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martedì 20 marzo 2012

IL GOVERNO MONTI E IL CONSENSO BIPARTITICO NELLA POSTDEMOCRAZIA ITALIANA (Seconda parte), di Michele Nobile


4. La complementarietà di centrosinistra e centrodestra nella formazione del regime postdemocratico italiano.

Il nocciolo della questione è che quel che accade in questi mesi è l’epilogo del cambiamento della costituzione materiale della Repubblica verificatosi nel corso degli anni Novanta. Ma a quali forze politiche va attribuito questo cambiamento? Si identifica con la costruzione di un particolare regime berlusconiano? Oppure, se ad esso hanno contribuito sia il centrodestra sia il centrosinistra, come si ripartiscono le responsabilità?

È utile un minimo di periodizzazione. Nell’ultimo decennio del secolo scorso il centrodestra governò per complessivi 286 giorni, ma il centrosinistra nel senso stretto governò per 1816 giorni, che salgono a 2211 se si conta anche il governo «tecnico» di Dini (appoggiato dal centrosinistra, dalla Lega nord e dal centro democristiano, con l’astensione del berlusconiano Polo delle libertà). Dal 1994 al novembre 2011 il centrodestra ha governato per complessivi 3300 giorni, il centrosinistra per 2538 giorni, o 2933 contando Dini.
Se si ha il coraggio di guardare in faccia «l’arido vero», questi numeri, ai quali si potrebbero aggiungere quelli dei governi nelle singole regioni (dove Prc, Pdci, Verdi, Sel hanno avuto o hanno consiglieri, assessori e anche un Presidente regionale in governi di centrosinistra), ci dicono che negli ultimi anni l’Italia è stata governata in modo quasi equivalente da entrambe le coalizioni. A fronte di questi dati di fatto elementari solo la stabilità della leadership del centrodestra e la continuità di governo nel 2001-2006 (un’intera legislatura, ma la precedente era stata tutta del centrosinistra) possono spiegare come il buon elettore di sinistra masochisticamente rassegnato al meno peggio possa vedere in Berlusconi il nemico assoluto. 
Il cambiamento è stato dunque opera tanto dei partiti del centrodestra quanto del centrosinistra: il sistema dei partiti ha più che mai agito come l’autentico sovrano, decidendo in piena autonomia (con l’attiva tutela del Presidente Scalfaro) su questioni della massima importanza e in assenza di un processo costituente di natura democratica. Nei partiti la funzione di governo ha del tutto soverchiato quella rappresentativa: ciò sia dal lato borghese, con la fine della vecchia Dc, sia e in modo ancor più determinante, con la mutazione dell’ex Pci e dei suoi frammenti.


Per quel che riguarda lo specifico apporto del centrodestra alla mutazione della democrazia rappresentativa italiana e dell’equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato, per ampio consenso si può dire che la sua peculiarità scaturisca dal conflitto d’interessi in cui è coinvolto Berlusconi. Ciò si può sintetizzare:
a) nel conflitto permanente con settori della magistratura, l’intento di limitarne l’autonomia, il lungo elenco di leggi ad personam e miranti a garantire l’immunità per le più alte cariche dello Stato tra le quali, fatto inedito, è inclusa quella di Presidente del consiglio dei ministri;
b) nell’inedito assommarsi di una posizione dominante nell’industria privata dello spettacolo e della comunicazione con il controllo della televisione di Stato che, indipendentemente dagli effetti reali sulle scelte elettorali dei cittadini, costituisce un’ulteriore e grave minaccia alla libertà dell’informazione e culturale o, in termini più generali, con l’assommarsi di potere politico, economico e televisivo;
c) nell’esasperata personalizzazione della gestione politica, connotata sovente come populistica e plebiscitaria, concretizzatasi nella legge costituzionale del 2005, bocciata dal referendum del 2006. Accantonando l’importante tema del federalismo, nel senso della concentrazione personale del potere erano rilevanti in quella legge le norme relative all’obbligo del Presidente della Repubblica di nominare capo del governo il candidato della maggioranza, all’ampliamento enorme dei poteri del primo ministro, le disposizioni antiribaltone. 

Per quel che riguarda l’equilibrio tra i poteri dello Stato e la svalutazione della certezza e uguaglianza nel diritto, il centrodestra ha indubbiamente dimostrato di avere un disegno (abbastanza) organico, perseguito con la massima tenacia, alimentato da una retorica dai toni «sovversivi» nei confronti di settori della magistratura, dalla celebrazione carismatica della figura di Berlusconi, dalla pretesa demagogica e in effetti antirappresentativa che il capo del governo e la sua maggioranza rappresentino la volontà popolare. Il tutto reso più grave dal saldarsi, specialmente quando al governo, della forte posizione oligopolistica nell’industria privata della comunicazione e dello spettacolo con la gestione della televisione di Stato. E, ovviamente, il garantismo solo per i potenti suona come un impulso alla corruzione e addirittura come la copertura dell’affarismo a fini privati da parte degli stessi detentori di cariche pubbliche (l’uso patrimonialistico dello Stato). La spettacolarizzazione e personalizzazione della politica, i limiti alla rappresentanza dei diversi orientamenti presenti nella cittadinanza, la concentrazione del potere nell’esecutivo, la degradazione delle garanzie giuridiche, la corruzione, insomma tutti quegli aspetti presenti anche in altri paesi si presentano esasperati nella prassi del centrodestra.
Nell’insieme l’azione del centrodestra configura una trasformazione che per la sua portata politica (non per i dettagli istituzionali) è equiparabile a quella della quinta Repubblica francese, all’avvento del regime gollista nel 1958.
Tuttavia il progetto più organico del centrodestra, la legge di riforma della Costituzione approvata a maggioranza nel 2005, venne bocciata dai cittadini nel referendum dell’anno seguente (il 61% dei votanti fu contrario, ma 47% di astenuti). Non solo: il centrosinistra ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione postdemocratica e semipresidenzialistica del sistema politico italiano.
Occorre infatti considerare quanto segue:
a) l’inazione da parte del centrosinistra, quando poteva farlo, in materia di conflitto d’interesse;
b) che il Pds a suo tempo fu determinante nella vittoria del referendum che impose la svolta maggioritaria e antirappresentativa contro il sistema elettorale proporzionale, con ciò alimentando la demagogia contrattualistica, la personalizzazione della politica e, quindi, la sua spettacolarizzazione;
c) l’approvazione da parte del centrosinistra delle riforme elettorali per le elezioni comunali, provinciali e regionali, in forza delle quali i sindaci e i presidenti delle province e delle regioni sono eletti direttamente, sono dotati di poteri prevalenti rispetto ai consigli e per cui vige il principio aut simul stabunt aut simul cadent secondo cui se il presidente è sfiduciato automaticamente il consiglio viene sciolto. In altri termini, al di sotto del livello nazionale il centrosinistra ha condiviso la logica semipresidenziale del centrodestra, inclusa la norma antiribaltone, che era propria della legge costituzionale respinta dal referendum del 2006. Del resto, nel 1999 Veltroni si era orientato verso la blindatura della maggioranza parlamentare attraverso analoga norma antiribaltone (facendosi anche bacchettare da Giovanni Sartori per l’enfasi sulla stabilità rispetto alla governabilità).
c) Personalizzazione e verticalizzazione della politica non sono affatto estranei al centrosinistra: la tendenza presidenzialistica esiste anche nei partiti, inclusi quelli post-Pci. Semmai, il problema del centrosinistra è che esso non è riuscito a dotarsi di una figura altrettanto stabile e carismatica. Certamente il centrosinistra partiva svantaggiato rispetto a Berlusconi, che per la spettacolarizzazione politica disponeva già di mezzi potenti, muovendosi, per così dire, nel proprio campo. Ma la ragione è essenzialmente politica: risiede nell’unità di direzione che il centrodestra ha avuto fin dall’inizio in forza di una maggiore omogeneità politica;
d) quanto allo Stato di diritto, il Pci aveva già enormi responsabilità nell’attacco al garantismo in nome del «il fine giustifica i mezzi», a partire dall’approvazione della legge Reale nel 1975 e dalla criminalizzazione del movimento del 1977, fino all’approvazione delle norme e della prassi che delinearono un sottosistema penale d’eccezione antigarantistico; è poi da ricordarsi che il cosiddetto lodo Schifani scaturì da un emendamento estensivo al lodo Maccanico (della Margherita) relativo alla sospensione dei processi penali alle più alte cariche dello Stato.
e) il centrosinistra (e prima il Pci, poi i partiti post-Pci) ha pienamente condiviso l’insulto alla volontà popolare espressa dai risultati del referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti, mezzo e motivo potentissimo per la statalizzazione degli stessi;
f) se il centrodestra è caratterizzato da un partito visceralmente xenofobo, fino al grottesco e all’irresponsabilità istituzionale (si ricordi la tragica vicenda della maglietta mostrata in tv dall’allora ministro Calderoli), e all’invenzione di quella mostruosità che è il reato di «immigrazione illegale» e ai vantati accordi con il tiranno libico, fu il centrosinistra a istituire i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la legge Turco-Napolitano del 1998. 

Se dal campo dello Stato di diritto e dell’equilibrio dei poteri dello Stato ci spostiamo verso quelli dei diritti socioeconomici, del rapporto tra Stato ed economia, e della politica internazionale, è invece il centrosinistra a detenere il primato assoluto.
Nell’ultima decade del secolo scorso fu il centrosinistra ad essere il protagonista della ridefinizione dei rapporti tra Stato (imperialistico), capitalismo italiano e capitalismi europei, attuato intorno alle privatizzazioni dell’industria e delle banche pubbliche e alla manovra di convergenza sui parametri di Maastricht come condizione per l’entrata nel nuovo sistema monetario europeo, con quel che comportava quanto a livelli di disoccupazione, precarizzazione del lavoro, relazioni industriali, riforma delle pensioni. In quel periodo il centrosinistra e i suoi governi nazionali ebbero anche l’appoggio di Rifondazione comunista, non continuativo, e la diretta partecipazione ministeriale dei Verdi e del Pdci (fondato, come scissione del Prc, per sostenere il governo Prodi, dopo la precedente scissione degli ingraiani doc come Lucio Magri per sostenere il governo Dini nel 1995). È stato il centrosinistra, non il centrodestra, a realizzare le più importanti «riforme» dette «neoliberistiche».

Ed è stato il nuovo centrosinistra ad agire, in occasione della guerra contro la Serbia, contro il dettato costituzionale dell’articolo 11, «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». A parte il vero e proprio colpo di Stato, è difficile immaginare un più forte colpo alla Costituzione e alla sovranità popolare di quello portato dalla decisione presa dal primo governo D’Alema di partecipare all’intervento militare Nato. In quel governo il Partito dei comunisti italiani e i Verdi avevano ciascuno due ministri (compreso Oliviero Diliberto) e tre sottosegretari: partiti e individui che, al di là di ogni ipocrita distinguo, portano interamente sulle loro spalle la responsabilità politica di aver continuato a sostenere e a far parte del governo di guerra. Questa responsabilità si estende anche al Partito della rifondazione comunista da quando, dopo aver votato la fiducia al governo imperialistico di Prodi in cui era ministro Paolo, nel luglio 2006 votò anche per le sedicenti «missioni di pace». Su scala miserabile quello fu il 4 agosto dei post-Pci e un altro terribile colpo al valore rappresentativo del Parlamento: il venir meno di ogni opposizione alla guerra e la scelta governista di un partito che della non-violenza e del pacifismo aveva fatto da poco una bandiera, e che anche per questo era stato votato, erano l’ultima dimostrazione della degenerazione della sinistra italiana e dell’involuzione auto-referenziale del sistema dei partiti, del quale «comunisti» e verdi sono una sottocasta subalterna (1)

Tirando le somme, si può dire che il centrodestra abbia esteso e, se possibile, abbia peggiorato o tentato di peggiorare quanto già il centrosinistra aveva realizzato o contemplato tra le possibilità. Ma sono stati i governi Amato 1° e 2°, Ciampi, Dini, Prodi 1°, D’Alema 1° e 2° a innovare profondamente la legislazione e i rapporti tra Stato e società in Italia.
Negli anni Novanta è stato il centrosinistra a costruire, stando al governo, l’ossatura del regime postdemocratico italiano entro il quale si colloca il governo Monti.

5. Italia-Europa, andata e ritorno nella postdemocrazia.
Come quello di Lukas Papademos in Grecia, il governo Monti e le crisi di governo che hanno accompagnato e accompagneranno lo svolgimento della crisi economica pongono inquietanti domande circa il valore della democrazia parlamentare e della sovranità nazionale in Europa. A queste domande ritengo si possa rispondere in modo coerente solo mettendo da parte la contrapposizione dualistica tra il livello nazionale e quello europeo e tra capitale finanziario (o monetario) e produttivo. Occorre anche analizzare il processo di costruzione dell’Unione europea e dell’eurozona con un’adeguata profondità temporale, cogliendone le motivazioni propriamente geopolitiche, relative ai rapporti tra gli Stati, in particolare tra Francia e Germania, e l’orientamento dei diversi capitalismi, in particolare di quello tedesco, nel processo che ha portato all’unificazione monetaria e nel quadro da essa determinato. 

Gli sviluppi della crisi hanno ampiamente dimostrato che non esiste un unico capitalismo europeo e, conseguentemente, un unico imperialismo europeo, non più di quanto esista un’economia globale caratterizzata dalla de-territorializzazione del capitale e da un processo di convergenza socioeconomica dei livelli di sviluppo economico e delle condizioni di vita (che sia verso il meglio o verso il peggio). La forma più generale e duratura della dinamica dell’economia mondiale capitalistica è ancora quella dello sviluppo ineguale e combinato, della riproduzione e trasformazione dei dislivelli del potere economico e della potenza politica in un sistema che è, nello stesso tempo, mondiale (che è qualcosa di più della sommatoria di economie e Stati nazionali) e gerarchizzato, unitario e contraddittorio. Ciò vale anche sulla scala del continente europeo, dell’Unione europea e dell’eurozona.

L’unificazione monetaria non ha fatto altro che dare nuova forma al meccanismo dello sviluppo ineguale e (altamente) combinato, ricco di interdipendenze, dei diversi capitalismi del continente. Nei primi anni dell’eurosistema la convergenza dei tassi d’interesse sembrò mostrare le virtù della rinuncia alla sovranità monetaria. In effetti, col venir meno della possibilità di svalutazioni competitive, si aggravavano gli squilibri continentali, che in parte riproducono la fisiologia dello squilibrio da quasi trent’anni esistente su scala mondiale. Anche nell’ambito europeo abbiamo infatti un polo esportatore, quello del capitalismo tedesco e di alcuni altri paesi (della vecchia zona del marco), la cui competitività è aumentata dalla moneta unica e dalla compressione dei salari e della domanda interna; e dall’altra parte una serie di paesi importatori, principalmente mediterranei che, per un breve periodo, si sono giovati dell’esportazione di capitale dall’area più competitiva e della riduzione dei tassi d’interesse. La crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti quindi ha rivelato sia lo squilibrio esistente nell’economia mondiale sia quello inerente all’Europa. Il trait d’union è costituito dal prevedibilissimo costo fiscale del salvataggio delle banche private, nazionali ed estere, che converte la crisi della finanza privata in crisi del debito sovrano (2).

La logica del potere di classe prescrive che a pagare i costi della crisi capitalistica siano le classi dominate europee. Tra queste, il peso maggiore ricade sulle classi dominate dei capitalismi e degli Stati più deboli. Questo accadrebbe anche in presenza di monete nazionali, ma il neomercantilismo dell’area più competitiva, la moneta unica e il monetarismo della Bce, combinati con l’inesistenza di meccanismi compensativi, la lentezza, l’inadeguatezza e le condizioni degli «aiuti» e la prospettiva di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, tessono una camicia letale quanto quella di Nasso. Sicché, potrà essere che l’Ercole europeo finisca per soccombere, frammentandosi in aree a diverse velocità e/o diverse unità monetarie.

Sul piano propriamente politico-istituzionale, l’Unione europea e l’eurosistema sfuggono a una definizione. È più facile dire cosa non siano che cosa siano: non sono uno Stato, neanche federale; non sono un’unica entità sociale ed economica. Non sono apparati che rispondano ai requisiti minimi di uno Stato parlamentare liberaldemocratico. Unione europea ed eurosistema sono strutture chiaramente e fortemente postdemocratiche: si valgono della retorica liberale e sono il quadro entro cui si collocano Stati parlamentari, ma non rispondono a quei criteri di rappresentatività e responsabilità politica che, almeno formalmente, caratterizzano i regimi liberaldemocratici; l’Unione ha tentato di legittimarsi dotandosi di un Parlamento europeo il quale, però, non detiene affatto i poteri di un parlamento nazionale. Nella crisi esso spicca per mutismo e inconsistenza politica.

Il nocciolo duro dell’Unione europea è costituito dai governi nazionali e dai loro delegati; e da quell’ampia burocrazia europeista che, pur avendo una propria logica d’apparato (più o meno) sovranazionale ed espansiva, in definitiva deve la propria esistenza a quella dei governi nazionali.
È sbagliato pensare che la postdemocrazia europea proceda unilateralmente dall’alto (dell’élite paneuropea) verso il basso (degli Stati nazionali). C’è un’interazione, ma il movimento decisivo è semmai inverso, dagli Stati verso l’alto. La spinta a superare lo stallo, le diatribe e la crisi quasi fatale dell’ambito europeo è venuta dalla Francia (quella socialista di François Mitterrand), in accordo con la Germania (quella democristiana di Helmut Kohl). All’origine dell’unificazione monetaria fu infatti uno scambio politico tra Francia e Germania: la prima accettava la riunificazione della Germania dopo il crollo della Ddr, la seconda accettava di intraprendere un percorso che avrebbe portato alla fine del deutsche mark e di farsi imbrigliare, per così dire, in un ambito istituzionale inter-statale (piuttosto che autenticamente sovranazionale). Scambio, peraltro, non simmetrico, giacché la Germania spuntava comunque che la Banca centrale europea fosse costruita sul modello della Bundesbank (recalcitrante all’unificazione monetaria), il cui obiettivo è la stabilità dei prezzi in funzione di una politica neomercantilista d’esportazione (nel caso tedesco caratterizzata anche da un alto livello di centralizzazione della contrattazione) (3). Anche ora il destino dell’Unione è principalmente nelle mani dei governanti francesi e tedeschi.

Ancor più importante è un altro processo di cui si ha forse minor consapevolezz; o, perlomeno, pare insufficiente la comprensione delle relazioni e della reciproca influenza tra il livello paneuropeo e quello nazionale. Intendo dire che non è la cosiddetta eurocrazia che ha ristretto gli spazi democratici nazionali ma, viceversa, è il procedere della trasformazione in senso postdemocratico dei sistemi politici nazionali che ha reso possibile un determinato disegno istituzionale, funzionamento e orientamento politico delle istituzioni europee. Queste, quindi, devono essere viste come la proiezione, formalizzata e perciò anche potenziata, del movimento postdemocratico delle realtà politiche nazionali.
Ne consegue anche che, piuttosto di parlare di attentato alla sovranità nazionale da parte delle istituzioni europee (Commissione, Bce) e internazionali (Fmi), bisognerebbe partire dal fatto che la sovranità popolare (nozione già in sé discutibile) è in realtà già stata assorbita dai sistemi partitico-statali nazionali, autentici sovrani oligarchici.

D’altra parte, fin dall’inizio la storia delle Comunità e delle istituzioni europee (del carbone e dell’acciaio, dell’energia atomica, il Mercato comune europeo, la Comunità economica, fino alla Bce) fu fortemente verticistica e opaca, volutamente distante dalle istituzioni elettive, regno del funzionalismo presuntamente tecnico e delle mediazioni segrete, dedalo di normative e di lobbies, connubio di politica e capitale. Quanto a lobbies non mi riferisco solo al capitale finanziario ma al fior fiore del capitale industriale del continente. Quella che probabilmente è la lobby più influente, l’European round table of industrialists (Ert, tra i cui promotori figurava nel 1983 Umberto Agnelli) comprende 45 presidenti e Ceo delle principali multinazionali europee che, a quanto dichiarano, danno lavoro a 6,6 milioni di persone nel continente; i rapporti tra l’Ert e la Commissione europea pare siano stati particolarmente calorosi e politicamente fruttuosi durante la lunga e decisiva presidenza del socialista francese Jacques Delors (1984-1995) e si sono in certa misura istituzionalizzati attraverso la partecipazione di esponenti dell’Ert in un gruppo di lavoro ufficiale dell’Ue, il Competitiveness advisory group, il cui primo rapporto del 1995 fu firmato da Carlo Azeglio Ciampi (4). Non è questione di «governo delle banche» ma di capitale multinazionale sia industriale che bancario.

Con questo non intendo dire che le istituzioni europee siano state strumentalizzate dal capitale attraverso la conquista d’influenza e l’occupazione di posti ma che esse sono intrinsecamente capitalistiche: per struttura e per regole esse sono state determinate in modo da assicurare tanto la mediazione tra i diversi Stati capitalistici quanto la mediazione politica con il grande capitale con interessi continentali e mondiali. Il livello europeo, in altri termini, è da sempre quello in cui la mediazione politica in funzione dell’accumulazione del capitale (essenzialmente delle grandi società oligopolistiche e multinazionali) può svolgersi tutta all’interno della classe dominante, del suo personale economico, politico e accademico, prescindendo dalla mediazione verso il basso che può essere necessaria per assicurarsi un consenso elettorale. Le istituzioni europee sono state la prima forma embrionale della postdemocrazia ma hanno tratto linfa vitale e forma definitiva dal terreno nazionale, sia che i governanti fossero di centrodestra sia che fossero di centrosinistra. Tra il livello europeo e quello nazionale ora tende a chiudersi un circuito, di cui il governo Monti con appoggio bipartitico è un bell’esempio.
Se sul piano dei singoli Stati le radici della trasformazione postdemocratica dei sistemi politici precedono l’unificazione monetaria, essendo esse il risultato dall’evoluzione dei rapporti tra Stati e società (capitalistiche) nazionali nel corso del secondo dopoguerra e della progressiva statalizzazione dei partiti, in particolare di quelli di sinistra, e se tempi, modi e intensità del fenomeno sono diversi per ciascun paese, si può dire che il punto di non ritorno e la generalizzazione del fenomeno si collocano negli anni Novanta del secolo scorso, in concomitanza con il rilancio dell’Unione e con la decisione dell’unificazione monetaria. L’unificazione monetaria è stata, a sua volta, l’impulso e il quadro nel quale il mutamento postdemocratico si è compiuto.

Conclusione.

Da quanto sopra risulta, sul piano interpretativo, che la compromissione dello Stato di diritto e il degrado dei diritti sociali non conseguono solo o essenzialmente dall’occupazione del potere da parte di Berlusconi e soci e che i cambiamenti nella statualità dei paesi europei non possono essere imputati solo o essenzialmente all’utilizzo strumentale (o più rozzamente patrimoniale) dei poteri statali da parte di forze politiche neoliberistiche o di destra o criminalmente rapaci, nazionali e internazionali.

Questo strumentalismo è l’ultima espressione dell’attaccamento ideologico della sinistra post-comunista (post-Pci in Italia) al mito e all’eterna e frustrata speranza di sviluppi più o meno progressivi e partecipativi che mutino la natura sociale dello Stato capitalistico

Lo strumentalismo è miope nella capacità di definire i processi della trasformazione politica nel tempo e nello spazio. Non può vedere le radici pluridecennali, molteplici, internazionali e strutturali delle trasformazioni e della crisi strisciante della cosiddetta rappresentanza parlamentare. Non può accettare che in Europa sia giunta al termine l’epoca del parlamentarismo e, ancor peggio, che questa fine coincida con la fine di un’epoca della storia del movimento operaio e socialista e dei partiti e dei sindacati che ha espresso.

Lo strumentalismo è ipocritamente unilaterale perché pone in secondo piano o elude il fatto che i partiti di centrosinistra storicamente hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione del regime postdemocratico e all’attacco ai diritti sociali.

Lo strumentalismo ipocrita, unilaterale e miope della sinistra ha però una motivazione politica, che sia confessata oppure nascosta nella fraseologia emergenziale e apparentemente movimentista e ribellista: la necessità di realizzare, al momento elettorale opportuno, accordi di collaborazione subalterna con il centrosinistra, ammesso che questo ancora ritenga in qualche misura utile accordi del genere. Oppure si tratta semplicemente di discorsi destinati a finire nel nulla perché non rispondenti alla realtà.

Non si tratta di difendere la patria ma di battere innanzitutto il nemico in casa propria: è per questa via che si può costruire un movimento reale e popolare contro gli imperialismi europei.  

Note.
1) Si veda I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale», Massari editore, Bolsena 2007, a cura di Roberto Massari.
2) Si vedano i dati riportati nella mia prima nota sulla crisi del marzo 2009, «La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama», ripresi da «Systemic banking crises: a new database», di Luc Laeven e Fabian Valencia, Imf Working paper, ottobre 2008.
3) Sulla storia e il mito della Bundesbank dalle origini all’euro: Jeremy Leaman, The Bundesbank mith. Towards a critique of central bank independence, Palgrave, Basingstoke e New York 2001. La questione del rapporto tra Bundesbank e politica è stata recentemente ripresa da Marcello De Cecco, di cui riporto la conclusione:
«Da tutto quel che sopra ho narrato, appare chiaro che le autorità monetarie tedesche sono quanto di più politicizzato sia disponibile in Europa attualmente nel settore. Le loro talvolta travagliate vicende indicano come la Buba e il circolo più ampio dei suoi sostenitori sia soggetto a oscillazioni nella capacità che ha di indirizzare la politica economica in Germania e di controllare la Bce. Sono, tali vicende, anche il riflesso delle lotte di potere che si conducono all’interno della classe dirigente tedesca. Un blocco informale di opinione e di potere che riunisce la gran parte degli economisti accademici tedeschi, la Corte Costituzionale Federale, una parte non trascurabile di grandi importatori tedeschi, specie nel campo dell’energia, che vorrebbe una politica nazionale verso la Russia e gli altri produttori di petrolio e gas orientali, e i grandi giornali popolari, nazionalisti e conservatori, si muove abbastanza scompostamente ma con decisione per favorire e spesso contrastare le azioni della politica, in particolare per quanto riguarda i problemi dell’Euro e del debito sovrano europeo. La Buba cerca di influenzare a suo vantaggio le azioni di tale blocco»; da «Quella lobby della Buba», Affari e Finanza di Repubblica, 23 gennaio 2012.
4) Si vedano il sito dell’Ert http://www.ert.eu/default/en-us.aspx e il rapporto del Corporate Europe Observatory, Europe Inc. Regional and global restructuring and the rise of corporate power, Pluto press, London 2003. 


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