4. La complementarietà di centrosinistra e centrodestra nella
formazione del regime postdemocratico italiano.
Il nocciolo della questione è che quel che accade in questi mesi è
l’epilogo del cambiamento della costituzione materiale della Repubblica
verificatosi nel corso degli anni Novanta. Ma a quali
forze politiche va attribuito questo cambiamento? Si identifica con la
costruzione di un particolare regime berlusconiano? Oppure, se ad esso hanno
contribuito sia il centrodestra sia il centrosinistra, come si ripartiscono le
responsabilità?
È utile un
minimo di periodizzazione. Nell’ultimo decennio del secolo scorso il
centrodestra governò per complessivi 286 giorni, ma il centrosinistra nel senso
stretto governò per 1816 giorni, che salgono a 2211 se si conta anche il
governo «tecnico» di Dini (appoggiato dal centrosinistra, dalla Lega nord e dal
centro democristiano, con l’astensione del berlusconiano Polo delle libertà).
Dal 1994 al novembre 2011 il centrodestra ha governato per complessivi 3300
giorni, il centrosinistra per 2538 giorni, o 2933 contando Dini.
Se si ha il coraggio di guardare in
faccia «l’arido vero», questi numeri, ai quali si potrebbero aggiungere quelli
dei governi nelle singole regioni (dove Prc, Pdci, Verdi, Sel hanno avuto o
hanno consiglieri, assessori e anche un Presidente regionale in governi di
centrosinistra), ci dicono che negli
ultimi anni l’Italia è stata governata in modo quasi equivalente da entrambe le
coalizioni. A fronte di questi dati di fatto elementari solo la stabilità
della leadership del centrodestra e la continuità di governo nel 2001-2006
(un’intera legislatura, ma la precedente era stata tutta del centrosinistra)
possono spiegare come il buon elettore di sinistra masochisticamente rassegnato al meno peggio possa vedere in
Berlusconi il nemico assoluto.
Il cambiamento è
stato dunque opera tanto dei partiti del centrodestra quanto del
centrosinistra: il sistema dei partiti ha più
che mai agito come l’autentico sovrano, decidendo in piena
autonomia (con l’attiva tutela del Presidente Scalfaro) su questioni della
massima importanza e in assenza di un processo costituente di natura
democratica. Nei partiti la funzione di governo ha del tutto soverchiato quella
rappresentativa: ciò sia dal lato borghese, con la fine della vecchia Dc, sia e
in modo ancor più determinante, con la mutazione dell’ex Pci e dei suoi
frammenti.
Per quel che riguarda lo specifico apporto
del centrodestra alla mutazione della democrazia rappresentativa italiana e dell’equilibrio
costituzionale tra i poteri dello Stato, per ampio consenso si può dire che la
sua peculiarità scaturisca dal conflitto d’interessi in cui è coinvolto Berlusconi.
Ciò si può sintetizzare:
a) nel conflitto permanente con settori della
magistratura, l’intento di limitarne l’autonomia, il lungo elenco di leggi ad personam e miranti a garantire
l’immunità per le più alte cariche dello Stato tra le quali, fatto inedito, è
inclusa quella di Presidente del consiglio dei ministri;
b) nell’inedito assommarsi di una posizione
dominante nell’industria privata dello spettacolo e della comunicazione con il
controllo della televisione di Stato che, indipendentemente dagli effetti reali
sulle scelte elettorali dei cittadini, costituisce un’ulteriore e grave
minaccia alla libertà dell’informazione e culturale o, in termini più generali,
con l’assommarsi di potere politico, economico e televisivo;
c) nell’esasperata personalizzazione della
gestione politica, connotata sovente come populistica e plebiscitaria,
concretizzatasi nella legge costituzionale del 2005, bocciata dal referendum
del 2006. Accantonando l’importante tema del federalismo, nel senso della
concentrazione personale del potere erano rilevanti in quella legge le norme
relative all’obbligo del Presidente della Repubblica di nominare capo del
governo il candidato della maggioranza, all’ampliamento enorme dei poteri del
primo ministro, le disposizioni antiribaltone.
Per quel che riguarda l’equilibrio tra i
poteri dello Stato e la svalutazione della certezza e uguaglianza nel diritto, il
centrodestra ha indubbiamente dimostrato di avere un disegno (abbastanza)
organico, perseguito con la massima tenacia, alimentato da una retorica dai
toni «sovversivi» nei confronti di settori della magistratura, dalla
celebrazione carismatica della figura di Berlusconi, dalla pretesa demagogica e
in effetti antirappresentativa che il capo del governo e la sua maggioranza
rappresentino la volontà popolare. Il tutto reso più grave dal saldarsi,
specialmente quando al governo, della forte posizione oligopolistica
nell’industria privata della comunicazione e dello spettacolo con la gestione
della televisione di Stato. E, ovviamente, il garantismo solo per i potenti
suona come un impulso alla corruzione e addirittura come la copertura
dell’affarismo a fini privati da parte degli stessi detentori di cariche
pubbliche (l’uso patrimonialistico dello Stato). La spettacolarizzazione e
personalizzazione della politica, i limiti alla rappresentanza dei diversi
orientamenti presenti nella cittadinanza, la concentrazione del potere
nell’esecutivo, la degradazione delle garanzie giuridiche, la corruzione,
insomma tutti quegli aspetti presenti anche in altri paesi si presentano
esasperati nella prassi del centrodestra.
Nell’insieme l’azione del centrodestra
configura una trasformazione che per la sua portata politica (non per i
dettagli istituzionali) è equiparabile a quella della quinta Repubblica francese,
all’avvento del regime gollista nel 1958.
Tuttavia il progetto più organico del
centrodestra, la legge di riforma della Costituzione approvata a maggioranza
nel 2005, venne bocciata dai cittadini nel referendum dell’anno seguente (il
61% dei votanti fu contrario, ma 47% di astenuti). Non solo: il centrosinistra
ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione postdemocratica e
semipresidenzialistica del sistema politico italiano.
Occorre infatti considerare quanto segue:
a) l’inazione da parte del centrosinistra,
quando poteva farlo, in materia di conflitto d’interesse;
b) che il Pds a suo tempo fu determinante
nella vittoria del referendum che impose la svolta maggioritaria e
antirappresentativa contro il sistema elettorale proporzionale, con ciò
alimentando la demagogia contrattualistica, la personalizzazione della politica
e, quindi, la sua spettacolarizzazione;
c) l’approvazione da parte del centrosinistra
delle riforme elettorali per le elezioni comunali, provinciali e regionali, in
forza delle quali i sindaci e i presidenti delle province e delle regioni sono
eletti direttamente, sono dotati di poteri prevalenti rispetto ai consigli e
per cui vige il principio aut simul stabunt aut simul
cadent secondo
cui se il presidente è sfiduciato automaticamente il consiglio viene sciolto.
In altri termini, al di sotto del livello nazionale il centrosinistra ha
condiviso la logica semipresidenziale del centrodestra, inclusa la norma antiribaltone, che era
propria della legge costituzionale respinta dal referendum del 2006. Del resto,
nel 1999 Veltroni si era orientato verso la blindatura della maggioranza
parlamentare attraverso analoga norma antiribaltone (facendosi anche
bacchettare da Giovanni Sartori per l’enfasi sulla stabilità rispetto alla
governabilità).
c) Personalizzazione e verticalizzazione
della politica non sono affatto estranei al centrosinistra: la tendenza
presidenzialistica esiste anche nei partiti, inclusi quelli post-Pci. Semmai,
il problema del centrosinistra è che esso non è riuscito a dotarsi di una
figura altrettanto stabile e carismatica. Certamente il centrosinistra partiva
svantaggiato rispetto a Berlusconi, che per la spettacolarizzazione politica
disponeva già di mezzi potenti, muovendosi, per così dire, nel proprio campo. Ma
la ragione è essenzialmente politica: risiede nell’unità di direzione che il
centrodestra ha avuto fin dall’inizio in forza di una maggiore omogeneità
politica;
d) quanto allo Stato di diritto, il Pci aveva
già enormi responsabilità nell’attacco al garantismo in nome del «il fine
giustifica i mezzi», a partire dall’approvazione della legge Reale nel 1975 e
dalla criminalizzazione del movimento del 1977, fino all’approvazione delle
norme e della prassi che delinearono un sottosistema penale d’eccezione antigarantistico;
è poi da ricordarsi che il cosiddetto lodo Schifani scaturì da un emendamento
estensivo al lodo Maccanico (della Margherita) relativo alla sospensione dei
processi penali alle più alte cariche dello Stato.
e) il centrosinistra (e prima il Pci, poi i
partiti post-Pci) ha pienamente condiviso l’insulto alla volontà popolare
espressa dai risultati del referendum contro il finanziamento pubblico ai
partiti, mezzo e motivo potentissimo per la statalizzazione degli stessi;
f) se il centrodestra è caratterizzato da un
partito visceralmente xenofobo, fino al grottesco e all’irresponsabilità
istituzionale (si ricordi la tragica vicenda della maglietta mostrata in tv
dall’allora ministro Calderoli), e all’invenzione di quella mostruosità che è
il reato di «immigrazione illegale» e ai vantati accordi con il tiranno libico,
fu il centrosinistra a istituire i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la
legge Turco-Napolitano del 1998.
Se dal campo dello Stato di diritto e
dell’equilibrio dei poteri dello Stato ci spostiamo verso quelli dei diritti
socioeconomici, del rapporto tra Stato ed economia, e della politica
internazionale, è invece il centrosinistra a detenere il primato assoluto.
Nell’ultima
decade del secolo scorso fu il centrosinistra ad essere il protagonista della
ridefinizione dei rapporti tra Stato (imperialistico), capitalismo italiano e
capitalismi europei, attuato intorno alle privatizzazioni dell’industria e
delle banche pubbliche e alla manovra di convergenza sui parametri di Maastricht
come condizione per l’entrata nel nuovo sistema monetario europeo, con quel che
comportava quanto a livelli di disoccupazione, precarizzazione del lavoro,
relazioni industriali, riforma delle pensioni. In quel periodo il
centrosinistra e i suoi governi nazionali ebbero anche l’appoggio di
Rifondazione comunista, non continuativo, e la diretta partecipazione
ministeriale dei Verdi e del Pdci (fondato,
come scissione del Prc, per sostenere il governo Prodi, dopo la precedente
scissione degli ingraiani doc come Lucio Magri per sostenere il governo Dini
nel 1995). È stato il centrosinistra, non il centrodestra, a realizzare le più
importanti «riforme» dette «neoliberistiche».
Ed è stato il
nuovo centrosinistra ad agire, in occasione della guerra contro la Serbia,
contro il dettato costituzionale dell’articolo 11, «L'Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali». A parte il vero e proprio colpo
di Stato, è difficile immaginare un più forte colpo alla Costituzione e alla
sovranità popolare di quello portato dalla decisione presa dal primo governo
D’Alema di partecipare all’intervento militare Nato. In quel governo il Partito
dei comunisti italiani e i Verdi avevano ciascuno due ministri (compreso
Oliviero Diliberto) e tre sottosegretari: partiti e individui che, al di là di
ogni ipocrita distinguo, portano interamente sulle loro spalle la
responsabilità politica di aver continuato a sostenere e a far parte del governo
di guerra. Questa responsabilità si estende anche al Partito della rifondazione
comunista da quando, dopo aver votato la fiducia al governo imperialistico di
Prodi in cui era ministro Paolo, nel luglio 2006 votò anche per le sedicenti
«missioni di pace». Su scala miserabile quello fu il 4 agosto dei post-Pci e un
altro terribile colpo al valore rappresentativo del Parlamento: il venir meno
di ogni opposizione alla guerra e la scelta governista di un partito che della
non-violenza e del pacifismo aveva fatto da poco una bandiera, e che anche per
questo era stato votato, erano l’ultima dimostrazione della degenerazione della
sinistra italiana e dell’involuzione auto-referenziale del sistema dei partiti,
del quale «comunisti» e verdi sono una sottocasta subalterna (1)
Tirando le somme, si
può dire che il centrodestra abbia esteso e, se possibile, abbia peggiorato o tentato di peggiorare quanto già il
centrosinistra aveva realizzato o contemplato tra le possibilità. Ma sono stati
i governi Amato 1° e 2°, Ciampi, Dini, Prodi 1°, D’Alema 1° e 2° a innovare
profondamente la legislazione e i rapporti tra Stato e società in Italia.
Negli anni Novanta è
stato il centrosinistra a costruire, stando al governo, l’ossatura del regime
postdemocratico italiano entro il quale si colloca il governo Monti.
5.
Italia-Europa, andata e ritorno nella postdemocrazia.
Come
quello di Lukas Papademos in Grecia, il governo Monti e le crisi di governo che
hanno accompagnato e accompagneranno lo svolgimento della crisi economica pongono
inquietanti domande circa il valore della democrazia parlamentare e della
sovranità nazionale in Europa. A queste domande ritengo si possa rispondere in
modo coerente solo mettendo da parte la contrapposizione dualistica tra il
livello nazionale e quello europeo e tra capitale finanziario (o monetario) e
produttivo. Occorre anche analizzare il processo di costruzione dell’Unione
europea e dell’eurozona con un’adeguata profondità temporale, cogliendone le
motivazioni propriamente geopolitiche, relative ai rapporti tra gli Stati, in
particolare tra Francia e Germania, e l’orientamento dei diversi capitalismi,
in particolare di quello tedesco, nel processo che ha portato all’unificazione
monetaria e nel quadro da essa determinato.
Gli
sviluppi della crisi hanno ampiamente dimostrato che non esiste un unico
capitalismo europeo e, conseguentemente, un unico imperialismo europeo, non più
di quanto esista un’economia globale caratterizzata dalla
de-territorializzazione del capitale e da un processo di convergenza
socioeconomica dei livelli di sviluppo economico e delle condizioni di vita
(che sia verso il meglio o verso il peggio). La forma più generale e duratura
della dinamica dell’economia mondiale capitalistica è ancora quella dello
sviluppo ineguale e combinato, della riproduzione e trasformazione dei
dislivelli del potere economico e della potenza politica in un sistema che è,
nello stesso tempo, mondiale (che è qualcosa di più della sommatoria di
economie e Stati nazionali) e gerarchizzato, unitario e contraddittorio. Ciò
vale anche sulla scala del continente europeo, dell’Unione europea e
dell’eurozona.
L’unificazione
monetaria non ha fatto altro che dare nuova forma al meccanismo dello sviluppo
ineguale e (altamente) combinato, ricco di interdipendenze, dei diversi
capitalismi del continente. Nei primi anni dell’eurosistema la convergenza dei
tassi d’interesse sembrò mostrare le virtù della rinuncia alla sovranità
monetaria. In effetti, col venir meno della possibilità di svalutazioni
competitive, si aggravavano gli squilibri continentali, che in parte
riproducono la fisiologia dello squilibrio da quasi trent’anni esistente su
scala mondiale. Anche nell’ambito europeo abbiamo infatti un polo esportatore,
quello del capitalismo tedesco e di alcuni altri paesi (della vecchia zona del
marco), la cui competitività è aumentata dalla moneta unica e dalla
compressione dei salari e della domanda interna; e dall’altra parte una serie
di paesi importatori, principalmente mediterranei che, per un breve periodo, si
sono giovati dell’esportazione di capitale dall’area più competitiva e della
riduzione dei tassi d’interesse. La crisi finanziaria iniziata negli Stati
Uniti quindi ha rivelato sia lo squilibrio esistente nell’economia mondiale sia
quello inerente all’Europa. Il trait
d’union è costituito dal prevedibilissimo costo fiscale del salvataggio
delle banche private, nazionali ed estere, che converte la crisi della finanza
privata in crisi del debito sovrano (2).
La
logica del potere di classe prescrive che a pagare i costi della crisi
capitalistica siano le classi dominate europee. Tra queste, il peso maggiore
ricade sulle classi dominate dei capitalismi e degli Stati più deboli. Questo
accadrebbe anche in presenza di monete nazionali, ma il neomercantilismo
dell’area più competitiva, la moneta unica e il monetarismo della Bce,
combinati con l’inesistenza di meccanismi compensativi, la lentezza,
l’inadeguatezza e le condizioni degli «aiuti» e la prospettiva di
costituzionalizzare il pareggio di bilancio, tessono una camicia letale quanto
quella di Nasso. Sicché, potrà essere che l’Ercole europeo finisca per
soccombere, frammentandosi in aree a diverse velocità e/o diverse unità
monetarie.
Sul
piano propriamente politico-istituzionale, l’Unione europea e l’eurosistema
sfuggono a una definizione. È più facile dire cosa non siano che cosa siano:
non sono uno Stato, neanche federale; non sono un’unica entità sociale ed
economica. Non sono apparati che rispondano ai requisiti minimi di uno Stato
parlamentare liberaldemocratico. Unione europea ed eurosistema sono strutture
chiaramente e fortemente postdemocratiche: si valgono della retorica liberale e
sono il quadro entro cui si collocano Stati parlamentari, ma non rispondono a
quei criteri di rappresentatività e responsabilità politica che, almeno
formalmente, caratterizzano i regimi liberaldemocratici; l’Unione ha tentato di
legittimarsi dotandosi di un Parlamento europeo il quale, però, non detiene
affatto i poteri di un parlamento nazionale. Nella crisi esso spicca per
mutismo e inconsistenza politica.
Il
nocciolo duro dell’Unione europea è costituito dai governi nazionali e dai loro
delegati; e da quell’ampia burocrazia europeista che, pur avendo una propria
logica d’apparato (più o meno) sovranazionale ed espansiva, in definitiva deve
la propria esistenza a quella dei governi nazionali.
È
sbagliato pensare che la postdemocrazia europea proceda unilateralmente
dall’alto (dell’élite paneuropea) verso il basso (degli Stati nazionali). C’è
un’interazione, ma il movimento decisivo è semmai inverso, dagli Stati verso l’alto.
La spinta a superare lo stallo, le diatribe e la
crisi quasi fatale dell’ambito europeo è venuta dalla Francia (quella
socialista di François Mitterrand), in accordo con
la Germania (quella democristiana di Helmut Kohl). All’origine dell’unificazione
monetaria fu infatti uno scambio politico tra Francia e Germania: la prima
accettava la riunificazione della Germania dopo il crollo della Ddr, la seconda
accettava di intraprendere un percorso che avrebbe portato alla fine del deutsche mark e di farsi imbrigliare,
per così dire, in un ambito istituzionale inter-statale
(piuttosto che autenticamente sovranazionale). Scambio, peraltro, non
simmetrico, giacché la Germania spuntava comunque che la Banca centrale europea
fosse costruita sul modello della Bundesbank (recalcitrante all’unificazione
monetaria), il cui obiettivo è la stabilità dei prezzi in funzione di una
politica neomercantilista d’esportazione (nel caso tedesco caratterizzata anche
da un alto livello di centralizzazione della contrattazione) (3). Anche ora il
destino dell’Unione è principalmente nelle mani dei governanti francesi e
tedeschi.
Ancor
più importante è un altro processo di cui si ha forse minor consapevolezz; o,
perlomeno, pare insufficiente la comprensione delle relazioni e della reciproca
influenza tra il livello paneuropeo e quello nazionale. Intendo dire che non è
la cosiddetta eurocrazia che ha ristretto gli spazi democratici nazionali ma,
viceversa, è il procedere della trasformazione in senso postdemocratico dei
sistemi politici nazionali che ha reso possibile un determinato disegno
istituzionale, funzionamento e orientamento politico delle istituzioni europee.
Queste, quindi, devono essere viste come la proiezione, formalizzata e perciò
anche potenziata, del movimento postdemocratico delle realtà politiche
nazionali.
Ne
consegue anche che, piuttosto di parlare di attentato alla sovranità nazionale da parte delle istituzioni
europee (Commissione, Bce) e internazionali (Fmi), bisognerebbe partire dal
fatto che la sovranità popolare
(nozione già in sé discutibile) è in realtà già stata assorbita dai sistemi
partitico-statali nazionali, autentici sovrani oligarchici.
D’altra
parte, fin dall’inizio la storia delle Comunità e delle istituzioni europee
(del carbone e dell’acciaio, dell’energia atomica, il Mercato comune europeo,
la Comunità economica, fino alla Bce) fu fortemente verticistica e opaca,
volutamente distante dalle istituzioni elettive, regno del funzionalismo presuntamente
tecnico e delle mediazioni segrete, dedalo di normative e di lobbies, connubio
di politica e capitale. Quanto a lobbies non mi riferisco solo al capitale
finanziario ma al fior fiore del capitale industriale del continente. Quella
che probabilmente è la lobby più influente, l’European round table of
industrialists (Ert, tra i cui promotori figurava nel 1983 Umberto Agnelli)
comprende 45 presidenti e Ceo delle principali multinazionali europee che, a
quanto dichiarano, danno lavoro a 6,6 milioni di persone nel continente; i
rapporti tra l’Ert e la Commissione europea pare siano stati particolarmente
calorosi e politicamente fruttuosi durante la lunga e decisiva presidenza del
socialista francese Jacques Delors (1984-1995) e si sono in certa misura istituzionalizzati
attraverso la partecipazione di esponenti dell’Ert in un gruppo di lavoro
ufficiale dell’Ue, il Competitiveness advisory group,
il cui primo rapporto del 1995 fu firmato da Carlo Azeglio Ciampi (4). Non è questione di
«governo delle banche» ma di capitale multinazionale sia industriale che
bancario.
Con
questo non intendo dire che le istituzioni europee siano state strumentalizzate
dal capitale attraverso la conquista d’influenza e l’occupazione di posti ma
che esse sono intrinsecamente capitalistiche: per struttura e per regole esse
sono state determinate in modo da assicurare tanto la mediazione tra i diversi
Stati capitalistici quanto la mediazione politica con il grande capitale con
interessi continentali e mondiali. Il livello europeo, in altri termini, è da
sempre quello in cui la mediazione politica in funzione dell’accumulazione del
capitale (essenzialmente delle grandi società oligopolistiche e multinazionali)
può svolgersi tutta all’interno della classe dominante, del suo personale
economico, politico e accademico, prescindendo dalla mediazione verso il basso
che può essere necessaria per assicurarsi un consenso elettorale. Le
istituzioni europee sono state la prima forma embrionale della postdemocrazia
ma hanno tratto linfa vitale e forma definitiva dal terreno nazionale, sia che
i governanti fossero di centrodestra sia che fossero di centrosinistra. Tra il
livello europeo e quello nazionale ora tende a chiudersi un circuito, di cui il
governo Monti con appoggio bipartitico è un bell’esempio.
Se
sul piano dei singoli Stati le radici della trasformazione postdemocratica dei
sistemi politici precedono l’unificazione monetaria, essendo esse il risultato
dall’evoluzione dei rapporti tra Stati e società (capitalistiche) nazionali nel
corso del secondo dopoguerra e della progressiva statalizzazione dei partiti,
in particolare di quelli di sinistra, e se tempi,
modi e intensità del fenomeno sono diversi per ciascun paese, si può dire che
il punto di non ritorno e la generalizzazione del fenomeno si collocano negli
anni Novanta del secolo scorso, in concomitanza con il rilancio dell’Unione e
con la decisione dell’unificazione monetaria. L’unificazione monetaria è
stata, a sua volta, l’impulso e il quadro nel quale il mutamento postdemocratico
si è compiuto.
Conclusione.
Da
quanto sopra risulta, sul piano interpretativo, che la compromissione dello
Stato di diritto e il degrado dei diritti sociali non conseguono solo o
essenzialmente dall’occupazione del potere da parte di Berlusconi e soci e che
i cambiamenti nella statualità dei paesi europei non possono essere imputati
solo o essenzialmente all’utilizzo strumentale (o più rozzamente
patrimoniale) dei poteri statali da parte di forze politiche neoliberistiche o
di destra o criminalmente rapaci, nazionali e internazionali.
Questo
strumentalismo è l’ultima espressione dell’attaccamento ideologico della
sinistra post-comunista (post-Pci in Italia) al mito e all’eterna e frustrata
speranza di sviluppi più o meno progressivi e partecipativi che mutino la
natura sociale
dello Stato capitalistico.
Lo strumentalismo è miope
nella capacità di definire i processi della trasformazione politica nel tempo e
nello spazio. Non può vedere le radici pluridecennali, molteplici,
internazionali e strutturali delle trasformazioni e della crisi strisciante
della cosiddetta rappresentanza parlamentare. Non può accettare che in Europa
sia giunta al termine l’epoca del parlamentarismo e, ancor peggio, che questa
fine coincida con la fine di un’epoca della storia del movimento operaio e
socialista e dei partiti e dei sindacati che ha espresso.
Lo strumentalismo è
ipocritamente unilaterale perché pone in secondo piano o elude il fatto che i partiti di
centrosinistra storicamente hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione
del regime postdemocratico e all’attacco ai diritti sociali.
Lo strumentalismo ipocrita, unilaterale e miope della sinistra ha però una
motivazione politica, che sia confessata oppure nascosta nella fraseologia
emergenziale e apparentemente movimentista e ribellista: la necessità di realizzare,
al momento elettorale opportuno, accordi di collaborazione subalterna con il
centrosinistra, ammesso che questo ancora ritenga in qualche misura utile
accordi del genere. Oppure si tratta semplicemente di discorsi destinati a
finire nel nulla perché non rispondenti alla realtà.
Non
si tratta di difendere la patria ma di battere innanzitutto il nemico in casa
propria: è per questa via che si può costruire un movimento reale e popolare
contro gli imperialismi europei.
Note.
1) Si veda I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale»,
Massari editore, Bolsena 2007,
a cura di Roberto Massari.
2) Si vedano i dati riportati nella mia
prima nota sulla crisi del marzo 2009, «La crisi nel contesto
storico e la neo-ortodossia di Obama», ripresi da «Systemic
banking crises: a new database», di Luc Laeven e Fabian Valencia, Imf Working paper, ottobre 2008.
3) Sulla storia e il mito
della Bundesbank dalle origini all’euro: Jeremy Leaman, The Bundesbank mith. Towards a critique of central bank independence,
Palgrave, Basingstoke e New York 2001. La questione del rapporto tra Bundesbank
e politica è stata recentemente ripresa da Marcello De Cecco, di cui riporto la
conclusione:
«Da tutto quel che sopra ho
narrato, appare chiaro che le autorità monetarie tedesche sono quanto di più
politicizzato sia disponibile in Europa attualmente nel settore. Le loro
talvolta travagliate vicende indicano come la Buba e il circolo più ampio dei
suoi sostenitori sia soggetto a oscillazioni nella capacità che ha di
indirizzare la politica economica in Germania e di controllare la Bce. Sono,
tali vicende, anche il riflesso delle lotte di potere che si conducono
all’interno della classe dirigente tedesca. Un blocco informale di opinione e
di potere che riunisce la gran parte degli economisti accademici tedeschi, la
Corte Costituzionale Federale, una parte non trascurabile di grandi importatori
tedeschi, specie nel campo dell’energia, che vorrebbe una politica nazionale
verso la Russia e gli altri produttori di petrolio e gas orientali, e i grandi
giornali popolari, nazionalisti e conservatori, si muove abbastanza
scompostamente ma con decisione per favorire e spesso contrastare le azioni
della politica, in particolare per quanto riguarda i problemi dell’Euro e del
debito sovrano europeo. La Buba cerca di influenzare a suo vantaggio le azioni
di tale blocco»; da «Quella lobby della Buba», Affari e Finanza di Repubblica, 23 gennaio 2012.
4)
Si vedano il sito dell’Ert http://www.ert.eu/default/en-us.aspx e il rapporto
del Corporate
Europe Observatory, Europe Inc. Regional and global restructuring and the rise of corporate
power, Pluto press, London 2003.
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