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giovedì 29 marzo 2012

CRISTIANESIMI IV - IL «PECCATO ORIGINALE»: UN PROBLEMA TEOLOGICO CHE DALLA BIBBIA NON RISULTA, di Pier Francesco Zarcone

Un dogma funzionale

Il primo libro della Bibbia - la Genesi - contiene la narrazione in forma mitica di quello che poi le Chiese cristiane, sulla scia di Paolo di Tarso, hanno chiamato “peccato originale” facendone - sia pure con sfumature diverse - la causa dell’imperfezione morale degli esseri umani. Vista in questi termini la cosa risulta del tutto assente nella religiosità israelita, tant’è che in seguito la Bibbia ebraica (cioè quello che per i Cristiani è il Vecchio testamento) non riprende più l’argomento e il discorso sulle problematiche morali dell’umanità viene svolto indipendentemente dalla cosiddetta “caduta primordiale”. Inoltre questo tema non ha mai fatto parte della predicazione di Gesù di Nazareth. Invece, soprattutto nel Cattolicesimo e nel Protestantesimo esso occupa un posto fondamentale, grazie al quale Agostino di Ippona poté definire l’umanità in sé una “massa dannata”, che senza la Chiesa e i Sacramenti non si salva e che è attesa dal rovente calduccio dell’Inferno.
Questo mito - oltre a essere teologicamente significativo - ha svolto un’importante funzione nella creazione di una stretta rete di controllo ecclesiastico sulle società occidentali, proprio a motivo della situazione di insopprimibile peccaminosità in cui, grazie a tale mito, è stata vista l’umanità. E per salvarla le Chiese, soprattutto quelle di origine latina, dovevano sapere, controllare, indirizzare e punire.

«In generale si può dire che, a differenza della tradizione teologica occidentale, la quale si occupò con particolare insistenza del peccato dei progenitori, delle sue conseguenze e della sua trasmissone, quella orientale tratta dell’argomento solo incidentalmente e in modo per niente uniforme. Così non si può presentare la dottrina “ufficiale” della Chiesa orientale riguardante il peccato originale, perché, nell’ambito di questa tradizione, non vi è stato mai un dibattito in proposito e molto meno vi fu un tentativo di sistematizzare questa dottrina in modo obbligatorio per tutti, in quanto nessun concilio ecumenico o sinodo locale, tenuto in Oriente, ebbe occasione di ocuparsene»[1].

Forse è stato Paolo di Tarso il grande inventore del peccato originale, che si sarebbe trasmesso con la procreazione a tutto il genere umano posteriore all’umanità primordiale; il “forse” - cioè la mancanza di sicurezza per tale attribuzione - viene motivato più avanti. Tuttavia è ad Agostino di Ippona - mai liberatosi dai condizionamenti del suo passato da libertino e della sua precedente (e intensa) esperienza religiosa manichea, altresì afflitto da vari problemi psicologici e frustrazioni - che si deve la costruzione di un vero e proprio apparato teologico centrato sul tema in questione.


Nell’Oriente cristiano si esclude la trasmissione di colpa
Generalmente parlando, nell’Oriente cristiano tra chi si pone il problema della proiezione sull’umanità dell’infortunio nell’Eden non esiste la concezione giuridica del peccato di Adamo ed Eva propria del Cristianesimo occidentale, e quindi diverso è il modo di considerare i problemi conseguenti, con particolare riferimento all’opera salvifica e di redenzione di Gesù. Opera che però viene inquadrata indipendentemente da Adamo ed Eva. Sul predetto versante nessuno parla di trasmissione di colpa ai posteri, e si sostiene che dopo la caduta primordiale dell’umanità il genere umano (per il fatto di condividere l’ormai decaduta natura dei progenitori) avrebbe perso la somiglianza con Dio, originariamente unita all’immagine; e inoltre sarebbe venuta meno anche l’attualizzazione dell’immagine stessa, ferma però restando la sua ineliminabilità.
Rimasta quindi a livello potenziale l’immagine, sarà compito dell’uomo - in virtù dell’azione redentrice del Lógos - attualizzare, mediante il battesimo, l’impronta del Dio Tri-Unitario che è in lui, e ridare vita alla somiglianza, pervenendo così a una dimensione superiore a quella della stessa umanità primordiale e quindi alla sua ontologica divinizzazione attraverso la Grazia divina.
Puó essere interessante notare che una delle più antiche Chiese cristiane, la Nestoriana, richiamandosi a un filone dell’antica teologia antiochena respinge la credenza nel peccato originale, e altresì nega che come conseguenza dell’uscita di Adamo ed Eva dall’Eden il peccato sia insito nella natura umana. Nel Nestorianesimo si riscontra anche un elemento pelagiano, nel senso che si dà maggior rilievo all’impegno umano, ai fini della salvezza, che non alla grazia.
Chi nell’Ortodossia bizantina affronta in termini di conseguenze l’incidente primordiale sostiene che consisterebbero in una vulneratio/privatio, a seguito della quale l’essere uomano non è più se stesso; e non - come afferma invece la teologia cattolica in conformità alla concezione agostiniana - in una privatio/vulneratio. Recuperando la Grazia con l’azione salvifica di Cristo, la persona umana può tornare all’integralità del suo essere, alla vera libertà, intendendosi la libertà come incorporazione della Grazia, o vivere in Dio, come prima della caduta e ben più di allora.
Anche per tutti questi motivi l’Ortodossia non ha conosciuto la dialettica grazia/libertà negli stessi termini dell’Occidente, né i travagli spirituali a ciò conseguenti. Questa diversa concezione ha portato a vedere nel Battesimo non già uno strumento per cancellare una colpa originale che il singolo non può aver commesso, bensì un rito iniziatico di morte-resurrezione-rigenerazione globale. In quest’ottica scompare il problema della responsabilità dei membri dell’umanità successiva per il peccato dei progenitori. Ci si limita a constatare che si è ereditata una natura menomata che è idonea a condurre al peccato.
La partecipazione ontologica dell’uomo al divino costituisce, in definitiva, sia il punto d’arrivo che il punto di partenza della storia sacra, atteso che essa - secondo la concezione orientale - avrebbe avuto, comunque e sempre, il suo cardine nell’incarnazione del Lógos, a prescindere da ogni caduta originale. Da queste basi muoveva S. Atanasio, nel corso della polemica contro Ario, per sostenere che Dio si è fatto uomo affinché l’uomo divenga un dio, divinizzandosi per Grazia, se non per natura.
Monogenismo e incesto nel Cattolicesimo
Chiusasi a riccio in difesa del proprio dogma della trasmissione della colpa di Adamo ed Eva al resto dell’umanità successiva, la teologia della Chiesa cattolica, ha ritenuto di sostenere meglio il dogma combattendo a lungo una battaglia persa in partenza: quella contro il “poligenismo” in antropologia. Traduciamo. I teologi cattolici, “autorevolmente” sostenuti da pronunciamenti papali, anche se Adam è nome collettivo, hanno difeso contro gli scienziati la tesi dell’origine di tutta l’umanità da una sola coppia di persone (monogenismo), contro gli scienziati che invece lo negano intendendo l’umanità primitiva come una pluralità di persone (poligenismo). A chi osserva che in tale modo la Chiesa cattolica implicitamente attribuisce la nascita delle generazioni successive a una serie di incesti primordiali, i solerti teologi introducono la distinzione fra leggi divine assolute e non assolute, inserendo il divieto dell’incesto tra queste ultime, e non tra le prime.

Gli esordi del dogma
L’introduzione di quello che diventerà un elemento essenziale della soteriologia cristiana occidentale viene attribuita dal Cattolicesimo alla paolina Epistola ai Romani (5, 12). Qui, tuttavia, emerge un primo e non banale problema: cioè quale sia l’esatto significato del testo greco dell’Epistola. Nella traduzione latina effettuata da S. Girolamo, e nell’ulteriore e letterale traduzione in italiano le cose starebbero nel modo seguente:

«(…) come per un uomo il peccato è entrato nel mondo, e per il peccato la morte, così anche la morte raggiunse tutti gli uomini poiché tutti peccarono».

Più sfumato appare il successivo versetto 18 della stessa Epistola:

 «la colpa di uno solo si riversò su tutti gli uomini».

Ma non si tratta dell’unica possibile traduzione di Romani 5, 12; esiste un’altra possibilità, forse più corretta grammaticalmente e sintatticamente:

«(…) come per un uomo il peccato è entrato nel mondo, e per il peccato la morte, così anche la morte raggiunse tutti gli uomini perché a causa di ciò tutti hanno peccato».

Le conseguenze di ciascuna versione sono abbastanza chiare e diverse. L’una giustifica la tesi (dogmatizzata dalla Chiesa cattolica) della trasmissione della colpa di un peccato personale ai discendenti dell’umanità primordiale; una colpa commessa ancor prima di nascere! L’altra, invece, afferma la trasmissione incolpevole di una decadenza ereditata dall’umanità successiva a seguito del peccato personale dei progenitori, che avrebbe fatto perdere anche ai posteri la perfezione originaria. In entrambi i casi, però, si tratta di una novità assoluta rispetto all’Ebraismo ortodosso. 
Da Paolo in poi il ruolo salvifico di Gesù sul piano metafisico è stato concepito in stretto nesso di collegamento (e per Agostino di conseguenzialità) con la caduta primordiale dei progenitori; tanto che taluni hanno posto il problema se il Lógos si sarebbe ugualmente incarnato qualora questa caduta non ci fosse stata. Agostino di Ippona sviluppò ulteriormente la concezione paolina, seguito dai grandi esponenti della Riforma protestante, e infine dal Concilio di Trento che nel 1546 sancì definitivamente il dogma per la Chiesa cattolica.
Per completezza va comunque notato che la concezione della setta ebraica insediata a Wadi Qumrān sul Mar Morto presentava elementi, diciamo, “di tipo agostiniano”. Nei loro Inni (Hodayot 4,29-30) si legge:

              «L'uomo è nell'awon (peccato) fin dall'utero»;

e l'awon non indica la mera trasgressione. Per cui si deve dire che per i qumraniti l’essere umano reca con sé fin dal concepimento un marchio negativo di impurità (poiché l’awon era un aspetto dell’impurità). La purificazione come via di uscita dall’impurità riguardava per i qumraniti i peccati successivi, mentre per l’impurità connaturata, originaria, si ci purificava solo con l’atto di fede implicante l’adesione alla setta.  

I progenitori
Esiste poi il problema dei progenitori. Un minimo di buon senso porterebbe a considerare la coppia Adamo ed Eva come metafora dell’umanità primordiale nel suo complesso. D’altro canto adam nel Vecchio Testamento solo 12 volte ha il significato di nome proprio, mentre per 539 volte significa “uomo” in senso collettivo. Già S. Gregorio di Nissa e S. Basilio consideravano Adamo un’entità collettiva. La Chiesa cattolica, invece, in cui il fondamentalismo letteralistico ha sovente svolto un ruolo rilevante, si è opposta a inquadrare quel racconto nella categoria del mito, riportandolo al genere storico in senso proprio e sostenendo, nella battaglia per il monogenismo, che

«I fedeli non possono abbracciare quell’opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come progenitore di tutti gli uomini; oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori»[2]

Il testo di Paolo crea comunque problemi
Ad ogni modo non è priva di difficoltà nemmeno la seconda possibile versione del testo paolino. Se da un lato esclude l’aberrazione insita nella tesi della trasmissione della colpa, tuttavia da un altro lato - venendo a sostenere il “contagio metafisico” ai danni dell’umanità successiva - implicitamente assume il racconto su Adamo ed Eva come relazione di fatti realmente accaduti. E inoltre se si abbandona - come è necessario fare - la tesi monogenistica, resta non spiegato e inspiegabile il fatto del coinvolgimento collettivo di tutta l’umanità primigenia nel peccato originale.
Logica a parte, si può aggiungere che le scienze moderne non offrono alcuna possibiltà di individuare un’epoca della storia del pianeta Terra in cui collocare in senso fisico il “Paradiso terrestre” di Adamo ed Eva; né la preistoria ci hai mai offerto tracce di una preesistente età dell’oro di quel tipo.
Analizzando il mito veterotestamentario
Si accennava in precedenza all’estraneità della concezione del peccato originale rispetto alla religiosità ebraica. Ebbene, non solo nel  Vecchio Testamento, dopo la narrazione della Genesi non se ne parla più; ma un’analisi attenta dello stesso testo in cui si parla di questo episodio presenta delle sorprese.  La prima di esse è che Dio non accusa di peccato i reprobi: invece affronta “alla larga” la questione della loro disobbedienza, chiedendo chi mai avesse detto loro che erano nudi (infatti avevano scoperto la loro nudità subito dopo la disobbedienza). E quando viene fuor che la disobbedienza è stata istigata dal serpente, è su di esso che ricade la maledizione divina[3].
In realtà la vera valenza della storia di Adamo ed Eva, ovvero la sua validità, sta nell’intenderla come narrazione mitica e metatemporale. Se al mito diamo - come correttamente è - il carattere di “storia esemplare”, o archetipica, è facile comprendere che la Genesi tratta di una caduta niente affatto protostorica, bensì di un evento sperimentabile e sperimentato durante la vita di ogni essere umano. Questo mito dice all’homo religiosus che l’affermazione dell’autonomia cognitivo/esistenziale da parte dell’essere umano nei confronti di Dio, la sua pretesa di attingere alla determinazione del bene e del male indipendentemente dal nesso creaturale che lo lega al divino, ne spezza il rapporto di comunione, anche ontologica.
Il “peccato originale” consisterebbe allora nell’assunzione del proprio “io” come valore autonomo e unico punto di partenza; nel fare della propria egoità l’elemento di rottura del “noi” di comunione col divino. E in quest’ottica, come peccato esso è effettivamente “originale”, giacché per la sua portata diventa la base o l’origine di tutti gli altri.
Si tratterebbe, allora, di un mito ebraico espressione di un dato comune a tutto l’universo religioso umano: vale a dire la dimensione religiosa come cammino verso l’unità col divino una volta superata la negatività illusoria dell’autonomia dell’io, che produce morte spirituale e non vita. Il mito della Genesi riecheggia un altro tema ricorrente nelle religioni dell’umanità, quello dell’Età dell’oro. Anche qui la cosa più facile, ma meno proficua, consisterebbe nel ritenere che questa immagine voglia rappresentare una fase dell’umanità temporalmente determinata, sia pure a livello prestorico, e non già una situazione conseguibile nello stato di perfezione spirituale. L’età dell’oro, cioè, più come dimensione - che come scenario - in cui si inserisce colui che è “amico di Dio”; o, per dirla alla maniera ebraica, il “giusto”.

Agostino contro Pelagio 
Intendere il racconto su Adamo ed Eva come ricordo dell’evento “peccato originale” è senz’altro comodo per giustificare l’esistenza del male, almeno apparentemente. In questo modo si evita che esso non venga fatto risalire a Dio ma all’umanità; o meglio, alla situazione decaduta trasmessale, comunque sia, dai progenitori. Apparentemente, però. Non è un caso che uno dei più accesi sostenitori del “peccato originale” sia stato il più famoso degli ex manichei, il vescovo Agostino di Ippona che si mise alla testa di una violenta reazione contro la prima “eresia” dell’Occidente cristiano, il pelagianesimo, dal nome del bretone Pelagio (350-423). Costui scrisse due libri sul peccato, la grazia e il libero arbítrio. Accusato di eresia, fu assolto dal sinodo palestinese di Dióspolis nel 415, ma venne condannato dal vescovo di Roma nel 417, e poi dal concilio di Efeso nel 431.  
Le sue teorie innescarono una controversia durata un quarto di secolo (410-439): egli negava il peccato originale, partendo dal dato oggettivo del libero arbitrio umano per valorizzarne la capacità di scegliere tra bene e male in base alla ragione, facoltà privilegiata donatagli da Dio. È su questa libertà che Pelagio nella Lettera a Demetriade fondava la dignità umana, e coerentemente rifiutava l’esistenza di colpe originali, rivendicando al volere dell’essere umano la possibilità di evitare il peccato o di commetterlo. Pelagio, uno dei primi martiri del libero pensiero in epoca cristiana, fu messo a morte per eresia insieme ad alcuni discepoli.
Vale la pena di ricordare che uno dei discepoli di Pelagio, il vescovo Giuliano di Eclano, scontrandosi con Agostino riguardo alla sessualità, rifiutò la tesi agostiniana della concupiscenza come frutto del peccato originale, vedendo invece nell’attrazione sessuale una forza vitale che spetta poi alla razionalità umana moderare nel suo esercizio. Il pelagianesimo comportava infatti anche la valorizzazione del corpo, dimostrando così di sfuggire al condizionamento di quel Neoplatonismo che tanta influenza ha esercitato sul Cristianesimo antico devalorizzando corporeità e sessualità per il fatto di considerare la materia prigione dell’uomo. Da qui a considerare la materia anche fonte di male il passo era (ed è stato) breve.
Sconfitto il Pelagianesimo, soprattutto in Occidente il Cristianesimo occidentale sarà dominato dal pessimismo antropologico di matrice agostiniana, il cui epigono sarà il Giansenismo.

Un dogma scomodo e le interpretazioni in psicologia e psicanalisi
Si deve rilevare che anche nella dogmaticamente rigida Chiesa cattolica quella del peccato originale è una questione di cui i teologi più avveduti farebbero volentier a meno. Un teologo gesuita che negli anni della “Chiesa conciliare” andò per la maggiore, Karl Rahner, per salvare il salvabile effettuò una specie di “retrocessione prospettica” nel modo di concepire questa tematica. Sostenne infatti che il racconto della Genesi parla della nostra situazone attuale di libertà; situazione nella quale coesistono caduta e grazia divina, che non viene trasmessa a partire dall’inizio dell’umanità, bensì dalla fine della storia[4]. Per dirla con un altro gesuita, Gustave Martelet, la cosiddetta “caduta originale” va considerata il “peccato attuale”, proiettato parabolicamente all’inizio della storia[5]. Un peccato attuale presentato come “primo peccato”.
Ha infine sottolineato la psicanalista Marie Balmary, nei suoi studi sul problema[6], che Dio non accusa di peccato Adamo ed Eva, e che anche la natura dell’atto di disobbedienza che fa uscire i progenitori dall’Eden deve essere ben compresa: la proibizione di mangiare frutti dell’albero del Bene e del Male non implica una deminutio per l’essere umano il quale, fatto a immagine e somiglianza di Dio, è chiamato a realizzare la sua divinizzazione. Implica semmai l’apposizione di un limite differenziale da tenere presente: Dio è Dio e l’essere umano una sua creatura. Mangiare il frutto dell’albero, in violazione del divieto - e quindi far entrare il frutto nella propria interiorità, appropriarsene, assimilarlo - vuol dire che si intende eliminare la suddetta differenza, che non si vuole più con Dio un dialogo in comunione. Ma Adamo ed Eva non erano del tutto consapevoli della portata di quello che avevano fatto, e Dio non li maledice, nè nella narrazione successiva i progenitori appaiono nello stato decaduto che invece ci aspetteremmo in base alle teorizzazioni ecclesiastiche su un “peccato originale” che non è mai avvenuto.   
Non può essere trascurata neppure l’interpretazione data da Jung a ciò che chiamava la leggenda del peccato originale, vedendovi operare il sentimento dell’emancipazione della coscienza dell’io come atto luciferino[7].
Per finire una citazione. Che il peccato originale presenti aspetti problematici tempo fa lo riconobbe addirittura un rigido custode del dogmatismo cattolico, un personaggio tutt’altro che tacciabile di modernismo: il cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Santo Uffizio). Nel 1985 riconobbe[8] che al riguardo esistevano

«difficoltà teologiche e pastorali»

e considerò “modificabile” il modo di esprimere quella tematica, pur facendo presente la necessità di procedere con molta cautela, perché le difficoltà in gioco non erano solo linguistiche, ma di natura più profonda. Natruralmente poi non se n’è fatto nulla, nemmeno durante il suo papato.



[1]Panayotis Nellas, Salvezza e peccato nella tradizione orientale, EDB, Bologna 1999, p. 133.
[2]Humani Generis, V, di Pio XII. La posizione risulta confermata dall’attuale Catechismo romano-cattolico (7 e 75).
[3]Va altresì notato che la Genesi non effettua alcuna equiparazione fra il serpente e il diavolo.
[4]Karl Rahner, Traité fondamental de la foi, Le Centurion, Paris 1983.
[5]Gustave Martelet, Libre réponse à une escandale. La faute originelle, la souffrance et la mort, Le Cerf, Paris 1987; Le Peché d’Adam, in H. Rondet, E. Boudes, G. Martelet, Paché originel e peché d’Adam, Le Cerf, Paris 1969.
[6]Marie Balmary, Le sacrifice interdit, Grasset, Paris 1986; Abel ou la traversée de l’Eden, Grasset, Paris 1999.
[7]C.G. JUNG, La simbolica dello spirito, Einaudi, Torino 1959, p. 38.
[8]Entretien sur la foi, con Vittorio Messori, Fayard, Paris 1985.

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