II. Pasolini
Il Pasolini di Abel Ferrara riannoda le ultime 48 ore che precedono l'assassinio del poeta… le parole pasoliniane lo attraversano tutto… ci sono gli echi di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’anarchia sensuale di Petrolio (il libro che stava scrivendo), i rimandi al film Porno-Teo-Kolossal al quale stava pensando… i ragazzi della periferia romana, la ricerca di un pompino, le ultime interviste al giornalista Furio Colombo e ad una TV francese, la sera passata al ristorante il Pommidoro (San Lorenzo) fino alla sua efferata uccisione sulla spiaggia di Ostia per mano di Pino Pelosi (detto la rana), un marchettaro semianalfabeta, con la complicità, forse, di un branco di fascisti. Era la notte del 2 novembre 1975.
Ferrara dice che ha letto e studiato a fondo il vocabolario letterario/cinematografico di Pasolini… ha incontrato amici, testimoni, parenti che l'hanno frequentato, tuttavia a vedere il suo film sembra che abbia compreso poco della portata eversiva che l'insieme dell'opera pasoliniana contiene. Quando si è segnati dalla tara originaria del successo ad ogni costo, si cade nel riflesso imbalsamato del mito. Il superamento del mito, come sappiamo da Mircea Eliade, fa parte della rimozione e come rimosso si porta dietro la riapparizione di ciò che dice di combattere e la sua restaurazione: è sempre il tragico contro il mitico che muove il libero pensiero e lo cancella per sempre.
Al Festival del cinema di Venezia 71, dove il film di Ferrara è stato proiettato in gran spolvero mediatico, critica e pubblico rendono al film (o a Pasolini?) dieci minuti di applausi e ovazioni. Eredi dell'impostura, prendiamo coscienza di noi stessi solo affinando i supplizi inceneriti delle idee dominanti. L'idolatria del divenire è una contraffazione, un raggiro, un tradimento della realtà e non c'è da stupirsi che l'ultimo degli stupidi si faccia primo ministro di una nazione di isterici… sono gli stessi che a suo tempo hanno condannato Pasolini (la sinistra comunista specialmente) su piedistalli di sputi e richiesto le garrotte o inamidato il dispregio verso l'onorabilità della rivolta… quale che sia… contro l'esistenza senza qualità dell'ordine costituito.
Pasolini è orchestrato come un formulario ad incastri… non c'è narrazione (e questo non è un male), ma una sorta di storielle piuttosto slavate (tratte naturalmente da fatti accaduti, in parte) di facile presa sul pubblico. Non è cosa da Ferrara. Almeno dell'autore de Il cattivo tenente (1992) o 4:44 Last Day On Earth (2011), un piccolo gioiello di indimenticabile bellezza strutturale. In Pasolini il regista americano lavora sull'inconscio del protagonista e come i personaggi dirompenti della sua filmografia (vampiri, killer, poliziotti corrotti) esibisce in uno scombinato moralismo il corpo in amore del poeta. Avrebbe dovuto sapere che i moralisti senza morale (come Pasolini) misurano il valore di un individuo dal numero dei suoi disaccordi con la ragione imposta, dalla sua capacità di essere indifferente alle simulazioni del conformismo e dal rifiuto di partecipare all'imperio volgare del ciarpame istituzionale.
Per tutto questo ed altro ancora, Pasolini è un film sbagliato. Ferrara non capisce nulla della visione poetica, ereticale, libertaria di Pasolini… figura scomoda per destre e sinistre, partiti e chiese, conventicole extra-parlamentari e sottomondi di ordinarie kermesse intellettuali… non comprende nemmeno il mistero della conoscenza e il cantico della riflessione che disperdeva nelle sue passioni… anche quando dragava i ragazzi del sottoproletariato metropolitano per farci l'amore in cambio di una cena sul Tevere e un po' di soldi. Pasolini, va detto, taglia la cultura (non solo cinematografica) in due: c'è un prima di lui e un dopo lui, il resto è spesso stupidità riciclata nell'apoteosi della civiltà consumerista.
Il ritratto di Pa' (come lo chiamavano gli amici) non ha spessore né ricompone la fusione di arte, morale, etica, estetica di un uomo che ha conferito alla coscienza personale un tono, un aspetto, uno stile… che ha dissacrato i bravacci del colpo di grazia, i dispregiatori della libertà, l'onnipotenza dei padroni dell'immaginario… che ha lottato contro i parassiti di ogni casta e fatto del pensiero dionisiaco l'autobiografia della propria esistenza… un apolide di genio che ha cantato la collera dei popoli e reso la vergogna di ogni potere ancora più vergognosa.
Né in vita né dopo il suo assassinio Pasolini è stato mai amato… l'italietta catto/fascista e comunista lo ha relegato nel girone dei dissennati della ragione e occorre leggere, rileggere, meditare, pensare, vedere, ritornare sulle parole, le immagini, le allegorie, le invettive che ha buttato contro i falansteri della devastazione sociale, per cogliere la portata eversiva della sua lezione antropologica della storia che, sotto ogni taglio la si veda, ha rappresentato il nichilismo istituzionale e l'anatomia predona di un'epoca.
La sceneggiatura di Pasolini stesa da Ferrara e Maurizio Braucci si prende notevoli rischi… rimastica luoghi comuni e rimescola avvenimenti storici un po' alla buona… Ferrara non approfondisce né l'uomo né il poeta, tantomeno il cineasta… aggroviglia abbastanza male pezzi di libri, cronache, racconti o bestemmie che hanno investito Pasolini come omosessuale, interprete di un risentimento creativo destinato alla disaffezione verso i potenti, che ha impersonato il dissidio contro la cattività del buon governo e si è fatto flâneur delle periferie della terra per imparare ad abbandonarsi alla gioia.
La parata degli interpreti è davvero stupefacente… la fisionomia di Dafoe con Pasolini è accattivante… i gesti, le posture, gli sguardi, i silenzi di Pasolini però non ci sono… c'è l'abituale spavalderia newyorkese, ma non l'atmosfera emarginata romana. L'attore americano si butta con professionalità (quasi teatrale) nei panni del poeta ma, si vede, non ne comprende la statura emotiva o il coraggio della sofferenza che Pasolini disperdeva nel passaggio dal conflitto sociale ai fremiti della propria amorevolezza disingannata. Dafoe fa Dafoe, cioè interpreta se stesso (perfino bene), ma nulla c'entra con la vitalità ereticale di Pasolini… non sa giocare nemmeno a pallone e l'omosessualità del poeta è figurata in un coacervo di fatalità priva di sostanza. La villania ereticale di Pasolini la si detestava, la si temeva e la sfrontatezza delle sue collere si abbatteva contro terrori di prima qualità… solo a prezzo di grandi rotture sociali un uomo o un popolo diventa protagonista della propria storia, e Pasolini sapeva bene che la distruzione dei simulacri porta con sé quella dei pregiudizi.
Il ruolo di Ninetto Davoli è affidato a Riccardo Scamarcio, figuriamoci! L'attore più bovino della cinematografia italiana! Fa il coglione anche qui! Abolisce l'intelligenza selvatica del vero Davoli… quel sorriso fanciullesco che nel cinema di Pasolini lo ha portato a coniugare il talento dell'improvvisazione con la resurrezione della commedia dell'arte. Niente lo salva dalla banalità attoriale né ha mai colto l'opportunità di non cadere nel ridicolo. Valerio Mastandrea è Nico Naldini… cugino di Pasolini, poeta valente in lingua friulana, scrittore di vaglio, depositario di molte cose (anche intime) sul poeta. Mastandrea, simpatico commediante altrove, qui fa il serio… ciò che fuoriesce dallo schermo però è qualcosa confinata tra lo sceneggiato televisivo e un talk-show. Che idea voler piacere ad ogni costo… solo i buffoni di Shakespeare avevano ereditato lo sberleffo, il gusto, la rabbia della dissacrazione/dissociazione e messo fine a secoli di nevrastenia attoriale… per loro il re non era solo nudo ma morto! Il loro esempio più acuto? Abbracciare e tradire tutte le cause che portano all'inginocchiatoio o alla catena.
Adriana Asti, attrice di fine levatura (non solo) in Accattone (1961) di Pasolini (dove interpreta Amore, una lucciola del Pigneto)… qui è Susanna, la madre di Pasolini… forse la sola che in qualche modo si salva dalla mediocrità generale… resta nelle corde della memoria pasoliniana e si sbarazza del maternale compiaciuto che il regista cerca di cucirle addosso. Quando l'amore cessa di essere fonte di stupore o di scandalo, anche le intelligenze più feconde muoiono o abdicano alla tolleranza, ma Pasolini non voleva essere tollerato, solo compreso. C'è di che ridere di Maria de Medeiros nei panni di Laura Betti… l'attrice portoghese fa bene la cuoca in altri film, ma nulla ha in comune con l'esuberanza ingombrante della Betti… il fervore sensuale, anche impudico, che univa l'amicizia amorosa della Betti con Pasolini (tanto che lui stesso la chiamava "mia moglie") implicava l'intima bellezza dell'anarchia (che Ferrara non contempla)… il loro strappo più accidioso era quello di rigettare la cultura dell'ostaggio e aderire a tutte le insurrezioni dell'intelligenza in difesa della bellezza e della giustizia.
La voce di Pasolini è affidata Fabrizio Gifuni e si dispiega in una dizione da teatrante, poco aderente alla sensibilità discorsiva, carica di coraggio, temperanza e pietà del poeta. Pasolini non aveva esitazioni… denunciava gli spiriti servili, i fanatici dell'insensato, i giullari della politica, gli impostori della chiesa e rifiutava alla radice i valori accettati… procedeva dalla parola al vissuto quotidiano… lavorava sulla finitezza dei linguaggi perché sapeva che la degradazione di un uomo o di un popolo è annunciata nella degradazione comunicazionale di una civiltà. Luca Lionello è il narratore… anch'esso impostato secondo i canoni e la dizione abituale alla scatola televisiva. Il miagolio di Chiara Caselli, che dà la voce a Laura Betti, è appena comprensibile. Quasi un accidente. Qualcosa che richiama il pensiero unidimensionale della pubblicità.
Ninetto Davoli è Epifanio… il re magio che insegue la cometa per andare verso il paradiso e scopre che non c'è! Era la parte che Pasolini voleva affidare a Eduardo De Filippo in Porno-Teo-Kolossal. Davoli, come sempre, è bravo, ha scritto in faccia il destino, il piacere o il dolore che accompagnano la sofferenza antica dell'emarginazione… il suo ghigno beffardo, il sorriso spavaldo, la gestualità da marionetta plebea contengono la maestria della sopravvivenza e un lignaggio ereticale nel quale, grande o piccolo, trova il suo posto danzante nell'arte di vivere.
In Pasolini c'è anche Graziella Chiercossi, una cugina di Pasolini (e non poteva mancare, visto l'affetto che il poeta portava a questa ragazza discreta). Giada Colagrande (moglie di Dafoe e autrice di film di un certo interesse architetturale, emozionale, come Aprimi il cuore, 2002, o Bob Wilson’s Life & Death of Marina Abramovic, 2012) esprime una recitazione stralunata, ricorda con tatto la persona che molte volte ha accolto confidenze, illusioni e desideri di Pasolini, perfino le lacrime. Degli altri comprimari meglio non parlare. Altrimenti ci assalgono vomiti, crampi, emicranie… nello smarrimento generale ciascuno si spaccia per patrono del gesto estremo e nemmeno un pompino di un certo rilievo fa più scandalo in una società dove lo scandalo è la regola assolta dei lebbrosi della politica.
La fotografia di Stefano Falivene gioca la carta naturalista e niente ha a che vedere con il sole bruciato di Roma, per non dire della luce crepuscolare, quasi amatoriale degli interni. Il montaggio di Fabio Nunziata mette insieme una griglia di sequenze strampalate e i raccordi, anche i più semplici, sono lasciati alla deriva attoriale di Dafoe… sempre troppo lungo sulla vicenda che interpreta, e gli altri sempre troppo tagliati. Il film è parlato in italiano, romano e molto in inglese… i punti cardine sono l'intervista di Pasolini a Colombo e l'altra data a una TV francese… dentro galleggia l'immaginario pasoliniano di Ferrara. La tesi del film è quella del primo processo contro Pino Pelosi del '76: il verdetto di omicidio fu ascritto al ragazzo in concorso con ignoti.
Come è possibile che un'operazione commerciale (italo-franco-belga) di tanta evidenza sia stata ricevuta come qualcosa di serio da parte di critici concilianti e pubblico morboso che è andato al cinema, come in un convento, per risfogliare la vita difficile di uno dei più importanti intellettuali del proprio tempo? Il castigo, la confessione, l'assoluzione, il perdono, il discredito sono altrettanto biasimevoli del crimine e ogni giustizia impropriamente legiferata è ingiusta. C'è da dire inoltre che le parole, le immagini, le merci, le guerre, le politiche seguono il medesimo destino degli imperi che rappresentano… in qualunque settore della politica, dell'arte o della comunicazione lo stile che si afferma è quello del boia di Londra… la perfezione degli insensibili alla verità passa sui corpi degli appestati di successo… non abbiamo mai provato le meraviglie della verità se non a contatto con degli illetterati di spirito… nessuno di loro aveva alcun bisogno di scrivere la propria agiografia né d'inventarsi un carattere sociale… vivevano semplicemente il romanzo della vita.
Insomma, il film di Ferrara non tocca per nulla la ricchezza di un'esistenza prodiga come quella di Pasolini, non c'è la fecondità dell'emozione, il pensiero dello slancio vitale, della forza creatrice, dell'energia spirituale di un filosofo del dispendio in pura perdita… nemmeno la voluttà del desiderio come respiro o conoscenza della propria inconfessabile fragilità amorosa emerge mai dal film… nessuno sembra aver capito che senza l'edonismo libertario di Pasolini, pagato con la vita… la nostra epoca non sarebbe la stessa.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 30 volte ottobre 2014