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mercoledì 21 marzo 2012

PER ANDO GILARDI, AMICO E MAESTRO…, di Pino Bertelli

«Bisogna avere molto caos dentro di sé per partorire una stella danzante...
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente.
Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo.
Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose.
Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose.
Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali:
chi sente diversamente va da sé al manicomio. “Una volta erano tutti” - dicono i più raffinati e strizzano l’occhio.
Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine.
Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco.
Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte salva restando la salute.
“Noi abbiamo inventato la felicità”- dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio».
Friedrich W. Nietzsche, il dinamitardo di tutte le morali.
Ando Gilardi
Arquata Scrivia 1921 — Ponzone 2012
Fotografo, storico, critico della fotografia sociale

Meglio ladro che fotografo...
L’ho conosciuto bene Ando Gilardi... mi è stato amico e maestro... ci siamo frequentati per quasi vent’anni... scambiati lettere, opinioni, invettive sull’uso politico o poetico della fotografia... lo andavo a trovare una o due volte l’anno... lassù nei boschi dove aveva fatto il partigiano, in quella casa in fondo al paese... colorata delle sue opere sparse dappertutto... si mangiava qualcosa con Luciana, sua moglie, e poi ci si rinchiudeva nella sua stanza/studio... fascinosa... piena di cose, libri, stampe digitali delle sue fotografie surreali... accendevo il registratore e fermavo nel tempo le nostre lunghe discussioni sulla politica, la fotografia, la Shoah, la resistenza sociale... eretico dell’eresia, sosteneva, a ragione, che per chi scrive o fotografa a un certo grado di qualità è sempre aperto il reparto degli incurabili dell’utopia... quindi — “Meglio ladro che fotografo” — diceva. Le nostre conversazioni, scambi di idee, e-mail quasi giornaliere... sono poi finite in un pamphlet (ancora inedito): “Dio non esiste! La fotografia sì” (MERDE DE PHOTOGRAPHE), il titolo è di Ando. Sin da quando tiravo i sassi alla celere di Scelba che bastonava gli operai in sciopero della città-fabbrica dove vivevo (e vivo ancora), ho sempre pensato che ciò che non mi uccide, mi fortifica.

Le metafore ciniche di Ando mi graffiavano l’anima... mi accompagnavano in sentieri poco battuti della fotografia sociale e le sue provocazioni sulla mia ingenua ostinazione a lavorare con la fotografia argentica (forse per paura di non maneggiare bene il mezzo, tenermi a distanza dalla fotografia numerica e mi sbagliavo)... mi hanno aperto un mondo... quello dell’immagine digitale sporca, mossa, sgranata dei telefonini, videocamere, fotocamere usa-e-getta... fatta dai protagonisti stessi delle insurrezioni sociali che hanno debuttato nel mondo (non solo) arabo nel 2011... attraverso i social network riversavano nell’intero pianeta il diritto degli oppressi ad avere diritti... queste fotografie dell’indignazione mostravano che la storia della fotografia non aveva più bisogno di eroi, di santi né di profeti specializzati (spesso a libro paga dei padroni dei mass-media o sprezzanti architetti dello scoop sanguinolento che tanto piace a galleristi e operatori del settore), ma era affabulata dai medesimi insorti che osavano sfidare i potenti della terra e s’incamminavano verso la conquista di una società più giusta e più umana.
Ando aveva compreso (e teorizzato nei suoi molti e straordinari libri) che i fotografi o sono randagi dell’immagine poetica o inservienti dell’industria culturale... tutto vero... un giorno, accesi il sigaro toscano all’anice e seduto sul lettino della sua stanza/covo (mentre fuori nevicava da matti), gli dissi con la mia solita ironia da osteria di porto: “Chi conosce la forca non sempre sa fotografare, e chi sa fotografare non sempre conosce la forca, anche se qualche volta la meriterebbe!” . Ando sorrise sulla sedia a rotelle (“mi fai ridere anche il catetere numero sei o dieci”, disse, non ricordo bene) e carezzando il suo cane che teneva sulle gambe aggiunse (quasi con queste parole): “Fotografare, in fondo, significa disfarsi dei propri rancori, vomitare i propri misteri, e il fotografo davvero grande è uno squilibrato che si serve delle immagini per guarire la propria stupidità”. E io: “La maggior parte della fotografia è riconducibile a un crimine di leso linguaggio, a un crimine contro la decenza (non solo fotografica)”. Ando: “Sei un figlio di puttana... non è indecente esibire i propri segreti, le proprie lacerazioni... indecente è sterminare milioni di ebrei e fare finta che sia stato l’errore di un pazzo e non la banalità del male operato dai grandi poteri... Pino sei simpatico, sei di un’ingenuità commovente. Non è che tu non capisca, non ti hanno mai detto le due o tre cose fondamentali… ecco… prima di tutto se per ebreo s’intende uno con la “E” maiuscola, ad Auschwitz non cen’era nemmeno uno. Te l’ho raccontata la mia famosa… sai che io sono autore di barzellette antisemite… (raccontane qualcuna, dico). Ti racconto questa… ci sono due ebrei, uno è un vecchio sionista, sono a Tel Aviv, passeggiano, chiaccherano del più e del meno, l’altro è un ebreo normale. A un bel momento il sionista lancia un grido di dolore, si piega in due, si stringe all’inguine, si contorce… l’altro gli dice, cosa ti succede? Il sionista: mi hanno dato un calcio proprio qui. Ma se non c’è nessuno, riponde l’altro. Il sionista, ma non lo sai che i nostri coglioni sono ad Auschwitz” (sorridiamo insieme). È così. Perché poi se c’è una storia da conoscere, interessante da conoscere, è quella delle vicende dell’ebraismo, degli ebrei soprattutto europei, dal Portogallo agli Urali, degli ultimi duecento anni. I libri, i testi, i trattati che preannunciavano la Shoah… è come il titolo di quel film, Un assassinio annunciato, mi pare… è stata prevista, annunciata, minacciata per decenni e decenni”…
Ando, ogni uomo, in ogni epoca, possiede una realtà o una verità solo grazie proprie esagerazioni, alla propria capacità di santificare i propri dèi. Ando, ancora: “Sei proprio un coglione... uno stupido trova sempre qualcuno più stupido di lui da venerare, e così sia!” (ridiamo e Ando beve finalmente la tisana preparata da Luciana un paio di ore prima).
Scese la sera... montai in macchina e andai giù per la salita con queste parole in testa... a una curva l’auto scivolò sul ghiaccio, per non cadere in un burrone mi buttai in una stradetta ed entrai con la macchina nella casa di una famiglia che stava cenando davanti al telegiornale... dopo un po’ di naturale scompiglio... furono gentili con la mia confusione... dissi che ero amico di Ando, mi accolsero alla loro tavola, mangiai fagioli e salsicce, vino frizzante della loro vigna, poi ripresi la strada... detti anche un passaggio a una graziosa puttana infreddolita (mi ricordava Anna Karina di Questa è la mia vita, un film di Jean-Luc Godard)... la portai dove abitavano i suoi genitori (Aqui Terme)... entrai con la ragazza in una cucina che odorava di buono... i genitori della ragazza (facce di carbonai d’altri tempi) fecero degli spaghetti aglio, olio e peperoncino... vino rosso e un liquore di non so quali erbe... su una parete c’era il ritratto di un ragazzo ammazzato dai nazifascisti in un imboscata, uno della famiglia, mi dissero... ripresi la strada cantando “Bella ciao”. Quando arrivai a Piombino era l’alba ma non riuscivo a trovare la via dove abitavo... così mi addormentai a Marina, vicino alle Fonti delle serpi in amore... mi svegliò un pescatore... chiese se avevo bisogno di aiuto... mi ero vomitato addosso e l’odore non era proprio dei migliori... diavolo di un Ando, pensai (ogni volta che vado a trovarlo mi smonta certezze e utopie e la sua belligerante intelligenza mi resta attaccata alla pelle come un amore passionale)... presi la fotocamera, scattai un paio di immagini al pescatore (vennero un po’ mosse) e parlando a un gatto affamato che mi leccava gli stivali (ci aveva anche pisciato sopra), dissi tra me e lui: è la fotografia bellezza e nessuno ci può fare nulla!
Ando si è trovato spesso a scrivere dei miei libri, qualche volta è sceso tra gli uomini a presentarli... era un’emozione sentirlo parlare e leggere cosa scriveva dei linguaggi fotografici poi significava entrare nel bordello senza muri della fotografia, senza bavagli... giocava con le parole, i paradossi, le provocazioni... ecco cosa diceva in apertura a un mio fotolibro: “La Fotografia ha bisogno dei Pino Bertelli, e i Pino Bertelli hanno bisogno della Fotografia. Siccome attraverso l’ultima fase della senilità megalomane (sia benedetta l’arteriosclerosi che offre motivazioni a delinquere più di tutte le ideologie) aggiungo che la Fotografia e i Pino Bertelli hanno bisogno di me. Tutto così si risolve in un piccolo clan di quarantaquattro gatti, ma anche questo deserto è un vanto per noi e la Fotografia. Tanto io che Pino Bertelli facciamo ogni sforzo possibile per vivere ai margini della società, solo che io onestamente lo affermo e Pino Bertelli ingenuamente lo nega, anzi afferma il contrario e per farlo credere, e crederci, si serve della Fotografia.
Con la Fotografia Pino Bertelli inventa una società che non esiste: dove le donne hanno un’anima e la rivelano con occhi belli e profondi da Sante e Puttane; dove i proletari sono pelosi e pensosi e indossano la coscienza di classe; dove nelle rughe che scavano il volto dei vecchi c’è incisa tanta saggezza... È il massimo dell’assurdo poetico! L’assurdo nasce specialmente dal fatto che, come dice Bertelli, i suoi sono ritratti “di strada”: presi, figurati, alla gente comune! Per questo la sua risulta: “...fotografia come stupore o invettiva contro il fascio evangelico dell’ordine culturale/costituito”. Ogni volta che mi capita di leggere le cose che Ando ha scritto su di me, come su altri, penso che non c’è storia che non sia dell’anima e non c’è anima bella o santificata che valga quanto una risata tra amici fraterni o sabotatori della pubblica opinione.
Anche io ho scritto di lui (senza un filo di pudore che forse era necessario), così: “La fotografia digitale di Ando Gilardi ci sorprende. E non poco. Senza uscire dalla propria tana sui boschi piemontesi, Gilardi è riuscito a produrre immagini elettroniche di notevole bellezza. Sono fotografie che attraversano la storia dell’arte e la riconducono a nuovi orizzonti estetici e politici. Interrogano i fantasmi dell’esistenza quotidiana e sovente accompagnano furori iconoclasti gettati contro le banalità del male (di ogni potere). Gilardi détourna i maestri della pittura, viola i codici della prospettiva, fa di ogni donna una Gioconda coi baffi ed è soprattutto lo stupore ludico del colore improbabile che lascia il segno nelle sue opere. L’insieme del suo lavoro annuncia un viatico che si allunga tra l’utopia possibile e la grazia dell’apocalisse.
La scrittura (non solo) fotografica digitale di Gilardi è allegorica, grottesca, surreale… deriva dal sogno teurgico, qabbalico o chassidico di Maimonide (o della mistica ebraica), Martin Buber, Hannah Arendt,[1] quanto dall’insubordinazione degli utopisti libertari che hanno trapassato il cuore dei secoli in cerca di una vita che valesse la fatica di vivere. Il linguaggio della diserzione di Gilardi, annoda la surrealtà amorosa di André Breton,[2] con la crudeltà dell’amore di Antonin Artaud[3] e quel che più conta li attraversa entrambi, non per giungere ad un particolare luogo emozionale dell’anima, ma per demistificare tutto ciò che viene eretto e idolatrato a simulacro artistico. C’è nella decostruzione dell’arte digitale di Gilardi, un pensiero androgino che non bada alla perfezione del nulla ma canta l’elogio del margine. Cabalista di segni, “dagherrotipista” di colori, masnadiero di visioni controcorrente (à rebours),[4] Gilardi dispiega nelle sue opere lo stupore e l’innocenza di una lunga infanzia e dissemina nella magia contaminata delle forme, l’immaginazione ludra[5] o poetica del sogno,[6] che rende reale tutto ciò che si trascolora in poesia.
Per noi, Gilardi è un profanatore di segni, un trovatore d’eresie, un incendiario dell’immaginario… l’oblio della suo fare-fotografia elettronica lo porta a scardinare le verità dell’ordine e le sue iconologie, anche le più cattive o coinvolgenti, giocano sulla limpidezza del ludico e la loro trasparenza amorosa li trascolora in pietre. La filosofia della dis/apparenza che Gilardi butta contro il fascio del mercato delle immagini, porta la “fotografia digitale” fuori dalla norma e porge a ciascuno l’inclinazione o il bisogno di pensare. L’immaginazione è la più chiara delle visioni, “ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a distanza tutto ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza parzialità né pregiudizi” (Hannah Arendt). In questo senso il lavoro di Ando Gilardi è una “teca” d’immagini che ha molti inizi e nessuna fine. Di ciò che vedi tu farai la tua scrittura e di quanti ti amano o ti odiano sarà la tua lettura, diceva”. Sia lode ora a uomini di fama.
Per amore, solo per amore della nostra amicizia stellare ti porto con me Ando, là dove finisce il mare e comincia il cielo... dove i ragazzi con i piedi scalzi nel sole o con la pioggia sulla faccia tirano i sassi alle stelle... te mi hai insegnato quanto è dura la vita di colui che chiede amore e riceve indifferenza... tuttavia devo ancora incontrare un ignorante, un folle, un “quasi adatto” o un bandito per necessità le cui radici non affondino nel mio cuore... ricordi quando mi ricordavi un passo di non so quale libro: “Possiamo cambiare con le stagioni, ma le stagioni non possono cambiare noi”... tu mi hai fatto comprendere che l’uomo e il fotografo guardano nella medesima direzione, fanno della libertà e della giustizia il principio di ogni bellezza o non sono nulla... tu mi hai lasciato in dono la vita sognata degli angeli ribelli e il canto della loro disperata utopia racchiusa in queste parole — Lontano da me la saggezza che non sa piangere con gli ultimi della terra... la filosofia che non ride della politica che la uccide e la stupidità che non abbassa la testa davanti a un bambino massacrato dalle guerre —... ogni forma d’arte celebra il sublime che insorge contro l’ipocrisia del proprio tempo e rompe le proprie catene. Anche l’ultimo degli stupidi, forse, sa ormai che la rivoluzione del pane amaro riporta l’arte di vivere o morire nella strada e il bene comune nella società di liberi e uguali che viene... a memoria di ubriaco chi non ricorda che il profumo dei gelsomini può mutare il corso delle costellazioni?... il genio ha inizio sempre col dolore.
Ti abbraccio teneramente à bonne lumiere Ando, con chi ami e chi ti ama... là dove le nostre lacrime s’incontrano, i nostri cuori si danno del tu! Ciao (lasciami il posto alla tua sinistra, a destra ci mettiamo un corona di spine d’acacia e ci facciamo sedere chi sappiamo noi)... ciao a te, Pino.
  
 Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 15 volte marzo 2012




[1] Maimonide e la mistica ebraica, di Moshé Idel, il Melangolo 2000; Profezia e politica, setet saggi, di Martin Buber, Città Nuova 1996; Ebraismo e modernità, di Hannah Arendt, Unicopli 1986
[2] I vasi comunicanti, di André Breton, Lucarini 1990
[3] Van Gogh, il suicidato della società, di Antonin Artaud, Adelphi 1988
[4] Controcorrente (À rebours), di Joris-Karl Huismans, Garzanti 2000
[5] Per immaginazione ludra, intendiamo quel pensiero ereticale, sovversivo, anarchico che — come l’olio buono di Nietzsche — fuoriesce dall’orlo dell’otre e va ad insinuarsi negli anfratti più celati dell’ordine costituito… lì prende fuoco e di colpo illumina la caverna di Platone. La civiltà dello spettacolo nasce tra quelle ombre e quelle luci. La rêverie che fa divampare il fuoco blu dei cavalieri erranti della luna e la stessa rêverie che vuole spegnerlo e renderlo innocuo. Le gesta eversive (non sospette) della Compagnia del libero spirito di fra’ Dolcino, sono ancora cantate ai quattro venti della terra e insieme al mito di Prometeo ci ricordano la tentazione a disobbedire. Il fiore di rosso e nero vestito di Buenaventura Durruti si schiuderà ancora: “Noi cambieremo il mondo, perché portiamo un mondo nuovo dentro di noi. E mentre vi sto parlando, il mondo sta già cambiando”. L’obbedienza non è mai stata una virtù.
[6] Poetica del fuoco, frammenti di un lavoro incompiuto, di Gaston Bachelard, Red Edizioni 1990

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