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venerdì 19 dicembre 2014

NEL 20º DELLA MORTE (30 novembre 1994) - Guy Debord: il film «La société du spectacle» (1973), di Pino Bertelli

A ricordo di Guy Debord,
maestro e compagno in sovversioni non sospette...
che non è mai scomparso ed ha lasciato nei cuori ribelli delle giovani generazioni
i migliori anni della nostra vita...

Noi pensiamo innanzitutto che bisogna cambiare il mondo. Vogliamo la trasformazione, la più liberante, della società e della vita che ci tengono prigionieri. Noi sappiamo che questo è possibile con azioni appropriate.
(Guy Debord)

Fare un film è soprattutto trovare i soldi per farlo. Smettere di adorare il system mitico, l'industria del cinema, la macchina che è in realtà soprattutto mercato, più che sistema di produzione.
(Enrico Ghezzi)

Per raggiungere non tanto la felicità quanto l'equilibrio, dovremmo liquidare una buona parte dei nostri simili, praticare quotidianamente il massacro, sull'esempio dei nostri fortunatissimi e lontanissimi avi.
(Emil M. Cioran)





I. L'obbedienza non è mai stata una virtù

Si tira una filosofia, un film o un’utopia come si tira uno schiaffo, un insulto o un colpo di pistola in bocca alla tirannide... nessuno degli antichi ha mai chiesto a un filosofo sovversivo di essere anche un saggio... è sempre l’indignazione a riscattare la storia... la partitocrazia è un sistema di potere che si regge su perfetti imbecilli presi troppo sul serio... un libro, un film, una rivolta che lascia l’uomo uguale a com’era prima è una forma di comunicazione fallita... a che pro frequentar e la politica istituzionale,quando basta un ragazzo che tira i sassi contro un carro armato a farci intravedere un altro mondo?... un parlamento senza despoti sarebbe noioso quanto una gabbia senza iene... la fascinazione della barbarie è la pratica più diffusa nella civiltà dello spettacolo. È meglio fare il filatore di utopie che una tesi di dottorato... la politica è l’assoluto messo alla portata di un cane da guardia... una società esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di insubordinazione... l’obbedienza non è mai stata una virtù.
La ventata ereticale, sovversiva, apolide del cinema situazionista di Debord ha disvelato gli oracoli dell’ordine spettacolare, liberato la testa e i cuori di quei cospiratori di utopie che si sono sollevati contro la memoria mortificata della storia, con ogni mezzo. L’avviso ai civilizzati sulla prossima metamorfosi sociale l’aveva già pronunciato, da qualche parte, Charles Fourier, con in una tasca del cappotto un pezzo di pane e nell’altra mezza bottiglia di vino da osteria, mentre giocava in un giardino di Parigi con un gruppo di ragazzacci di strada che gli tiravano palle di neve: “Non sacrificate il bene presente al bene avvenire. Godete del momento, evitate qualsiasi associazione di matrimonio o di interesse che non soddisfi le vostre passioni immediatamente fin dal primo momento. Perché lavorereste per il bene futuro, dal momento che questo andrà oltre i vostri desideri e che non avrete nell’ordine stabilito che un solo dispiacere, quello di non poter raddoppiare la lunghezza di giorni, per farli bastare all’immenso giro di godimenti che dovrete percorrere?” (Charles Fourier). — Una volta sbarazzata la menzogna nel sangue innocente di tutte le infanzie violate, non può assolvere nessun padre e nessun figlio dalla verità in armi che cessa di essere rivoluzionaria, quando approda all’emancipazione dell’amore di sé e per l’altro —.
Le opere cinematografiche di Guy Debord praticano e allargano la critica radicale della civiltà dello spettacolo. L’utopia situazionista disseminata in questi film s’incentra su una poetica del fuoco e sulle tentazioni di appiccarlo a tutti i Palazzi d’Inverno. È l’utopia che guida le passioni e moltiplica i contrasti e i sogni, spezza destini e annuncia nuove epifanie dell’anima. Dove la merce ha seminato la sua seduzione non spunta più che la sua tirannia. I falsi bisogni si sostituiscono all’autenticità dei desideri e la psicologia individuale, la ripetizione dei comportamenti, la seduzione dei corpi in disfatta, prende forma nella filosofia balorda dei grandi magazzini. “Un umanesimo astratto ha sparso ai quattro venti i diritti della libertà e della dignità e coloro che li raccolgono non sono soltanto privati del loro uso, ma vedono per di più impoverirsi una sopravvivenza che, per quanto insufficiente, era almeno necessaria al superamento e al compimento di una vita fondata sull’emancipazione dei desideri.
“La sola libertà effettiva è quella che la merce si attribuisce, di scambiarsi con se stessa e di non aver altro uso. Il futuro così immaginato si lacera tra la volontà di vivere e la potenza del denaro che ne fa la parodia e la nega assolutamente” (Raoul Vaneigem). Tutto vero. Gli arrivisti della fatalità e della chiacchiera da portinai sono all’origine di tutte le persecuzioni della storia. Chi si schiera con i giannizzeri del proprio tempo, seppellisce il proprio genio nel letame. “Tremare è facile, ma saper dirigere il proprio tremito è un’arte: da qui derivano tutte le ribellioni” (E.M. Cioran). Chi non ha mai conosciuto la barbarie di un confine, non possiederà mai la saggezza dell’esilio.
Urla in favore di Sade (1952), Sul passaggio di alcune persone attraverso un’unità di tempo piuttosto breve (1959), Critica della separazione (1961), La società dello spettacolo (1973), Confutazione di tutti i giudizi, tanto elogiativi che ostili, che sono stati finora dati sul film «La società dello spettacolo» (1975), In girum imus nocte et consumimur igni (1978), Guy Debord, Son art et son temps (1994), di Guy Debord, realizzato da Brigitte Cornand [1], sono invettive, bestemmie, provocazioni contro tutto quanto figura la degenerazione delle forme di dominio approntate dall’uomo contro l’uomo. Qui Debord insegna che lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa ed è anche la principale produzione di consenso della società moderna. Lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca. “Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia... Lo spettacolo non vanta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni” (Guy E. Debord). Ecco perché ogni merce è anche una confessione e la coscienza del desiderio o dei piaceri inconfessati si trascolora in genuflessione d’infelicità e solitudini senza desideri.

II. La società dello spettacolo

La società dello spettacolo non è certo il film più estremo di Debord, ma la sua irriverenza eretica, eversiva o blasfema lo sposta nel cinema degli indesiderabili, dei folli o dei banditi di professione alla Bonnot. Jules Bonnot, come sanno bene gli insegnanti dei corsi di perfezionamento storico per i nuovi addetti ai servizi segreti… era un bandito anarchico col vezzo per l’ironia e lo sbeffeggio alla Robin Hood. Al grido “Morte alla borghesia!” rapinava banche, società per azioni e qualche volta uccise anche autisti solerti e ispettori di polizia. I ricchi hanno troppo, i poveri nulla. È giusto rubare ai ricchi e vivere un po’ tutti meglio. Fu ammazzato dalla polizia il 28 aprile 1912 con queste idee in testa. Molte donne del popolo piansero. I bambini sognavano le sue gesta e cantavano la canzone della Banda Bonnot: “Suvvia! Dietrofront e di corsa!/e senza far gesuitismi!/Squagliarsi, schifosi, se no/fischiano le pallottole/della Banda Bonnot!”. I borghesi stapparono le bottiglie del vino buono e corsero in massa a comprare i giornali illustrati dove si vedeva Jules Bonnot morto su un pancaccio. La stampa anarchica dell’epoca lo raffigurò come un degenerato che rubava alla stregua di un “volgare capitalista”. In questura furono d’accordo con tutti e dissero: un bastardo di meno!
Guy E. Debord è stato un bandito senza bandiere e un poeta del sampietrino… la sua figura di ribelle corrisponde a quella dall’Anarca descritto da Ernst Jünger nel suo mirabile trattato sulla ribellione del singolo che si dissocia dalla società. Il ribelle jüngeriano (come i costruttori di situazioni alla Debord) sa di non appartenere più a niente e varca con le proprie forze il meridiano zero della disobbedienza. I ribelli della ribellione jüngeriana (come i disertori di ogni arte, ideologia o fede situazionisti) portano in sé tutta l’eredità del nichilismo, del radicalismo romantico e della furia anti-autoritaria che si concentrano nella modernità come sommario di regole e leggi che non li riguardano o, meglio, contro le quali lottano per conquistarsi il diritto di dire no! ad ogni governo, ogni dottrina, ogni forma di morale per mezzo di professionisti della rivoluzione, anche.
Nelle storiografie cinematografiche del nuovo millennio Debord è praticamente ignorato e solo qualche studio sul cinema come arte d’avanguardia o schedatura politica del ‘68... gli dedica poche righe. Non è cosa nuova. Il male dell’intelligenza è una sorta d’incantesimo. È per questo che i film di Debord, come quelli di Marguerite Duras, Robert Kramer o Chris Marker (Gianfranco Baruchello o Alberto Grifi) sono confinati a poche visoni di poeti dello sguardo o viandanti del sogno... sono opere che decostruiscono (senza mezzi termini) gli eroi di spazzatura dell’idolatria, della cultura o della merce e gridano che la miseria intellettuale e sociale dell’immaginario planetario poggia sulle guerre, i campi di sterminio o il post-colonialismo che una manica di predoni assetati di sangue ha eretto contro l’umanità.
“La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce. Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo «segno dello specchio». Qui si mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo generalizzato” (Guy E. Debord). L’impero del linguaggio massmediatico è uno dei vertici dell’infamia del potere.
Gli sputi di un pensiero rivolto contro tutte le direzioni è insopportabile ad ogni tirannia. È nella dismisura dell’essere che gli invasati della libertà e dell’amore si fanno eretici a tutto. Sono i luoghi comuni che rendono stupidi. È il reale mercificato che ammazza la vita. Solo l’utopia rende possibile la rivolta. Non si tratta tanto di lavorare alla liquidazione di qualsiasi autorità, quanto di non riconoscere nessuna autorità all’infuori delle passioni e delle turbolenze del cuore. L’utopia è un risveglio. Un ritorno all’età d’oro della bellezza o della rifioritura del senso di accoglienza, di fratellanza, di sorellanza che gli uomini e le donne si portano nell’anima. È l’età d’oro cantata da Esiodo: “Gli uomini vivevano allora come gli dèi, col cuore libero da preoccupazioni, lontano dal lavoro e dal dolore. La triste vecchiaia non andava a visitarli e, mantenendo per tutta la vita il vigore dei piedi e delle mani, assaporavano la gioia nei banchetti al riparo di ogni male. Morivano come ci si addormenta, vinti dal sonno. Tutti i beni appartenevano a loro. La fertile campagna offriva spontaneamente un cibo abbondante, di cui godevano a piacimento”. Non esisteva la morale di servi perché era stata bandita la morale dei padroni.
Tenersi in disparte significa non confondersi con nulla. Occorre maggiore finezza per fare a meno di ogni simulacro e ritrovarsi insieme ai quasi adatti nell’età dell’innocenza o della rivolta. Il ritorno o la deriva verso l’età dell’innocenza non è nostalgia per qualcosa che è stato e che forse non sarà più. Non è il segno di una condizione infantile alla quale ritornare perché il reale che ci circonda fa schifo. È ri/vivere piuttosto il rimpianto delle perdute possibilità creative, amicali, amorose dell’infanzia... le capacità di meravigliarsi, di sognare a occhi aperti, di rendersi liberi ed amare senza chiedere perché. L’amore è sempre un risorgere. I bambini non hanno bisogno di regni per essere dei re. L’immaginario è il luogo dove ogni linguaggio supera se stesso e la rêverie della malinconia si trascolora in stupore per l’esistenza... ma solo la rivolta e la supremazia della bellezza possono essere la via per la ri/scoperta dell’età dell’innocenza. Il sapere (la conoscenza, la condivisione o la solidarietà) o la saggezza insensata di amare (il rispetto, la dignità o l’esilio) non sono stati molto frequentati nella civiltà dello spettacolo, e così occorre che nuovi piccoli prometei dell’utopia s’innalzino ancora in volo come angeli ribelli e dentro un’estetica dell’umano rubino il fuoco celeste degli dèi per regalarlo di nuovo agli uomini.
La società dello spettacolo si apre con una dedica visiva su Alice Becker-Ho e il parlato dice così: “Poiché ogni sentimento particolare è solo vita parziale, e non la vita intera, la vita arde di espandersi nella diversità dei sentimenti, per ritrovarsi in questa somma della diversità... Nell’amore esiste ancora il separato, ma non più come separato, come unito; e il vivente incontra il vivente”. Debord assembla fotografie pubblicitarie, documenti storici, pezzi di film, e le tesi del suo testo La società dello spettacolo sono disseminate (in modo sparso e non del tutto preciso) su queste immagini:

— La Terra filmata da un razzo spaziale, uno strip-tease, schermi televisivi nei locali della questura di Parigi, per il controllo della metropolitana ed altre zone della città, la morte in diretta dell’assassino di Kennedy, Oswald, gli scioperi degli operai, una sfilata di moda, le catene di montaggio, immagini di vacanza, sottomarini nucleari, Fidel Castro che parla davanti alle telecamere, una folla sterminata, una portaerei che punta i missili e li lancia in ogni direzione, bombardamenti aerei nel Vietnam, cosmonauti sulla Luna con una bandiera, la battaglia economica della Borsa, poliziotti a cavallo che bastonano dei giovani ribelli, una coppia distesa sul letto guarda la televisione, lavoratori immigrati ai piedi di giganteschi edifici, le guardie bianche russe marciano contro i partigiani. Una mitragliatrice spara contro le guardie bianche, che avanzano senza sparare. Uno dice: “Che portamento!”, e l’altro conclude: “Degli intellettuali!”. I Bianchi continuano ad avanzare, nonostante le perdite, e innestano la baionetta in canna. Alcuni partigiani indietreggiano. Qualcuno grida: “Siamo perduti!”. Il commissario politico li incita ad andare avanti. Il reggimento zarista, il cui allineamento resta perfetto, sta per entrare in contatto con la prima linea dei Rossi. Molti dei Bianchi sono falciati dalla mitragliatrice.
Due porti al tramonto. Volti femminili. Lo stalinista Marchais in un comizio elettorale. Folla in una sala cinematografica. La fotografia di una ragazza nuda. Pompidou visita il Salone dell’Automobile. Cover-girls in costume da bagno. La fabbrica di Marghera che inquina Venezia. Altre fabbriche che inquinano Città del Messico. Montagne d’immondizie davanti alla chiesa di Saint-Nicolas-des-Champs. L’acqua sporca della Senna. La sommossa di Watts. Incendi, azioni e arresti delle forze dell’ordine. Esercitazione della polizia al combattimento nelle strade. Poliziotti travestiti da estremisti erigono una barricata e inalberano la bandiera nera. I loro colleghi conquistano subito la barricata. Mao Tse-tung riceve paternamente a Pechino il presidente Nixon. Mitragliamento sul Vietnam. Un prete benedice un sottomarino nucleare. Automobili nella città. Johnny Holliday canta rotolandosi in terra. I Beatles scendono dall’aereo e sono accolti dai giovani in delirio. Marilyn Monroe durante le riprese del suo ultimo film incompiuto. François Mitterand. Ancora Marilyn. Operai tedeschi prima dell’ascesa di Hitler al potere leggono un volantino caduto da un abbaino. Un reparto della polizia francese. Prigionieri vietnamiti.
Hitler attraversa le schiere dei suoi seguaci e monta su una tribuna monumentale. Brežnev e altri burocrati in tribuna a Mosca. I loro sudditi sfilano davanti a loro. Esercitazioni Nato. Pubblicità di un carro armato gigante. Automobili, cibi spettacolari, pittura antica, arredamento moderno, ragazze esotiche, arrivo della metropolitana in una stazione. Erosione delle statue su una chiesa veneziana. Torte alla crema. Mao e Lin Piao. Stalin davanti alla folla e al ritratto di Lenin. Dell’insurrezione dei lavoratori ungheresi non restano che gli stivali. Imballaggi di una fabbrica. Buenaventura Durruti. Cartello: “Ma viviamo noi, proletari, viviamo noi? Quest’età di cui teniamo il conto, e dove tutto ciò che contiamo non ci appartiene più, è una gita forse? e possiamo non accorgerci di ciò che senza posa perdiamo con gli anni?”.
Un marinaio di Ottobre in primo piano scuote la testa. Durruti lo guarda. Cartello: “Il cibo e il riposo non sono deboli rimedi alla continua malattia che ci travaglia? e quella che chiamiamo l’ultima, che altro è, a ben guardare, se non un raddoppio, l’ultimo accesso del male che portiamo al mondo nascendo?”. Navi da guerra. Fucilieri francesi. Soldati inglesi in battaglia. La fanteria coloniale francese. Turisti a Parigi. Plastici per luoghi di vacanza. L’incrociatore Aurora risale la Neva sul finire della notte. Lo sbarco dei marinai. La torre di Babele. Il quadro di un primitivo italiano. Johnny Guitar in un saloon. Operai in una fabbrica di pneumatici. Saint-Tropez. Aeroplani che decollano da una portaerei. Johnny Guitar, Dancing Kid e Vienna in un saloon. Cavalleria franchista. Un frammento di Per chi suona la campana. Il trittico di Paolo Uccello: La Battaglia di San Romano. Brežnev e i burocrati comunisti a Mosca. I fucilieri della Potëmkin si rifiutano di sparare sui loro compagni ammutinati. Un reggimento di cavalleria, sciabola in mano, inizia una carica. Assemblee rivoluzionarie negli edifici occupati, nel maggio 1968. Il generale Sheridan entra in un forte. Assegna al colonnello una missione rischiosa: “Se fallite, posso assicurarvi che il consiglio di Guerra che vi giudicherà sarà composto dai nostri vecchi compagni dello Shenandoah”. La Borsa di Parigi. Combattimenti per le strade in Olanda, Irlanda e Inghilterra. Ragazze nere che danzano. Un reparto di marinai di Kronštadt attacca alla baionetta sotto il fuoco della mitragliatrice. I giorni della rivoluzione sociale di Barcellona e Pietrogrado. La guerra di Secessione. Piante del Palazzo d’Inverno e del Palazzo delle Tuileries. La guerra civile di Spagna. La guerra di Secessione. I marinai di Kronštadt proseguono verso la vittoria. Il Palazzo d’Inverno è preso d’assalto. La colonna Vendôme viene abbattuta.
Bakunin e Marx. Trotsky. La sfilata dell'Armata Rossa. Cannoni e missili. Sulle scalinate di Odessa le truppe zariste sparano contro i manifestanti. Mitterand e Marchais. Brežnev? 1968. Gli operai occupano la Renault. Stalin. Sindacalisti. Un ufficiale nazista. Il dittatore Franco. Carri armati tedeschi. Le Brigate Internazionali in Spagna. Le barricate del maggio 1968. Combattimenti nella notte. Incendi. Il quartiere latino alle primi luci dell’alba. Assemblea generale nella Sorbona. Carrellata sui membri del Comitato Enragés-Internazionale Situazionista. Debord. Un cartello: “E fino alla fine del mondo dello spettacolo, il mese di maggio non tornerà più senza che ci si ricordi di noi”. Christian Sébastian, Guy Debord, Patrick Cheval. Alcuni aspetti della Sorbona. Cartello: “Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te!”.
Fiamme nella notte. La polizia in azione. I giovani lumpen difendono i tetti di Saint-Jacques. Scontri di piazza in Italia. Lenin che pronuncia un discorso. Caroselli della polizia in Italia. Carri armati russi contro gli operai tedeschi. La polizia americana carica i neri in rivolta. Il 7° Michigan al galoppo. Nel corso di un ballo mascherato, nel suo castello in Spagna, Arkadin (Orson Welles) con un bicchiere in mano: “Niente discorsi. Propongo un brindisi alla maniera georgiana. In Georgia i brindisi cominciano con un racconto... Ho sognato un cimitero dove gli epitaffi erano bizzarri, 1822-1826, 1930-1934... Si muore ben giovani qui, dico a qualcuno; il tempo è molto breve fra la nascita e la morte. Non più che altrove, mi si risponde, ma qui, come anni di vita, contano solo gli anni che è durata un’amicizia. Beviamo all’amicizia!”. Ivan Chtcheglov. Asger Jorn. La cavalleria del 7° Michigan continua la carica... —. Détournement dei film di John Ford (Rio Bravo), Nicholas Ray (Johnny Guitar), Joseph von Sternberg (I misteri di Shanghai), Orson Welles (Arkadin), Sam Wood (Per chi suona la campana), Raoul Walsh (La carica fantastica) e diversi altri frammenti di film dei Paesi socialisti —.

Il procedimento estetico adottato da Debord per La società dello spettacolo non è del tutto nuovo (né vuole esserlo). Vertov, Kramer, Marker, Pasolini (il cinema sperimentale o il cinema surrealista, il cinema underground o il cinema di trasgressione)... avevano già usato questo modo di fare-cinema e attraverso un’estetica della profanazione politica e dell’invettiva poetica erano riusciti a buttare sullo schermo una critica del disgusto e dell’insorgenza. Debord fa questo e altro ed è geniale. Affabula un film/testo dove l’immaginale del pubblico non è più luogo/spazio passivo (o intrattenimento domenicale per famiglie dabbene), ma diviene crogiuolo di uno specchio/schermo che strappa, disvela o rifiuta la sequenzialità e l’intreccio della scrittura filmica convenzionale. L’asincronia delle immagini con il parlato si trascolorano in una sorta di manifesto ereticale, e in questo scombinato passaggio di fine secolo assumono (oltre la sindone schermica) una critica radicale della separazione buttata contro la falsa via d’uscita della società mercantile.
I segmenti documentari o di finzione intrecciati da Debord alle sue tesi filosofiche diventano altro dall’uso originario, e per una strana magia (e sapienza di montaggio metaforico) aprono il film a nuove emozioni che riscoprono le cadute comunicazionali ed amplificano o trasgrediscono (attraverso la citazione rovesciata, reinterpretata o détournata...) la rapina, l’odio e la violenza insiti nei meccanismi dell’ordinario. Le visioni immaginarie del passato perdono l’aura del mito o della cronaca e si mescolano ad altre possibilità poetiche dove tutto il vero del mondo risulta falso e morente. Il film di Debord è una sorta di apologo sulla disobbedienza, la diserzione, la rottura contro tutto quanto fa spettacolo... è una specie di prontuario del margine che in molti modi guida le passioni, moltiplica i conflitti e infrange i destini/contenitori delle virtù istituite e codificate.
Con La società dello spettacolo Debord elabora una teoria filmica del disincanto e dell’eversione, lavora sulla coscienza critica del dissidio. Spacca i paramenti della realtà fittizia sorta nello spettacolo perché è nel mondo radicalmente ribaltato il vero momento del falso e nello spettacolo si cela e implode l’immagine/l’icona dell’economia politica dominante. Lo spettacolo è la ricostruzione immaginifica della menzogna religiosa, della propaganda ideologica o della dittatura del consenso. Lo spettacolo è il momento in cui la merce, qualsiasi merce, giunge a fiorire in ogni soggetto e l’ostia massmediatica diviene il collante o la catena relazionale della comunità. L’opera di Debord assume su di sé la critica globale dell’ordinamento sociale e qui nessuno scende a patti. L’anatema contro tutti gli aspetti della vita quotidiana alienata è annunciato, disseminato sullo schermo “a gatto selvaggio”. L’intento di Debord è quello di trasformare, contaminare, riorientare la percezione della visione filmica e fare dello spaesamento poetico (della costruzione delle situazioni) il grimaldello estetico per il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato.
Il cinema di situazione di Debord disvela l’universo mercantile della politica, della fede, dei saperi… rende visibile la miseria pratica della civilizzazione delle masse e dentro una surrealtà che costituisce, al tempo stesso, tutta la mediocrità della realtà dello spettacolo e tutta la ricchezza della sua liquidazione. Non è solo Debord a cogliere l’importanza della costruzione delle situazioni in rapporto al cambiamento che le situazioni costruite portano all’interno dell’uomo, e quindi dell’ambiente nel quale sono vissute. A ben vedere, nel Dizionario del cattolicesimo moderno, alla parola «situazione» è dedicato molto spazio. Qui si legge: “Situazione. Le circostanze del momento, come episodio dello sviluppo nel quale l’uomo si trova, costituiscono la s. Le s. mutano variamente, ed in questo mutamento stanno sotto l’influsso del passato. Le s. storiche generali, i cui soggetti sono l’umanità ed i suoi gruppi (per es. guerra o pace, ascesa o decadenza di una nazione, le tensioni sociali), e le condizioni di vita personali di un essere umano (per es. ricchezza o povertà, salute o malattia), unite alla sorte ed al volere degli altri uomini, del «prossimo», si fondono, nei singoli periodi di vita, in determinate s. singole, nelle quali l’uomo vive; ogni s. si realizza una sola volta e non si può né ripetere né scambiare. Nella s. si manifesta il carattere storico della vita. L’uomo non si sviluppa soltanto come le piante e gli animali, ma con la sua decisione afferra nel suo passato un pezzo di futuro, che egli determina in questa o quella maniera. Così si fa la storia (v. Storia), il presente diviene il campo delle decisioni e l’uomo stesso diventa continuamente altro”. Siate decisi a disobbedire e sarete liberi.
L’etica della situazione di Debord straccia però tutto quanto la dottrina cristiana predica dai suoi pulpiti, e cioè che l’atto morale (il processo dell’agire) dell’uomo gli giunge attraverso la guida e la grazia di Dio. La costruzione delle situazioni alle quali si richiama Debord sono accadimenti, eventi, strappi dell’ordine sociale che è succube di un dominio, un sovrano o un dittatore. Per quanto riguarda la stagnazione del politico al fondo delle democrazie o delle utopie su un buon governo, non è difficile scorgere qui i processi di politiche della repressione e nuove forme di domesticazione sociale che attentano alle libertà fondamentali dell’uomo. L’ordine è solo convenzione. Modello di qualcosa che poggia il proprio successo sulla servitù e la spartizione del mercato globale. Ogni genocidio ha i suoi teatri. Alle guerre dei privilegiati rispondono schegge impazzite del terrorismo internazionale. Sono la stessa gente che un tempo militava nelle stesse bande (impugnano pistole della stessa fondina). Il terrorismo (come le stragi orchestrate dai servizi segreti di ogni Stato) è funzionale all’instaurazione di un ordine più duro. Non si tratta di fare fuoco sugli orsi sapienti delle canaglie di Stato per mettere fine all’inumanità dello spettacolo, ma occorre farla finita col giudizio di Dio e la circolazione della menzogna, e fare dell’amore tra le genti il primo volo verso la conquista di un mondo illuminato dalla bellezza.
L’utopia situazionista (non solo filmica) di Debord contiene quel fascino dell’impossibile che disperde ovunque un disordine da fine del mondo... è un’idea di felicità che minaccia da vicino le stigmate del provvisorio e del rilucente sulle quali l’umanità ha eretto le proprie forche e i propri successi elettorali. Ma una società che è incapace di generare un’Utopia per la quale buttare alle ortiche frontiere, armi e campi di sterminio... una società che è incapace di vedere nella pace la tenerezza e la fraternità tra gli uomini... una società che non vede il grido di dolore dei poveri e non si accorge delle ferite ecologiche che infierisce contro il pianeta... è una società sclerotizzata e votata alla propria rovina. Le “cattive cause” richiedono coraggio e talento. Ci sono cose che s’infrangono mostrandole. Ci sono altre cose che vanno aiutate a cadere. Lo spettacolo di una civiltà senza futuro è già qui. Non resta che l’Utopia a farsi strada, e proprio là dove i saperi dell’economia, della politica e della fede sono riconducibili al crimine legalizzato/istituzionalizzato. Allora è nelle sfumature del dissidio che si combatte l’ultima carica dell’irragionevolezza amorosa portata avanti dagli utopisti... e gli utopisti sono i soli eredi impertinenti, insurrezionali, delle memorie storiche calpestate, umiliate e offese... e loro, solo loro, metteranno fine alla menzogna spettacolarizzata dell’esistenza. A dispetto di tutto, non c’è storia che non sia quella della bellezza dell’anima. Si tratta di non radicarsi, di non appartenere a nessuna società, a nessuna cosca, a nessuna gogna... essere stranieri a se stessi significa appartenere al mondo e fare dell’indecenza di vivere senza sfruttare né essere sfruttati lo straordinario e il principio di tutti i sorrisi a venire.

The End

Note

La società dello spettacolo: scritto e diretto da Guy E. Debord. Montaggio, Martin Barraque. Assistenti registi, Jean Jacques Raspaud e Gianfranco Sanguinetti. Musica, Michel Corrette. Voce italiana, Christian Jaime. Détournement dei film di John Ford (Rio Bravo), Nichoals Ray (Johnny Guitar), Joseph von Sternberg (I misteri di Shanghai), Orson Welles (Arkadin), Sam Wood (Per chi suona la campana), Raoul Walsh (La carica fantastica) e diversi altri frammenti di film dei Paesi socialisti. 90 minuti. Bianco & nero. La voce originale (in sottofondo) dell’edizione in lingua francese è di Guy-E. Debord. Il testo della versione francese è ripreso dalla prima edizione de La Société du spectacle (1967). Una delle versioni italiane in videocassetta è uscita a cura di Nautilus nel 1996 e il testo utilizzato per questa traduzione (Paolo Salvadori) segue quello che si trova in Opere cinematografiche di Guy Debord, Arcana 1980.


[1] Pino Bertelli, Guy-E. Debord. Il cinema è morto, La Fiaccola, 2005.


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