovanni Battista del Socialismo e Lenin un Messia offuscato da un Vicario senza il quale la sua opera avrebbe avuto ben scarso futuro.
Proprio come accade nel quadro della predestinazione religiosa, nell’ottica stalinista l’essere umano da soggetto agente diventava strumento operativo di una forza incommensurabile che lo trascende e lo schiaccia se vuole separarsene, poiché essa è proiettata a essere totalizzante.
In fondo è come se Stalin - a un certo punto diventato più grande-russo dei russi etnici e degli slavofili del sec. XIX - avesse voluto creare e imporre una propria “Quarta Roma”, ma dai tratti deformati. Essa è finita nella sanguinosa pattumiera della Storia. Poco male, direbbe un cinico. Ma oltre a 20-30 milioni di morti causati dalla repressione e dalla fame programmata per schiantare le resistenze dei contadini (come in Ucraina) resta in piedi il lascito negativo di Stalin (e del bolscevismo) consistente nell’identificazione (lestamente ripresa dal nemico di classe) fra il sistema realizzato in Russia a partire dal 1917 - e poi esteso ai paesi del “socialismo reale” - e il comunismo, mentre esso, per ragioni di ideologia e di spirito, nulla ha a che vedere con il comunismo e col marxismo, in termini sociali, economici, politici e culturali. 
Dostoevskij, che era un vero cristiano, disse che il Paradiso è qui; per Stalin (come per le dottrine ecclesiastiche) esso è di là da venire, e nella sua attesa regna l’inferno.

* Per il suo pensiero si rinvia all’articolo da noi scritto per questo stesso blog: “Trionfalismi e preoccupazioni in santi ‘ideologi’. Esempi da Occidente e Oriente”.


[1] J. Stalin, Opere scelte, Edizioni in lingue estere di Mosca, Mosca 1949, vol. I, pagg. 15-18.

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