“L’odio
degli schiavi per i padroni ha sempre consolidato i loro giochi
invece
di sgretolarli. L’odio incatena al proprio oggetto, anziché liberarsene.
La
volontà di vivere è invece come la sassifraga: circonda la roccia che si oppone
al suo avanzare,
l’accerchia,
scopre la falla, vi si insinua lentamente, la sgretola.
Noi
non riusciremo a sbarazzarci del cinismo neoliberale se non ristabilendo il valore della
vita,
strappando
il prezzo di vendita che gli assegna il mercato”.
Raoul
Vaneigem
Un piccolo gioiello
di cinema sociale/libertario si aggira sugli schermi del mondo... è Miracolo a Le
Havre
(2011), di Aki Kaurismäki. I miracoli sacrali della chiesa o quelli economici
promessi ai proletari (anche a quelli in rivolta, invero pochi) dai governi,
non c’entrano... la favola di Kaurismäki assicura il primato della vita contro
la barbarie burocratica della disumanità predominate... in Francia e in tutto
il mondo occidentale... racconta un’insubordinazione, quella degli ultimi di un
quartiere di Le Havre, che disobbediscono
alle nefandezze dell’ordine costituito che considera i migranti i nuovi schiavi
e mostrano le devastazioni identitarie di parlamenti criminosi che dissipano la
bellezza delle diversità in leggi da avanspettacolo... “la nostra epoca ha
nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni... Noi
abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi” (Albert
Camus), gli indignati della terra non ancora... non si tratta di vivere da
servi, bensì da uomini liberi.
Non c’è storia che non sia della tirannia (o
della rivolta)... e questo, sovente, il cinema evita di trattare... specie
quello italiano... dove la stupidità regna sovrana e ogni biglietto strappato
al botteghino è una sorta di esecuzione dell’intelligenza e della creatività.
La coscienza libertaria interviene nei nostri atti (anche quelli più estremi),
turba l’esecuzione della libertà messa in atto dall’economia politica e mette
in discussione i consensi e i successi dell’industria mercantile
dell’obbedienza. Uno stupido trova sempre
qualcuno più stupido di lui da venerare (in politica, nella chiesa, nella
cultura e perfino nelle distopie dei mass-media). Altrove abbiamo scritto (e lo
grideremo sempre): “La distruzione della società autoritaria/gerarchica è un
gesto rivoluzionario contro il privilegio e l’ingiustizia, e il primo passo
verso la realizzazione di una società senza classi. Davanti alla storia, gli insorti
non sono tenuti a giustificare l’operato delle loro azioni... l’annientamento
del principio di autorità segna l’irruzione creativa degli sfruttati, degli
umiliati, degli offesi nella rivoluzione sociale e si prendono il compito — del
tutto positivo — di mettere fine alla scienza della violenza legiferata e
assolta... le rivolte per la libertà degli ultimi chiedono/vogliono
l’uguaglianza politica di tutti gli uomini e questo sarà possibile solo quando
gli uomini avranno conquistato l’uguaglianza economica e sociale.
Un’organizzazione
priva di governo non solo è possibile ma anche desiderabile (Pierre-Joseph
Proudhon, diceva)... al contrario, qualunque forma di autorità centrale è deprecabile...
la vera intenzione degli uomini in rivolta è la ricerca della felicità (William
Godwin, Paul Goodman o Noam Chomsky hanno scritto pagine meravigliose su questo
principio etico) ed “educare” alla libertà è un atto di fratellanza universale.
La società in anarchia a cui tende l’uomo in rivolta segna la fine dell’ingiustizia
e dell’iniquità... qui non ci sono ostacoli morali né limiti da trasgredire...
l’uso gioioso del corpo, la sessualità liberata, la pratica dell’ospitalità e
dell’accoglienza, l’incantamento per la giustizia e la dolce inclinazione per
la bellezza... esprimono una filosofia dell’esistenza amorosa senza dio né
stato e dove tutto è di tutti”.
Solo l’esecuzione
degli esecutori ci salva dal baratro delle banche, delle borse, dei mercati
globali dell’idiozia con i quali i bravacci dell’Impero tengono a catena i loro
servi e i loro schiavi... l’urgenza libertaria della menzogna di esistere in
questo modo e a questo prezzo è un mezzo, uno strumento, un dispositivo di
insorgenza contro il crimine di lesa dignità della democrazia (figuriamoci per
ciò che riguarda i Paesi dove il comunismo alza le forche e appronta i campi di
sterminio per soffocare le fiamme del dissenso). I popoli impoveriti, come
quelli “civilizzati”, sono complici delle autocrazie che sostengono (non solo
con la scheda elettorale), prima si fanno allievi, poi portavoce e infine
adoratori dei lori boia. Si tratta di scardinare la nullità, l’insignificanza,
l’indifferenza e intaccare la protervia irrazionale della società consumerista. Ribellarsi è
giusto e quando la libertà di uno o di interi popoli è tradita o violata, ogni
forma di resistenza è gradita.
II.
Miracolo a Le Havre
Il miracolo a Le
Havre di Kaurismäki è stato quello di affabulare un film poetico, fortemente
libertario, e racconta la storia di un ragazzino nero, Idrissa (Blondin Miguel)
che fugge alla polizia da un container nel porto francese, dove erano segregati
dei profughi del Mali (in attesa di sbarcare clandestinamente a Londra)... la polizia
lo bracca per acciuffarlo e rispedirlo (magari a calci) nel suo paese... il lustrascarpe
Marcel Marx (André Wilms) lo nasconde in casa, un vicino (Jean-Pierre Léaud) lo
denuncia all’autorità competente (in fatto di discriminazioni sociali)...
intanto Arletty (Kati Outinen), la compagna di Marcel, viene ricoverata
all’ospedale per un cancro... il medico le dice non che c’è più niente da fare,
“restano i miracoli”. Arletty, pronta,
risponde: “Non nel mio quartiere”. Dio non abita nei ghetti, né ci ha mai
soggiornato.
Il quartiere si
mobilita per aiutare il ragazzino a raggiungere l’Inghilterra e congiungersi
con la madre... il verduraio, la fornaia, un vecchio cantante pop (che torna
alla scene per raccogliere una colletta con la quale pagare il viaggio di
Idrissa verso la felicità), un cinese, il capitano di una barca da pesca e
perfino il commissario di polizia (che non è il solito stupido) Monet
(Jean-Pierre Darroussin, notevole “maschera” del cinema libertario di Robert
Guédiguian, specie À
l’attaque,
2000; La
ville est tranquille,
2001) riescono ad aiutare Indrissa prendere il mare verso l’Inghilterra...
Arletty guarisce del cancro e il ciliegio del suo piccolo giardino fiorisce
fuori stagione... in questo quartiere povero di Le Havre, sembra dire
Kaurismäki, citando appunto Miracolo
a Milano di De Sica,
“Buon giorno vuol dire davvero buongiorno!”... non è vero che nei quartieri dei
poveri non avvengono i miracoli, però non sono opera di Dio ma degli uomini in
utopia.
Miracolo a Le
Havre contiene
una filosofia del risveglio... rimanda all’indicibile che si fa storia e sfida
l’immoralità dei governi che contrastano le ondate migratorie di popoli
saccheggiati, violentati, massacrati nel nome santo dello sviluppo... è un
florilegio di libertà, di giustizia, di solidarietà e di bellezza che loda una
civiltà diversa, nuova, amorosa, dove democrazia e diritti dell’uomo non sono
calpestati ma difesi... l’uguaglianza abita il cuore degli spiriti liberi,
degli insorti del bene comune... quando i più l’avranno scoperta si riverserà
nelle strade della terra e con tutti i mezzi necessari restituirà la giustizia
là dove è stata calpestata e derisa... l’uso autentico della libertà significa
avere il diritto di usarla e mettere fine all’umiliazione e alla vergogna...
l’indignazione è solo il primo passo verso una disobbedienza più vasta che
porta alla conquista di una società di liberi e uguali... perché la ricerca
della felicità dello stupido del villaggio vale quanto quella di un genio della
finanza o della politica (ammesso che in questi lebbrosari della tristezza
alberghino dei geni e non dei residuati fascisti).
Il regista
finlandese è acuto narratore di sogni e da visionario libertario qual è, libera
la ricchezza della povertà nella fraternità che scardina frontiere, recinti e
leggi assurde sull’immigrazione... lavora sull’attorialità singolare di Wilms...
che recita per sottrazione, senza troppi gesti né smorfie da guitto del cinema
internazionale (come l’ultimo Robert De Niro, per intenderci)... è una sorta di
Jean Gabin di periferia e mostra che per la dignità, come per l’amore dell’uomo
per l’uomo, non ci sono catene. Si chiama Marx e la sua cagnolina, Laika.
Kaurismäki continua giocare con citazioni abbastanza scoperte... Arletty è il
nome di un’attrice francese di straordinario talento, apparsa in film che fanno
parte della storia autentica del cinema (Hotel du Nord, 1938; Le jour se léve, 1939; di Marcel
Carné, dove affiancava Jean Gabin o Les Enfants du paradais, 1943-1044, con
l’interpretazione monumentale di Jean-Louis Barrault, ancora di Carné). La
Outinen, in una parte minore, restituisce il talento misterioso, minimale,
della Arletty e riesce a toccare le corde della commozione senza versare in
sentimentalismi di maniera. Le poche scene che riguardano l’informatore della
polizia, Jean-Pierre Léaud (l’indimenticabile ragazzo sbandato del capolavoro
di François Truffaut, Les
Quatre Cents Coups,
1959) rifà se stesso (invecchiato, s’intende) del film di Truffaut, Baisers volés, 1968. Il film,
nella sua interezza, dissemina oltre lo schermo quel sentimento libertario di
giustizia che è l’esatta misura del dovuto di ogni essere... la giustizia
sociale nasce dalle ceneri della burocrazia
dello spettacolo
che è il boccascena
dei
demagoghi... occorre difendersi e liberarsi dalla brutalità dei prepotenti, la
sovranità popolare è il “miracolo possibile” di una comunità dove il bene di
uno è anche il bene di tutti.
La sceneggiatura di
Kaurismäki riprende il “realismo magico” del cinema civile espresso nel
dopoguerra francese... le inquadrature sono “leggere” e figurano la storia attraverso
i gesti, le facce, i comportamenti della vita quotidiana di un intero
quartiere... la fotografia di Timo Salminen è sapiente, illumina l’intero film
di squarci poetici senza colorismi televisivi e la casa di Marx, il porto di Le
Havre, la strada del quartiere dove tutto accade riporta alla grande scrittura
cinematografica di Marcel Pagnol, specie La Femme du boulanger (1938) e La Fille du
puisatier
(1940), che costituiscono l’origine del neorealismo (Roberto Rossellini,
diceva). Il montaggio di Timo Linnasalo è corale, spesso brillante, accorda lo
sguardo della macchina da presa di Kaurismäki con l’a/convenzionalità degli
interpreti in una fioritura estetica/etica che invera i tormenti della libertà
personale. L’indignazione di Kaurismäki ripara un torto, dice che nessuna vita
umana ha più valore se l’ingiustizia diventa legge... e un torto fatto a l’ultimo degli uomini è un
torto fatto all’intera umanità.
Ci sono film, come
quello di Kaurismäki, che hanno la forza epica di rinnovare in noi la misura
del mondo e contrastano la fenomenologia del male dispersa nelle strutture consortili
del mercimonio dei valori, delle morali, degli ordinamenti conviviali... Miracolo a Le
Havre
si oppone alla cultura dell’osceno, dell’imbroglio, del brutto che spegne lo
stupore e la meraviglia nella rassegnazione e nella complicità della servitù
universale... chiede all’anarchia dell’interrogativo il rinnovamento delle
speranze e la condivisione della verità come esperienza partecipativa alla
fondazione di un’umanità migliore. Dice che il bene della collettività è
superiore al bene individuale e più importante di tutto quanto viene
orchestrato nell’esercizio del potere... rompere il consenso del silenzio è il
primo atto di libertà, il crollo di ogni forma di autoritarismo verrà da sé.
Piombino,
dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte gennaio 2012
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