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lunedì 2 aprile 2012

MIRACOLO A LE HAVRE (Aki Kaurismäki, 2011), di Pino Bertelli

“L’odio degli schiavi per i padroni ha sempre consolidato i loro giochi
invece di sgretolarli. L’odio incatena al proprio oggetto, anziché liberarsene.
La volontà di vivere è invece come la sassifraga: circonda la roccia che si oppone al suo avanzare,
l’accerchia, scopre la falla, vi si insinua lentamente, la sgretola.
Noi non riusciremo a sbarazzarci del cinismo neoliberale  se non ristabilendo il valore della vita,
strappando il prezzo di vendita che gli assegna il mercato”.
Raoul Vaneigem

 I. Ribellarsi è giusto!

Un piccolo gioiello di cinema sociale/libertario si aggira sugli schermi del mondo... è Miracolo a Le Havre (2011), di Aki Kaurismäki. I miracoli sacrali della chiesa o quelli economici promessi ai proletari (anche a quelli in rivolta, invero pochi) dai governi, non c’entrano... la favola di Kaurismäki assicura il primato della vita contro la barbarie burocratica della disumanità predominate... in Francia e in tutto il mondo occidentale... racconta un’insubordinazione, quella degli ultimi di un quartiere di Le Havre, che disobbediscono alle nefandezze dell’ordine costituito che considera i migranti i nuovi schiavi e mostrano le devastazioni identitarie di parlamenti criminosi che dissipano la bellezza delle diversità in leggi da avanspettacolo... “la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni... Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi” (Albert Camus), gli indignati della terra non ancora... non si tratta di vivere da servi, bensì da uomini liberi.
 Non c’è storia che non sia della tirannia (o della rivolta)... e questo, sovente, il cinema evita di trattare... specie quello italiano... dove la stupidità regna sovrana e ogni biglietto strappato al botteghino è una sorta di esecuzione dell’intelligenza e della creatività. La coscienza libertaria interviene nei nostri atti (anche quelli più estremi), turba l’esecuzione della libertà messa in atto dall’economia politica e mette in discussione i consensi e i successi dell’industria mercantile dell’obbedienza.  Uno stupido trova sempre qualcuno più stupido di lui da venerare (in politica, nella chiesa, nella cultura e perfino nelle distopie dei mass-media). Altrove abbiamo scritto (e lo grideremo sempre): “La distruzione della società autoritaria/gerarchica è un gesto rivoluzionario contro il privilegio e l’ingiustizia, e il primo passo verso la realizzazione di una società senza classi. Davanti alla storia, gli insorti non sono tenuti a giustificare l’operato delle loro azioni... l’annientamento del principio di autorità segna l’irruzione creativa degli sfruttati, degli umiliati, degli offesi nella rivoluzione sociale e si prendono il compito — del tutto positivo — di mettere fine alla scienza della violenza legiferata e assolta... le rivolte per la libertà degli ultimi chiedono/vogliono l’uguaglianza politica di tutti gli uomini e questo sarà possibile solo quando gli uomini avranno conquistato l’uguaglianza economica e sociale.
Un’organizzazione priva di governo non solo è possibile ma anche desiderabile (Pierre-Joseph Proudhon, diceva)... al contrario, qualunque forma di autorità centrale è deprecabile... la vera intenzione degli uomini in rivolta è la ricerca della felicità (William Godwin, Paul Goodman o Noam Chomsky hanno scritto pagine meravigliose su questo principio etico) ed “educare” alla libertà è un atto di fratellanza universale. La società in anarchia a cui tende l’uomo in rivolta segna la fine dell’ingiustizia e dell’iniquità... qui non ci sono ostacoli morali né limiti da trasgredire... l’uso gioioso del corpo, la sessualità liberata, la pratica dell’ospitalità e dell’accoglienza, l’incantamento per la giustizia e la dolce inclinazione per la bellezza... esprimono una filosofia dell’esistenza amorosa senza dio né stato e dove tutto è di tutti”.
Solo l’esecuzione degli esecutori ci salva dal baratro delle banche, delle borse, dei mercati globali dell’idiozia con i quali i bravacci dell’Impero tengono a catena i loro servi e i loro schiavi... l’urgenza libertaria della menzogna di esistere in questo modo e a questo prezzo è un mezzo, uno strumento, un dispositivo di insorgenza contro il crimine di lesa dignità della democrazia (figuriamoci per ciò che riguarda i Paesi dove il comunismo alza le forche e appronta i campi di sterminio per soffocare le fiamme del dissenso). I popoli impoveriti, come quelli “civilizzati”, sono complici delle autocrazie che sostengono (non solo con la scheda elettorale), prima si fanno allievi, poi portavoce e infine adoratori dei lori boia. Si tratta di scardinare la nullità, l’insignificanza, l’indifferenza e intaccare la protervia irrazionale della società consumerista. Ribellarsi è giusto e quando la libertà di uno o di interi popoli è tradita o violata, ogni forma di resistenza è gradita.

II. Miracolo a Le Havre

Il miracolo a Le Havre di Kaurismäki è stato quello di affabulare un film poetico, fortemente libertario, e racconta la storia di un ragazzino nero, Idrissa (Blondin Miguel) che fugge alla polizia da un container nel porto francese, dove erano segregati dei profughi del Mali (in attesa di sbarcare clandestinamente a Londra)... la polizia lo bracca per acciuffarlo e rispedirlo (magari a calci) nel suo paese... il lustrascarpe Marcel Marx (André Wilms) lo nasconde in casa, un vicino (Jean-Pierre Léaud) lo denuncia all’autorità competente (in fatto di discriminazioni sociali)... intanto Arletty (Kati Outinen), la compagna di Marcel, viene ricoverata all’ospedale per un cancro... il medico le dice non che c’è più niente da fare, “restano i miracoli”.  Arletty, pronta, risponde: “Non nel mio quartiere”. Dio non abita nei ghetti, né ci ha mai soggiornato.
Il quartiere si mobilita per aiutare il ragazzino a raggiungere l’Inghilterra e congiungersi con la madre... il verduraio, la fornaia, un vecchio cantante pop (che torna alla scene per raccogliere una colletta con la quale pagare il viaggio di Idrissa verso la felicità), un cinese, il capitano di una barca da pesca e perfino il commissario di polizia (che non è il solito stupido) Monet (Jean-Pierre Darroussin, notevole “maschera” del cinema libertario di Robert Guédiguian, specie À l’attaque, 2000; La ville est tranquille, 2001) riescono ad aiutare Indrissa prendere il mare verso l’Inghilterra... Arletty guarisce del cancro e il ciliegio del suo piccolo giardino fiorisce fuori stagione... in questo quartiere povero di Le Havre, sembra dire Kaurismäki, citando appunto Miracolo a Milano di De Sica, “Buon giorno vuol dire davvero buongiorno!”... non è vero che nei quartieri dei poveri non avvengono i miracoli, però non sono opera di Dio ma degli uomini in utopia.
Miracolo a Le Havre contiene una filosofia del risveglio... rimanda all’indicibile che si fa storia e sfida l’immoralità dei governi che contrastano le ondate migratorie di popoli saccheggiati, violentati, massacrati nel nome santo dello sviluppo... è un florilegio di libertà, di giustizia, di solidarietà e di bellezza che loda una civiltà diversa, nuova, amorosa, dove democrazia e diritti dell’uomo non sono calpestati ma difesi... l’uguaglianza abita il cuore degli spiriti liberi, degli insorti del bene comune... quando i più l’avranno scoperta si riverserà nelle strade della terra e con tutti i mezzi necessari restituirà la giustizia là dove è stata calpestata e derisa... l’uso autentico della libertà significa avere il diritto di usarla e mettere fine all’umiliazione e alla vergogna... l’indignazione è solo il primo passo verso una disobbedienza più vasta che porta alla conquista di una società di liberi e uguali... perché la ricerca della felicità dello stupido del villaggio vale quanto quella di un genio della finanza o della politica (ammesso che in questi lebbrosari della tristezza alberghino dei geni e non dei residuati fascisti).
Il regista finlandese è acuto narratore di sogni e da visionario libertario qual è, libera la ricchezza della povertà nella fraternità che scardina frontiere, recinti e leggi assurde sull’immigrazione... lavora sull’attorialità singolare di Wilms... che recita per sottrazione, senza troppi gesti né smorfie da guitto del cinema internazionale (come l’ultimo Robert De Niro, per intenderci)... è una sorta di Jean Gabin di periferia e mostra che per la dignità, come per l’amore dell’uomo per l’uomo, non ci sono catene. Si chiama Marx e la sua cagnolina, Laika. Kaurismäki continua giocare con citazioni abbastanza scoperte... Arletty è il nome di un’attrice francese di straordinario talento, apparsa in film che fanno parte della storia autentica del cinema (Hotel du Nord, 1938; Le jour se léve, 1939; di Marcel Carné, dove affiancava Jean Gabin o Les Enfants du paradais, 1943-1044, con l’interpretazione monumentale di Jean-Louis Barrault, ancora di Carné). La Outinen, in una parte minore, restituisce il talento misterioso, minimale, della Arletty e riesce a toccare le corde della commozione senza versare in sentimentalismi di maniera. Le poche scene che riguardano l’informatore della polizia, Jean-Pierre Léaud (l’indimenticabile ragazzo sbandato del capolavoro di François Truffaut, Les Quatre Cents Coups, 1959) rifà se stesso (invecchiato, s’intende) del film di Truffaut, Baisers volés, 1968. Il film, nella sua interezza, dissemina oltre lo schermo quel sentimento libertario di giustizia che è l’esatta misura del dovuto di ogni essere... la giustizia sociale nasce dalle ceneri della burocrazia dello spettacolo che è il boccascena dei demagoghi... occorre difendersi e liberarsi dalla brutalità dei prepotenti, la sovranità popolare è il “miracolo possibile” di una comunità dove il bene di uno è anche il bene di tutti.
La sceneggiatura di Kaurismäki riprende il “realismo magico” del cinema civile espresso nel dopoguerra francese... le inquadrature sono “leggere” e figurano la storia attraverso i gesti, le facce, i comportamenti della vita quotidiana di un intero quartiere... la fotografia di Timo Salminen è sapiente, illumina l’intero film di squarci poetici senza colorismi televisivi e la casa di Marx, il porto di Le Havre, la strada del quartiere dove tutto accade riporta alla grande scrittura cinematografica di Marcel Pagnol, specie La Femme du boulanger (1938) e La Fille du puisatier (1940), che costituiscono l’origine del neorealismo (Roberto Rossellini, diceva). Il montaggio di Timo Linnasalo è corale, spesso brillante, accorda lo sguardo della macchina da presa di Kaurismäki con l’a/convenzionalità degli interpreti in una fioritura estetica/etica che invera i tormenti della libertà personale. L’indignazione di Kaurismäki ripara un torto, dice che nessuna vita umana ha più valore se l’ingiustizia diventa legge...  e un torto fatto a l’ultimo degli uomini è un torto fatto all’intera umanità.
Ci sono film, come quello di Kaurismäki, che hanno la forza epica di rinnovare in noi la misura del mondo e contrastano la fenomenologia del male dispersa nelle strutture consortili del mercimonio dei valori, delle morali, degli ordinamenti conviviali... Miracolo a Le Havre si oppone alla cultura dell’osceno, dell’imbroglio, del brutto che spegne lo stupore e la meraviglia nella rassegnazione e nella complicità della servitù universale... chiede all’anarchia dell’interrogativo il rinnovamento delle speranze e la condivisione della verità come esperienza partecipativa alla fondazione di un’umanità migliore. Dice che il bene della collettività è superiore al bene individuale e più importante di tutto quanto viene orchestrato nell’esercizio del potere... rompere il consenso del silenzio è il primo atto di libertà, il crollo di ogni forma di autoritarismo verrà da sé.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte gennaio 2012


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