I.
L'obbedienza non è mai stata una virtù
Si tira una filosofia, un film o
un’utopia come si tira uno schiaffo, un insulto o un colpo di pistola in bocca
alla tirannide... nessuno degli antichi ha mai chiesto a un filosofo sovversivo
di essere anche un saggio... è sempre l’indignazione a riscattare la storia...
la partitocrazia è un sistema di potere che si regge su perfetti imbecilli
presi troppo sul serio... un libro, un film, una rivolta che lascia l’uomo uguale a com’era prima è una forma di comunicazione fallita... a che pro frequentar e la politica istituzionale,quando basta un ragazzo che tira i sassi contro un carro armato a farci intravedere un altro mondo?... un parlamento senza despoti sarebbe noioso quanto una gabbia senza iene... la fascinazione della barbarie è la pratica più diffusa nella civiltà dello spettacolo. È meglio fare il filatore di utopie che
una tesi di dottorato... la politica è l’assoluto messo alla portata di un cane
da guardia... una società esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di
insubordinazione... l’obbedienza non è mai stata una virtù.
La ventata ereticale, sovversiva,
apolide del cinema situazionista di Debord ha disvelato gli oracoli
dell’ordine spettacolare, liberato la testa e i cuori di quei cospiratori di utopie
che si sono sollevati contro la memoria mortificata della storia, con ogni
mezzo. L’avviso ai civilizzati sulla prossima metamorfosi sociale l’aveva già
pronunciato, da qualche parte, Charles Fourier, con in una tasca del cappotto un
pezzo di pane e nell’altra mezza bottiglia di vino da osteria, mentre giocava
in un giardino di Parigi con un gruppo di ragazzacci di strada che gli
tiravano palle di neve: “Non sacrificate il bene presente al bene avvenire.
Godete del momento, evitate qualsiasi associazione di matrimonio o di interesse
che non soddisfi le vostre passioni immediatamente fin dal primo momento.
Perché lavorereste per il bene futuro, dal momento che questo andrà oltre i
vostri desideri e che non avrete nell’ordine stabilito che un solo dispiacere,
quello di non poter raddoppiare la lunghezza di giorni, per farli bastare
all’immenso giro di godimenti che dovrete percorrere?” (Charles Fourier). — Una
volta sbarazzata la menzogna nel sangue innocente di tutte le infanzie violate,
non può assolvere nessun padre e nessun figlio dalla verità in armi che cessa
di essere rivoluzionaria, quando approda all’emancipazione dell’amore di sé e
per l’altro —.
Le opere cinematografiche di Guy
Debord praticano e allargano la critica radicale della civiltà dello spettacolo. L’utopia situazionista disseminata in questi film s’incentra su una
poetica del fuoco e sulle tentazioni di appiccarlo a tutti i Palazzi d’Inverno.
È l’utopia che guida le passioni e moltiplica i contrasti e i sogni, spezza
destini e annuncia nuove epifanie dell’anima. Dove la merce ha seminato la sua
seduzione non spunta più che la sua tirannia. I falsi bisogni si sostituiscono
all’autenticità dei desideri e la psicologia individuale, la ripetizione dei comportamenti, la seduzione dei corpi in disfatta, prende forma nella filosofia balorda dei grandi magazzini. “Un umanesimo astratto ha sparso ai quattro venti i diritti della libertà e della dignità e coloro che li raccolgono non sono soltanto privati del loro uso, ma vedono per di più impoverirsi una sopravvivenza che, per quanto insufficiente, era almeno necessaria al superamento e al compimento di una vita fondata sull’emancipazione dei desideri.
“La sola libertà effettiva è quella che la merce si attribuisce, di scambiarsi con se stessa e di non aver altro uso. Il futuro così immaginato si lacera tra la volontà di vivere e la potenza del
denaro che ne fa la parodia e la nega assolutamente” (Raoul Vaneigem). Tutto
vero. Gli arrivisti della fatalità e della chiacchiera da portinai sono all’origine di tutte le persecuzioni della storia. Chi si schiera con i giannizzeri del proprio tempo, seppellisce il proprio genio nel letame. “Tremare è facile, ma saper dirigere il proprio tremito è un’arte: da qui derivano tutte le ribellioni” (E.M. Cioran). Chi non ha mai conosciuto la barbarie di un confine, non possiederà mai la saggezza dell’esilio.
Urla in favore di Sade (1952), Sul passaggio di alcune persone attraverso un’unità di tempo piuttosto breve (1959), Critica della separazione (1961), La società dello spettacolo (1973), Confutazione di tutti i giudizi, tanto elogiativi che ostili, che sono stati finora dati sul film «La società dello spettacolo» (1975), In girum imus nocte et consumimur igni (1978), Guy Debord, Son art et son temps (1994), di Guy Debord, realizzato da Brigitte Cornand [1], sono invettive, bestemmie, provocazioni contro tutto quanto figura la degenerazione delle forme di dominio approntate dall’uomo contro l’uomo. Qui Debord insegna che lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa ed è anche la principale produzione di consenso della società moderna. Lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca. “Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia... Lo spettacolo non vanta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni” (Guy E. Debord). Ecco perché ogni merce è anche una confessione e la coscienza del desiderio o dei piaceri inconfessati si trascolora in genuflessione d’infelicità e solitudini senza desideri.
II. La società
dello spettacolo
La società dello spettacolo non è certo il film più estremo di Debord, ma la sua irriverenza eretica, eversiva o blasfema lo sposta nel cinema degli indesiderabili, dei folli o dei banditi di professione alla Bonnot. Jules Bonnot, come sanno bene gli insegnanti dei corsi di perfezionamento storico per i nuovi addetti ai servizi segreti… era un bandito anarchico col vezzo per l’ironia e lo sbeffeggio alla Robin Hood. Al grido “Morte alla borghesia!” rapinava banche, società per azioni e qualche volta uccise anche autisti solerti e ispettori di polizia. I ricchi hanno troppo, i poveri nulla. È giusto rubare
ai ricchi e vivere un po’ tutti meglio. Fu ammazzato dalla polizia il 28 aprile
1912 con queste idee in testa. Molte donne del popolo piansero. I bambini
sognavano le sue gesta e cantavano la canzone della Banda Bonnot: “Suvvia!
Dietrofront e di corsa!/e senza far gesuitismi!/Squagliarsi, schifosi, se
no/fischiano le pallottole/della Banda Bonnot!”. I borghesi stapparono le
bottiglie del vino buono e corsero in massa a comprare i giornali illustrati
dove si vedeva Jules Bonnot morto su un pancaccio. La stampa anarchica
dell’epoca lo raffigurò come un degenerato che rubava alla stregua di un
“volgare capitalista”. In questura furono d’accordo con tutti e dissero: un
bastardo di meno!
Guy E. Debord è stato un bandito senza bandiere e un poeta del sampietrino… la sua figura di ribelle corrisponde a
quella dall’Anarca descritto da Ernst Jünger nel suo mirabile trattato sulla ribellione del singolo che si dissocia dalla società. Il ribelle jüngeriano (come i costruttori di situazioni alla Debord) sa di non appartenere più a niente e varca con le proprie forze il meridiano zero della disobbedienza. I ribelli della ribellione jüngeriana (come i
disertori di ogni arte, ideologia o fede situazionisti) portano in sé tutta l’eredità del nichilismo, del radicalismo romantico e della furia anti-autoritaria che si concentrano nella modernità come sommario di regole e leggi che non li riguardano o, meglio, contro le quali lottano per conquistarsi il diritto di dire no! ad ogni governo, ogni dottrina, ogni forma di morale per mezzo di professionisti della rivoluzione, anche.
Nelle storiografie cinematografiche del nuovo millennio Debord è praticamente ignorato e solo qualche studio sul cinema come arte d’avanguardia o schedatura politica del ‘68... gli dedica
poche righe. Non è cosa nuova. Il male dell’intelligenza è una sorta d’incantesimo. È per questo che i film di Debord, come quelli di Marguerite Duras, Robert Kramer o Chris Marker (Gianfranco Baruchello o Alberto Grifi) sono confinati a poche visoni di poeti dello sguardo o viandanti del sogno... sono opere che decostruiscono (senza mezzi termini) gli eroi di spazzatura dell’idolatria, della cultura o della merce e gridano che la miseria intellettuale e sociale dell’immaginario planetario poggia sulle guerre, i campi di sterminio o il post-colonialismo che una manica di predoni assetati di sangue ha eretto contro l’umanità.
“La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più se non gli interlocutori
fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica
della loro merce. Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo «segno
dello specchio». Qui si mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo
generalizzato” (Guy E. Debord). L’impero del linguaggio massmediatico è uno dei
vertici dell’infamia del potere.
Gli sputi di un pensiero rivolto
contro tutte le direzioni è insopportabile ad ogni tirannia. È nella dismisura
dell’essere che gli invasati della libertà e dell’amore si fanno eretici a
tutto. Sono i luoghi comuni che rendono stupidi. È il reale mercificato che
ammazza la vita. Solo l’utopia rende possibile la rivolta. Non si tratta tanto
di lavorare alla liquidazione di qualsiasi autorità, quanto di non riconoscere
nessuna autorità all’infuori delle passioni e delle turbolenze del cuore.
L’utopia è un risveglio. Un ritorno all’età d’oro della bellezza o della
rifioritura del senso di accoglienza, di fratellanza, di sorellanza che gli
uomini e le donne si portano nell’anima. È l’età d’oro cantata da Esiodo: “Gli
uomini vivevano allora come gli dèi, col cuore libero da preoccupazioni,
lontano dal lavoro e dal dolore. La triste vecchiaia non andava a visitarli e,
mantenendo per tutta la vita il vigore dei piedi e delle mani, assaporavano la
gioia nei banchetti al riparo di ogni male. Morivano come ci si addormenta,
vinti dal sonno. Tutti i beni appartenevano a loro. La fertile campagna offriva
spontaneamente un cibo abbondante, di cui godevano a piacimento”. Non esisteva
la morale di servi perché era stata bandita la morale dei padroni.
Tenersi in disparte significa non
confondersi con nulla. Occorre maggiore finezza per fare a meno di ogni simulacro e ritrovarsi insieme ai quasi adatti nell’età dell’innocenza o della rivolta. Il ritorno o la deriva verso l’età dell’innocenza non è nostalgia per qualcosa che è stato e che forse non sarà più. Non è il segno di una condizione infantile alla quale ritornare perché il reale che ci circonda fa schifo. È ri/vivere piuttosto il rimpianto delle perdute possibilità creative, amicali, amorose dell’infanzia... le capacità di meravigliarsi, di sognare a occhi aperti, di rendersi liberi ed amare senza chiedere perché. L’amore è sempre un risorgere. I bambini non hanno bisogno di regni per essere dei re. L’immaginario è il luogo dove ogni linguaggio supera se stesso e la rêverie della malinconia si trascolora in stupore per l’esistenza... ma solo la rivolta e la supremazia della bellezza possono essere la via per la ri/scoperta dell’età dell’innocenza. Il sapere (la conoscenza, la condivisione o la solidarietà) o la saggezza insensata di amare (il rispetto, la dignità o l’esilio) non sono stati molto frequentati nella civiltà dello spettacolo, e così occorre che nuovi piccoli prometei dell’utopia s’innalzino ancora in volo come angeli ribelli e dentro un’estetica dell’umano rubino il fuoco celeste degli dèi per regalarlo di nuovo agli uomini.
La società dello spettacolo si apre con una dedica visiva su Alice Becker-Ho e il parlato dice così: “Poiché ogni
sentimento particolare è solo vita parziale, e non la vita intera, la vita arde
di espandersi nella diversità dei sentimenti, per ritrovarsi in questa somma della
diversità... Nell’amore esiste ancora il separato, ma non più come separato,
come unito; e il vivente incontra il vivente”. Debord assembla fotografie
pubblicitarie, documenti storici, pezzi di film, e le tesi del suo testo La
società dello spettacolo sono disseminate (in modo sparso e non del tutto
preciso) su queste immagini:
— La Terra filmata da un razzo
spaziale, uno strip-tease, schermi televisivi nei locali della questura di
Parigi, per il controllo della metropolitana ed altre zone della città, la
morte in diretta dell’assassino di Kennedy, Oswald, gli scioperi degli operai,
una sfilata di moda, le catene di montaggio, immagini di vacanza, sottomarini
nucleari, Fidel Castro che parla davanti alle telecamere, una folla sterminata,
una portaerei che punta i missili e li lancia in ogni direzione, bombardamenti
aerei nel Vietnam, cosmonauti sulla Luna con una bandiera, la battaglia
economica della Borsa, poliziotti a cavallo che bastonano dei giovani ribelli,
una coppia distesa sul letto guarda la televisione, lavoratori immigrati ai
piedi di giganteschi edifici, le guardie bianche russe marciano contro i partigiani.
Una mitragliatrice spara contro le guardie bianche, che avanzano senza sparare.
Uno dice: “Che portamento!”, e l’altro conclude: “Degli intellettuali!”. I
Bianchi continuano ad avanzare, nonostante le perdite, e innestano la baionetta
in canna. Alcuni partigiani indietreggiano. Qualcuno grida: “Siamo perduti!”.
Il commissario politico li incita ad andare avanti. Il reggimento zarista, il
cui allineamento resta perfetto, sta per entrare in contatto con la prima linea
dei Rossi. Molti dei Bianchi sono falciati dalla mitragliatrice.
Due porti al tramonto. Volti
femminili. Lo stalinista Marchais in un comizio elettorale. Folla in una sala
cinematografica. La fotografia di una ragazza nuda. Pompidou visita il Salone
dell’Automobile. Cover-girls in costume da bagno. La fabbrica di Marghera che
inquina Venezia. Altre fabbriche che inquinano Città del Messico. Montagne
d’immondizie davanti alla chiesa di Saint-Nicolas-des-Champs. L’acqua sporca
della Senna. La sommossa di Watts. Incendi, azioni e arresti delle forze
dell’ordine. Esercitazione della polizia al combattimento nelle strade.
Poliziotti travestiti da estremisti erigono una barricata e inalberano la
bandiera nera. I loro colleghi conquistano subito la barricata. Mao Tse-tung
riceve paternamente a Pechino il presidente Nixon. Mitragliamento sul Vietnam.
Un prete benedice un sottomarino nucleare. Automobili nella città. Johnny
Holliday canta rotolandosi in terra. I Beatles scendono dall’aereo e sono
accolti dai giovani in delirio. Marilyn Monroe durante le riprese del suo
ultimo film incompiuto. François Mitterand. Ancora Marilyn. Operai tedeschi
prima dell’ascesa di Hitler al potere leggono un volantino caduto da un
abbaino. Un reparto della polizia francese. Prigionieri vietnamiti.
Hitler attraversa le schiere dei suoi seguaci e monta su una tribuna monumentale. Brežnev e altri burocrati in
tribuna a Mosca. I loro sudditi sfilano davanti a loro. Esercitazioni Nato.
Pubblicità di un carro armato gigante. Automobili, cibi spettacolari, pittura
antica, arredamento moderno, ragazze esotiche, arrivo della metropolitana in
una stazione. Erosione delle statue su una chiesa veneziana. Torte alla crema.
Mao e Lin Piao. Stalin davanti alla folla e al ritratto di Lenin. Dell’insurrezione
dei lavoratori ungheresi non restano che gli stivali. Imballaggi di una
fabbrica. Buenaventura Durruti. Cartello: “Ma viviamo noi, proletari, viviamo
noi? Quest’età di cui teniamo il conto, e dove tutto ciò che contiamo non ci
appartiene più, è una gita forse? e possiamo non accorgerci di ciò che senza
posa perdiamo con gli anni?”.
Un marinaio di Ottobre in primo piano scuote la testa. Durruti lo guarda. Cartello: “Il cibo e il riposo non sono deboli rimedi alla continua malattia che ci travaglia? e quella che chiamiamo l’ultima, che altro è, a ben guardare, se non un raddoppio, l’ultimo accesso del male che portiamo al mondo nascendo?”. Navi da guerra. Fucilieri francesi. Soldati inglesi in
battaglia. La fanteria coloniale francese. Turisti a Parigi. Plastici per
luoghi di vacanza. L’incrociatore Aurora risale la Neva sul finire della notte.
Lo sbarco dei marinai. La torre di Babele. Il quadro di un primitivo italiano.
Johnny Guitar in un saloon. Operai in una fabbrica di pneumatici. Saint-Tropez.
Aeroplani che decollano da una portaerei. Johnny Guitar, Dancing Kid e Vienna
in un saloon. Cavalleria franchista. Un frammento di Per chi suona la campana. Il trittico di Paolo Uccello: La Battaglia di San Romano. Brežnev e i burocrati comunisti a Mosca. I fucilieri della Potëmkin si rifiutano di sparare sui loro
compagni ammutinati. Un reggimento di cavalleria, sciabola in mano, inizia una
carica. Assemblee rivoluzionarie negli edifici occupati, nel maggio 1968. Il
generale Sheridan entra in un forte. Assegna al colonnello una missione rischiosa:
“Se fallite, posso assicurarvi che il consiglio di Guerra che vi giudicherà
sarà composto dai nostri vecchi compagni dello Shenandoah”. La Borsa di Parigi.
Combattimenti per le strade in Olanda, Irlanda e Inghilterra. Ragazze nere che
danzano. Un reparto di marinai di Kronštadt attacca alla baionetta sotto il
fuoco della mitragliatrice. I giorni della rivoluzione sociale di Barcellona e
Pietrogrado. La guerra di Secessione. Piante del Palazzo d’Inverno e del Palazzo
delle Tuileries. La guerra civile di Spagna. La guerra di Secessione. I marinai
di Kronštadt proseguono verso la vittoria. Il Palazzo d’Inverno è preso
d’assalto. La colonna Vendôme viene abbattuta.
Bakunin e Marx. Trotsky. La sfilata dell'Armata Rossa. Cannoni e missili. Sulle scalinate di Odessa le truppe
zariste sparano contro i manifestanti. Mitterand e Marchais. Brežnev? 1968. Gli
operai occupano la Renault. Stalin. Sindacalisti. Un ufficiale nazista. Il
dittatore Franco. Carri armati tedeschi. Le Brigate Internazionali in Spagna.
Le barricate del maggio 1968. Combattimenti nella notte. Incendi. Il quartiere
latino alle primi luci dell’alba. Assemblea generale nella Sorbona. Carrellata
sui membri del Comitato Enragés-Internazionale Situazionista. Debord. Un
cartello: “E fino alla fine del mondo dello spettacolo, il mese di maggio non
tornerà più senza che ci si ricordi di noi”. Christian Sébastian, Guy Debord,
Patrick Cheval. Alcuni aspetti della Sorbona. Cartello: “Corri compagno, il
vecchio mondo è dietro di te!”.
Fiamme nella notte. La polizia in
azione. I giovani lumpen difendono i tetti di Saint-Jacques. Scontri di piazza
in Italia. Lenin che pronuncia un discorso. Caroselli della polizia in Italia.
Carri armati russi contro gli operai tedeschi. La polizia americana carica i
neri in rivolta. Il 7° Michigan al galoppo. Nel corso di un ballo mascherato,
nel suo castello in Spagna, Arkadin (Orson Welles) con un bicchiere in mano:
“Niente discorsi. Propongo un brindisi alla maniera georgiana. In Georgia i
brindisi cominciano con un racconto... Ho sognato un cimitero dove gli epitaffi
erano bizzarri, 1822-1826, 1930-1934... Si muore ben giovani qui, dico a
qualcuno; il tempo è molto breve fra la nascita e la morte. Non più che
altrove, mi si risponde, ma qui, come anni di vita, contano solo gli anni che è
durata un’amicizia. Beviamo all’amicizia!”. Ivan Chtcheglov. Asger Jorn. La
cavalleria del 7° Michigan continua la carica... —. Détournement dei film di John Ford (Rio Bravo), Nicholas Ray (Johnny Guitar), Joseph von Sternberg (I misteri di Shanghai), Orson Welles (Arkadin), Sam Wood (Per chi suona la campana), Raoul Walsh (La carica fantastica) e diversi altri frammenti di film dei Paesi socialisti —.
Il procedimento estetico adottato da Debord per La società dello spettacolo non è del tutto nuovo (né vuole
esserlo). Vertov, Kramer, Marker, Pasolini (il cinema sperimentale o il cinema
surrealista, il cinema underground o il cinema di trasgressione)... avevano già
usato questo modo di fare-cinema e attraverso un’estetica della profanazione
politica e dell’invettiva poetica erano riusciti a buttare sullo schermo una
critica del disgusto e dell’insorgenza. Debord fa questo e altro ed è geniale.
Affabula un film/testo dove l’immaginale del pubblico non è più luogo/spazio
passivo (o intrattenimento domenicale per famiglie dabbene), ma diviene
crogiuolo di uno specchio/schermo che strappa, disvela o rifiuta la
sequenzialità e l’intreccio della scrittura filmica convenzionale. L’asincronia
delle immagini con il parlato si trascolorano in una sorta di manifesto ereticale, e in questo scombinato passaggio di fine secolo assumono (oltre la sindone
schermica) una critica radicale della separazione buttata contro la falsa via
d’uscita della società mercantile.
I segmenti documentari o di finzione intrecciati da Debord alle sue tesi filosofiche diventano altro dall’uso
originario, e per una strana magia (e sapienza di montaggio metaforico) aprono
il film a nuove emozioni che riscoprono le cadute comunicazionali ed amplificano o trasgrediscono (attraverso la citazione rovesciata, reinterpretata o détournata...) la rapina, l’odio e la violenza insiti nei meccanismi dell’ordinario. Le visioni immaginarie del passato perdono l’aura del mito o della cronaca e si mescolano ad altre possibilità poetiche dove tutto il vero del mondo risulta falso e morente. Il film di Debord è una sorta di apologo sulla disobbedienza, la diserzione, la rottura contro
tutto quanto fa spettacolo... è una specie di prontuario del margine che in
molti modi guida le passioni, moltiplica i conflitti e infrange i destini/contenitori delle virtù istituite e codificate.
Con La società dello spettacolo Debord elabora una teoria filmica del disincanto e dell’eversione, lavora sulla coscienza critica del dissidio. Spacca i paramenti della realtà fittizia sorta nello spettacolo perché è nel mondo radicalmente ribaltato il vero momento del falso e nello spettacolo si cela e implode l’immagine/l’icona dell’economia politica dominante. Lo spettacolo è la ricostruzione immaginifica della menzogna religiosa, della propaganda ideologica o della dittatura del consenso. Lo spettacolo è il momento in cui la merce, qualsiasi merce, giunge a fiorire in ogni soggetto e l’ostia
massmediatica diviene il collante o la catena relazionale della comunità. L’opera di Debord assume su di sé la critica globale dell’ordinamento sociale e qui nessuno scende a patti. L’anatema contro tutti gli aspetti della vita quotidiana alienata è annunciato, disseminato sullo schermo “a gatto selvaggio”. L’intento di Debord è quello di trasformare, contaminare, riorientare la percezione della visione filmica e fare dello spaesamento poetico (della costruzione delle situazioni) il grimaldello estetico per il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato.
Il cinema di situazione di Debord disvela l’universo mercantile della politica, della fede, dei saperi… rende
visibile la miseria pratica della civilizzazione delle masse e dentro una
surrealtà che costituisce, al tempo stesso, tutta la mediocrità della realtà
dello spettacolo e tutta la ricchezza della sua liquidazione. Non è solo Debord
a cogliere l’importanza della costruzione delle situazioni in rapporto al
cambiamento che le situazioni costruite portano all’interno dell’uomo, e quindi
dell’ambiente nel quale sono vissute. A ben vedere, nel Dizionario del
cattolicesimo moderno, alla parola «situazione» è dedicato molto spazio. Qui si
legge: “Situazione. Le circostanze del momento, come episodio dello sviluppo
nel quale l’uomo si trova, costituiscono la s. Le s. mutano variamente, ed in
questo mutamento stanno sotto l’influsso del passato. Le s. storiche generali,
i cui soggetti sono l’umanità ed i suoi gruppi (per es. guerra o pace, ascesa o
decadenza di una nazione, le tensioni sociali), e le condizioni di vita
personali di un essere umano (per es. ricchezza o povertà, salute o malattia),
unite alla sorte ed al volere degli altri uomini, del «prossimo», si fondono,
nei singoli periodi di vita, in determinate s. singole, nelle quali l’uomo
vive; ogni s. si realizza una sola volta e non si può né ripetere né scambiare.
Nella s. si manifesta il carattere storico della vita. L’uomo non si sviluppa
soltanto come le piante e gli animali, ma con la sua decisione afferra nel suo
passato un pezzo di futuro, che egli determina in questa o quella maniera. Così
si fa la storia (v. Storia), il presente diviene il campo delle decisioni e
l’uomo stesso diventa continuamente altro”. Siate decisi a disobbedire e sarete
liberi.
L’etica della situazione di Debord straccia però tutto quanto la dottrina cristiana predica dai suoi pulpiti, e
cioè che l’atto morale (il processo dell’agire) dell’uomo gli giunge attraverso
la guida e la grazia di Dio. La costruzione delle situazioni alle quali si
richiama Debord sono accadimenti, eventi, strappi dell’ordine sociale che è
succube di un dominio, un sovrano o un dittatore. Per quanto riguarda la
stagnazione del politico al fondo delle democrazie o delle utopie su un buon
governo, non è difficile scorgere qui i processi di politiche della repressione
e nuove forme di domesticazione sociale che attentano alle libertà fondamentali
dell’uomo. L’ordine è solo convenzione. Modello di qualcosa che poggia il
proprio successo sulla servitù e la spartizione del mercato globale. Ogni
genocidio ha i suoi teatri. Alle guerre dei privilegiati rispondono schegge
impazzite del terrorismo internazionale. Sono la stessa gente che un tempo
militava nelle stesse bande (impugnano pistole della stessa fondina). Il
terrorismo (come le stragi orchestrate dai servizi segreti di ogni Stato) è
funzionale all’instaurazione di un ordine più duro. Non si tratta di fare fuoco
sugli orsi sapienti delle canaglie di Stato per mettere fine all’inumanità
dello spettacolo, ma occorre farla finita col giudizio di Dio e la
circolazione della menzogna, e fare dell’amore tra le genti il primo volo verso
la conquista di un mondo illuminato dalla bellezza.
L’utopia situazionista (non solo filmica) di Debord contiene quel fascino dell’impossibile che disperde ovunque
un disordine da fine del mondo... è un’idea di felicità che minaccia da vicino
le stigmate del provvisorio e del rilucente sulle quali l’umanità ha eretto le
proprie forche e i propri successi elettorali. Ma una società che è incapace di
generare un’Utopia per la quale buttare alle ortiche frontiere, armi e campi di
sterminio... una società che è incapace di vedere nella pace la tenerezza e la
fraternità tra gli uomini... una società che non vede il grido di dolore dei
poveri e non si accorge delle ferite ecologiche che infierisce contro il
pianeta... è una società sclerotizzata e votata alla propria rovina. Le
“cattive cause” richiedono coraggio e talento. Ci sono cose che s’infrangono
mostrandole. Ci sono altre cose che vanno aiutate a cadere. Lo spettacolo di
una civiltà senza futuro è già qui. Non resta che l’Utopia a farsi strada, e
proprio là dove i saperi dell’economia, della politica e della fede sono
riconducibili al crimine legalizzato/istituzionalizzato. Allora è nelle
sfumature del dissidio che si combatte l’ultima carica dell’irragionevolezza
amorosa portata avanti dagli utopisti... e gli utopisti sono i soli eredi
impertinenti, insurrezionali, delle memorie storiche calpestate, umiliate e
offese... e loro, solo loro, metteranno fine alla menzogna spettacolarizzata
dell’esistenza. A dispetto di tutto, non c’è storia che non sia quella della
bellezza dell’anima. Si tratta di non radicarsi, di non appartenere a nessuna
società, a nessuna cosca, a nessuna gogna... essere stranieri a se stessi
significa appartenere al mondo e fare dell’indecenza di vivere senza sfruttare
né essere sfruttati lo straordinario e il principio di tutti i sorrisi a
venire.
The End
Note
La società dello spettacolo:
scritto e diretto da Guy E. Debord. Montaggio, Martin Barraque. Assistenti
registi, Jean Jacques Raspaud e Gianfranco Sanguinetti. Musica, Michel
Corrette. Voce italiana, Christian Jaime. Détournement
dei film di John Ford (Rio
Bravo), Nichoals Ray (Johnny
Guitar), Joseph von Sternberg (I
misteri di Shanghai), Orson Welles (Arkadin),
Sam Wood (Per chi suona la campana),
Raoul Walsh (La carica fantastica) e
diversi altri frammenti di film dei Paesi socialisti. 90 minuti. Bianco &
nero. La voce originale (in sottofondo) dell’edizione in lingua francese è di
Guy-E. Debord. Il testo della versione francese è ripreso dalla prima edizione
de La Société du spectacle
(1967). Una delle versioni italiane in videocassetta è uscita a cura di
Nautilus nel 1996 e il testo utilizzato per questa traduzione (Paolo Salvadori)
segue quello che si trova in Opere cinematografiche di Guy Debord, Arcana
1980.
[1] Pino Bertelli, Guy-E. Debord. Il cinema è morto, La Fiaccola, 2005.