«Bisogna avere molto caos dentro di sé per partorire una stella
danzante...
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E
molto veleno alla fine per morire gradevolmente.
Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si
dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo.
Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono
troppo fastidiose.
Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono
troppo fastidiose.
Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose,
tutti sono eguali:
chi sente diversamente va da sé al manicomio. “Una volta erano
tutti” - dicono i più raffinati e strizzano l’occhio.
Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono
andate le cose: così la materia di scherno è senza fine.
Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per
non guastarsi lo stomaco.
Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte salva
restando la salute.
“Noi abbiamo inventato la felicità”- dicono gli ultimi uomini e
strizzano l’occhio».
Friedrich W. Nietzsche, il dinamitardo di
tutte le morali.
Ando
Gilardi
Arquata Scrivia 1921 — Ponzone 2012
Fotografo, storico, critico della
fotografia sociale
|
Meglio ladro che fotografo...
L’ho conosciuto bene
Ando Gilardi... mi è stato amico e maestro... ci siamo frequentati per quasi
vent’anni... scambiati lettere, opinioni, invettive sull’uso politico o poetico
della fotografia... lo andavo a trovare una o due volte l’anno... lassù nei
boschi dove aveva fatto il partigiano, in quella casa in fondo al paese...
colorata delle sue opere sparse dappertutto... si mangiava qualcosa con
Luciana, sua moglie, e poi ci si rinchiudeva nella sua stanza/studio...
fascinosa... piena di cose, libri, stampe digitali delle sue fotografie
surreali... accendevo il registratore e fermavo nel tempo le nostre lunghe
discussioni sulla politica, la fotografia, la Shoah, la resistenza sociale...
eretico dell’eresia, sosteneva, a ragione, che per chi scrive o fotografa a un
certo grado di qualità è sempre aperto il reparto degli incurabili
dell’utopia... quindi — “Meglio ladro che fotografo” — diceva. Le nostre
conversazioni, scambi di idee, e-mail quasi giornaliere... sono poi finite in
un pamphlet (ancora inedito): “Dio non esiste! La fotografia sì” (MERDE DE
PHOTOGRAPHE), il titolo è di Ando. Sin da quando tiravo i sassi alla celere di
Scelba che bastonava gli operai in sciopero della città-fabbrica dove vivevo (e
vivo ancora), ho sempre pensato che ciò che non mi uccide, mi fortifica.
Le metafore ciniche
di Ando mi graffiavano l’anima... mi accompagnavano in sentieri poco battuti
della fotografia sociale e le sue provocazioni sulla mia ingenua ostinazione a
lavorare con la fotografia argentica (forse per paura di non maneggiare bene il
mezzo, tenermi a distanza dalla fotografia numerica e mi sbagliavo)... mi hanno
aperto un mondo... quello dell’immagine digitale sporca, mossa, sgranata dei
telefonini, videocamere, fotocamere usa-e-getta... fatta dai protagonisti
stessi delle insurrezioni sociali che hanno debuttato nel mondo (non solo)
arabo nel 2011... attraverso i social
network riversavano nell’intero pianeta il diritto degli oppressi ad avere
diritti... queste fotografie dell’indignazione mostravano che la storia della
fotografia non aveva più bisogno di eroi, di santi né di profeti specializzati
(spesso a libro paga dei padroni dei mass-media o sprezzanti architetti dello
scoop sanguinolento che tanto piace a galleristi e operatori del settore), ma
era affabulata dai medesimi insorti che osavano sfidare i potenti della terra e
s’incamminavano verso la conquista di una società più giusta e più umana.
Ando aveva compreso
(e teorizzato nei suoi molti e straordinari libri) che i fotografi o sono
randagi dell’immagine poetica o inservienti dell’industria culturale... tutto vero...
un giorno, accesi il sigaro toscano all’anice e seduto sul lettino della sua
stanza/covo (mentre fuori nevicava da matti), gli dissi con la mia solita
ironia da osteria di porto: “Chi conosce la forca non sempre sa fotografare, e
chi sa fotografare non sempre conosce la forca, anche se qualche volta la meriterebbe!”
. Ando sorrise sulla sedia a rotelle (“mi fai ridere anche il catetere numero
sei o dieci”, disse, non ricordo bene) e carezzando il suo cane che teneva
sulle gambe aggiunse (quasi con queste parole): “Fotografare, in fondo, significa
disfarsi dei propri rancori, vomitare i propri misteri, e il fotografo davvero
grande è uno squilibrato che si serve delle immagini per guarire la propria
stupidità”. E io: “La maggior parte della fotografia è riconducibile a un
crimine di leso linguaggio, a un crimine contro la decenza (non solo
fotografica)”. Ando: “Sei un figlio di puttana... non è indecente esibire i
propri segreti, le proprie lacerazioni... indecente è sterminare milioni di
ebrei e fare finta che sia stato l’errore di un pazzo e non la banalità del
male operato dai grandi poteri... Pino sei simpatico, sei di un’ingenuità commovente.
Non è che tu non capisca, non ti hanno mai detto le due o tre cose
fondamentali… ecco… prima di tutto se per ebreo s’intende uno con la “E”
maiuscola, ad Auschwitz non cen’era nemmeno uno. Te l’ho raccontata la mia
famosa… sai che io sono autore di barzellette antisemite… (raccontane qualcuna,
dico). Ti racconto questa… ci sono due ebrei, uno è un vecchio sionista, sono a
Tel Aviv, passeggiano, chiaccherano del più e del meno, l’altro è un ebreo
normale. A un bel momento il sionista lancia un grido di dolore, si piega in
due, si stringe all’inguine, si contorce… l’altro gli dice, cosa ti succede? Il
sionista: mi hanno dato un calcio proprio qui. Ma se non c’è nessuno, riponde
l’altro. Il sionista, ma non lo sai che i nostri coglioni sono ad Auschwitz ” (sorridiamo insieme). È così. Perché poi se
c’è una storia da conoscere, interessante da conoscere, è quella delle vicende
dell’ebraismo, degli ebrei soprattutto europei, dal Portogallo agli Urali,
degli ultimi duecento anni. I libri, i testi, i trattati che preannunciavano la
Shoah… è come il titolo di quel film, Un
assassinio annunciato, mi pare… è stata prevista, annunciata, minacciata
per decenni e decenni”…
Ando, ogni
uomo, in ogni epoca, possiede una realtà o una verità solo grazie proprie
esagerazioni, alla propria capacità di santificare i propri dèi. Ando, ancora:
“Sei proprio un coglione... uno stupido trova sempre qualcuno più stupido di
lui da venerare, e così sia!” (ridiamo e Ando beve finalmente la tisana
preparata da Luciana un paio di ore prima).
Scese la sera...
montai in macchina e andai giù per la salita con queste parole in testa... a
una curva l’auto scivolò sul ghiaccio, per non cadere in un burrone mi buttai
in una stradetta ed entrai con la macchina nella casa di una famiglia che stava
cenando davanti al telegiornale... dopo un po’ di naturale scompiglio... furono
gentili con la mia confusione... dissi che ero amico di Ando, mi accolsero alla
loro tavola, mangiai fagioli e salsicce, vino frizzante della loro vigna, poi
ripresi la strada... detti anche un passaggio a una graziosa puttana
infreddolita (mi ricordava Anna Karina di Questa
è la mia vita, un film di Jean-Luc Godard)... la portai dove abitavano i
suoi genitori (Aqui Terme)... entrai con la ragazza in una cucina che odorava
di buono... i genitori della ragazza (facce di carbonai d’altri tempi) fecero
degli spaghetti aglio, olio e peperoncino... vino rosso e un liquore di non so
quali erbe... su una parete c’era il ritratto di un ragazzo ammazzato dai
nazifascisti in un imboscata, uno della famiglia, mi dissero... ripresi la
strada cantando “Bella ciao”. Quando arrivai a Piombino era l’alba ma non
riuscivo a trovare la via dove abitavo... così mi addormentai a Marina, vicino
alle Fonti delle serpi in amore... mi
svegliò un pescatore... chiese se avevo bisogno di aiuto... mi ero vomitato
addosso e l’odore non era proprio dei migliori... diavolo di un Ando, pensai
(ogni volta che vado a trovarlo mi smonta certezze e utopie e la sua
belligerante intelligenza mi resta attaccata alla pelle come un amore
passionale)... presi la fotocamera, scattai un paio di immagini al pescatore
(vennero un po’ mosse) e parlando a un gatto affamato che mi leccava gli stivali
(ci aveva anche pisciato sopra), dissi tra me e lui: è la fotografia bellezza e
nessuno ci può fare nulla!
Ando si è trovato
spesso a scrivere dei miei libri, qualche volta è sceso tra gli uomini a
presentarli... era un’emozione sentirlo parlare e leggere cosa scriveva dei
linguaggi fotografici poi significava entrare nel bordello senza muri della
fotografia, senza bavagli... giocava con le parole, i paradossi, le
provocazioni... ecco cosa diceva in apertura a un mio fotolibro: “La Fotografia
ha bisogno dei Pino Bertelli, e i Pino Bertelli hanno bisogno della Fotografia.
Siccome attraverso l’ultima fase della senilità megalomane (sia benedetta
l’arteriosclerosi che offre motivazioni a delinquere più di tutte le ideologie)
aggiungo che la Fotografia e i Pino Bertelli hanno bisogno di me. Tutto così si
risolve in un piccolo clan di quarantaquattro gatti, ma anche questo deserto è
un vanto per noi e la Fotografia. Tanto io che Pino Bertelli facciamo ogni
sforzo possibile per vivere ai margini della società, solo che io onestamente
lo affermo e Pino Bertelli ingenuamente lo nega, anzi afferma il contrario e
per farlo credere, e crederci, si serve della Fotografia.
Con la Fotografia
Pino Bertelli inventa una società che non esiste: dove le donne hanno un’anima
e la rivelano con occhi belli e profondi da Sante e Puttane; dove i proletari
sono pelosi e pensosi e indossano la coscienza di classe; dove nelle rughe che
scavano il volto dei vecchi c’è incisa tanta saggezza... È il massimo
dell’assurdo poetico! L’assurdo nasce specialmente dal fatto che, come dice
Bertelli, i suoi sono ritratti “di strada”: presi, figurati, alla gente comune!
Per questo la sua risulta: “...fotografia come stupore o invettiva contro il
fascio evangelico dell’ordine culturale/costituito”. Ogni volta che mi capita
di leggere le cose che Ando ha scritto su di me, come su altri, penso che non
c’è storia che non sia dell’anima e non c’è anima bella o santificata che valga
quanto una risata tra amici fraterni o sabotatori della pubblica opinione.
Anche io ho scritto
di lui (senza un filo di pudore che forse era necessario), così: “La fotografia
digitale di Ando Gilardi ci sorprende. E non poco. Senza uscire dalla propria
tana sui boschi piemontesi, Gilardi è riuscito a produrre immagini elettroniche
di notevole bellezza. Sono fotografie che attraversano la storia dell’arte e la
riconducono a nuovi orizzonti estetici e politici. Interrogano i fantasmi
dell’esistenza quotidiana e sovente accompagnano furori iconoclasti gettati
contro le banalità del male (di ogni potere). Gilardi détourna i maestri della pittura, viola i codici della prospettiva,
fa di ogni donna una Gioconda coi baffi ed è soprattutto lo stupore ludico del
colore improbabile che lascia il segno nelle sue opere. L’insieme del suo
lavoro annuncia un viatico che si allunga tra l’utopia possibile e la grazia
dell’apocalisse.
La scrittura (non solo) fotografica digitale di Gilardi è
allegorica, grottesca, surreale… deriva dal sogno teurgico, qabbalico o
chassidico di Maimonide (o della mistica ebraica), Martin Buber, Hannah Arendt,[1] quanto
dall’insubordinazione degli utopisti libertari che hanno trapassato il cuore
dei secoli in cerca di una vita che valesse la fatica di vivere. Il linguaggio
della diserzione di Gilardi, annoda la surrealtà amorosa di André Breton,[2] con la crudeltà
dell’amore di Antonin Artaud[3]
e quel che più conta li attraversa entrambi, non per giungere ad un particolare
luogo emozionale dell’anima, ma per demistificare tutto ciò che viene eretto e
idolatrato a simulacro artistico. C’è nella decostruzione dell’arte digitale di
Gilardi, un pensiero androgino che non bada alla perfezione del nulla ma canta
l’elogio del margine. Cabalista di segni, “dagherrotipista” di colori,
masnadiero di visioni controcorrente (à
rebours),[4] Gilardi dispiega
nelle sue opere lo stupore e l’innocenza di una lunga infanzia e dissemina
nella magia contaminata delle forme, l’immaginazione ludra[5] o poetica del
sogno,[6] che rende reale
tutto ciò che si trascolora in poesia.
Per noi, Gilardi è un profanatore di segni, un trovatore
d’eresie, un incendiario dell’immaginario… l’oblio della suo fare-fotografia
elettronica lo porta a scardinare le verità dell’ordine e le sue iconologie,
anche le più cattive o coinvolgenti, giocano sulla limpidezza del ludico e la
loro trasparenza amorosa li trascolora in pietre. La filosofia della
dis/apparenza che Gilardi butta contro il fascio del mercato delle immagini,
porta la “fotografia digitale” fuori dalla norma e porge a ciascuno
l’inclinazione o il bisogno di pensare. L’immaginazione è la più chiara delle
visioni, “ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a
distanza tutto ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza parzialità
né pregiudizi” (Hannah Arendt). In questo senso il lavoro di Ando Gilardi è una
“teca” d’immagini che ha molti inizi e nessuna fine. Di ciò che vedi tu farai
la tua scrittura e di quanti ti amano o ti odiano sarà la tua lettura, diceva”.
Sia lode ora a uomini di fama.
Per amore, solo per amore della nostra amicizia stellare ti
porto con me Ando, là dove finisce il mare e comincia il cielo... dove i
ragazzi con i piedi scalzi nel sole o con la pioggia sulla faccia tirano i
sassi alle stelle... te mi hai insegnato quanto è dura la vita di colui che
chiede amore e riceve indifferenza... tuttavia devo ancora incontrare un
ignorante, un folle, un “quasi adatto” o un bandito per necessità le cui radici
non affondino nel mio cuore... ricordi quando mi ricordavi un passo di non so
quale libro: “Possiamo cambiare con le stagioni, ma le stagioni non possono
cambiare noi”... tu mi hai fatto comprendere che l’uomo e il fotografo guardano
nella medesima direzione, fanno della libertà e della giustizia il principio di
ogni bellezza o non sono nulla... tu mi hai lasciato in dono la vita sognata
degli angeli ribelli e il canto della loro disperata utopia racchiusa in queste
parole — Lontano da me la saggezza che non sa piangere con gli ultimi della
terra... la filosofia che non ride della politica che la uccide e la stupidità
che non abbassa la testa davanti a un bambino massacrato dalle guerre —... ogni
forma d’arte celebra il sublime che insorge contro l’ipocrisia del proprio
tempo e rompe le proprie catene. Anche l’ultimo degli stupidi, forse, sa ormai
che la rivoluzione del pane amaro riporta
l’arte di vivere o morire nella strada e il bene comune nella società di liberi
e uguali che viene... a memoria di ubriaco chi non ricorda che il profumo dei gelsomini può mutare il
corso delle costellazioni?... il genio ha inizio sempre col dolore.
Ti abbraccio
teneramente à bonne lumiere Ando, con chi ami e chi
ti ama... là dove le nostre lacrime s’incontrano, i nostri cuori si danno del
tu! Ciao (lasciami il posto alla tua sinistra, a destra ci mettiamo un corona
di spine d’acacia e ci facciamo sedere chi sappiamo noi)... ciao a te, Pino.
Piombino, dal vicolo
dei gatti in amore, 15 volte marzo 2012
[1] Maimonide e la mistica ebraica, di Moshé Idel, il Melangolo 2000; Profezia e politica, setet saggi, di
Martin Buber, Città Nuova 1996; Ebraismo
e modernità, di Hannah Arendt, Unicopli 1986
[2] I vasi comunicanti, di André Breton, Lucarini 1990
[3] Van Gogh, il suicidato della società, di Antonin Artaud, Adelphi
1988
[4] Controcorrente (À rebours), di Joris-Karl Huismans, Garzanti 2000
[5] Per immaginazione ludra,
intendiamo quel pensiero ereticale, sovversivo, anarchico che — come l’olio
buono di Nietzsche — fuoriesce dall’orlo dell’otre e va ad insinuarsi negli
anfratti più celati dell’ordine costituito… lì prende fuoco e di colpo illumina
la caverna di Platone. La civiltà dello spettacolo nasce tra quelle ombre e
quelle luci. La rêverie che fa divampare il fuoco blu dei cavalieri erranti
della luna e la stessa rêverie che vuole spegnerlo e renderlo innocuo. Le gesta
eversive (non sospette) della Compagnia del libero spirito di fra’ Dolcino,
sono ancora cantate ai quattro venti della terra e insieme al mito di Prometeo
ci ricordano la tentazione a disobbedire. Il fiore di rosso e nero vestito di
Buenaventura Durruti si schiuderà ancora: “Noi cambieremo il mondo, perché
portiamo un mondo nuovo dentro di noi. E mentre vi sto parlando, il mondo sta
già cambiando”. L’obbedienza non è mai stata una virtù.
[6] Poetica del fuoco, frammenti di un lavoro incompiuto, di Gaston
Bachelard, Red Edizioni 1990
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