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lunedì 22 settembre 2014

OBAMA CONTRO L'ISIS: NE SONO CONVINTI IN POCHI, di Pier Francesco Zarcone

Isis: che fare?

L’improvvisa irruzione dei jihadisti di al-Baghdadi ha dato corso a una diffusa prassi di massacro delle minoranze religiose, di barbare esecuzioni, di vendita di schiave non-musulmane o sciite sulla pubblica piazza, di stupri e matrimoni forzati, nonché di cancellazione dei più elementari diritti della persona. Il tutto con la abominevole scusa della religione (vecchio motivo del fanatismo “religioso” sotto tutti i cieli), quand’anche nulla di ciò abbia a che fare con i precetti coranici riguardanti il piccolo jihad (quello grande, e di maggior valore, è lo sforzo umano per essere spiritualmente graditi a Dio). Il “califfo” e i suoi tagliagole sono portatori di una sanguinaria religione dell’odio fatta di crudeltà e sadismi pianificati, a cui si deve contrapporre un’indignazione - senza se e ma - che si concretizzi in reazioni effettive e idonee a eliminare questo fenomeno, perché qui rientra in ballo con tutta la sua drammaticità il vecchio dilemma “civiltà o barbarie”.
Purtroppo, ad avere la maggior risonanza mediatica, più dei massacri di massa, sono state le rozze - e quindi atroci - decapitazioni filmate di tre ostaggi occidentali (due statunitensi e uno britannico); due episodi orrendi che già da soli basterebbero a invocare la distruzione dell’Isis. Comunque ancora una volta emerge il latente razzismo bianco, in quanto la vita di tre appartenenti al Primo Mondo mantiene una valenza maggiore rispetto alle vite di migliaia e migliaia di esseri umani un po’ più abbronzati. Questo lapsus etico non muta di certo i termini del problema centrale: l’Isis - in fase di strutturazione addirittura come Stato – è una maxi-organizzazione criminale che le pratiche abituali di uccisione massiccia di esseri umani indifesi, utilizzate come strumento di terrore, privano di ogni dignità politica e morale, rendendone la distruzione un’esigenza di igiene mondiale. Sono in gioco ulteriori vite di innocenti su cui incombe un massacro ben lungi dall’essere concluso; e questo - checché ne possano pensare gli “immacolati” di una certa sinistra residuale – richiede il ricorso a ogni mezzo possibile, anche in nome di un grande dimenticato: l’umanesimo rivoluzionario.

Se di una tale incombenza si facessero davvero carico gli Stati Uniti - imperialisti e detestabili per quanto siano – ahimè, ci sarebbe solo da applaudire. Salvo poi tornare a opporsi alle inevitabili manovre di dominio, contestuali o nella fase successiva. D’altro canto non sarebbe la prima volta (e nemmeno l’ultima) che pur da posizioni anticapitalistiche (rimaste tali) si è costretti dalle contingenze ad appoggiare iniziative anche di soggetti imperialisti purché siano distrutte realtà di barbarie organizzata.

Naturalmente gli Usa non affrontano la nuova guerra col fine primario di salvare vite umane, sia di ostaggi occidentali sia di musulmani: si è visto dall’inizio di questa estate quanta considerazione ne abbiano in linea di massima. Adesso per loro si tratta di non perdere il controllo di zone importanti strategicamente ed energeticamente, e di salvare la faccia, innanzi tutto sul piano elettorale interno (dove in effetti è alquanto pregiudicata), tenuto conto che negli Stati Uniti si terranno a breve le elezioni di medio-termine; e qualcosa dev’essere fatta, ponendo fine a una lunga passività di fronte all’espansione dell’Isis; ma qualcosa di effettivo giacché i sondaggi evidenziano un’alta percentuale di elettori favorevole a un deciso intervento. Quindi, per come stanno le cose, c’è poco da scegliere.

Va anche fatto un discorso senz’altro poco simpatico: se ci si pone sul piano del realismo, si deve avere il coraggio di sostenere che i jihadisti dell’Isis (o di chi verrà poi) devono essere eliminati senza tregua e con la massima determinazione; senza fare prigionieri, si potrebbe dire. Un tale atteggiamento purtroppo non ha alcuna funzione deterrente o distogliente, giacché questi criminali, nella loro follia religiosa, combattono più per morire che per vincere (seppure la vittoria non sia affatto disprezzata, anzi), sicuri come sono di ottenere le delizie del Paradiso (con tanto di vergini Urì fornitrici di orgasmi multipli) grazie alle loro esecrabili azioni blasfemamente compiute in nome di Dio. Cioè a dire: massacrare gli altri e morire per godere del Paradiso! Non ci sono validi procedimenti per la disintossicazione mentale dei jihadisti, il cui picco di gravità è dato dall’indifferenza o - peggio - dalla gioia con cui partecipano e/o assistono ad efferatezze inqualificabili; e tutto dice che si tratta di intossicazione irreversibile.

Di un pessimo romanzo di un giornalista portoghese (José Rodrigues dos Santos, Furia divina) va ricordata l’interessante descrizione del processo psicologico attraverso cui un certo tipo di inquieto giovane musulmano sunnita passa da un Islam davvero moderato e umanista al più barbaro ed efferato jihadismo, perdendo progressivamente ogni considerazione per la vita umana: non solo di quella inquadrabile nella vasta categoria degli “infedeli” (comprensiva anche di determinati musulmani) che sono meritevoli dell’Inferno, ma altresì per la vita degli stessi musulmani radicali, per i quali il Paradiso è comunque assicurato.

Il problema è complesso e ci si potrebbe chiedere se esistano altri rimedi - oltre agli interventi di tipo militare e poliziesco - che vadano al di là delle manifestazioni di un male dalle radici profonde per colpirne il nucleo più essenziale. Si tratta di un male la cui forza contagiosa non si è ancora pienamente esplicata e oltretutto è palese quanto sia permeabile ad essa un ampio bacino umano che va da ambienti islamici con forti problemi socio-psicologici fino a giovani occidentali di recente e malamente convertiti. Terrificante è la recentissima notizia che l’Isis voleva compiere in Australia un massacro mediatico, decapitando dei civili rapiti casualmente e riprendendone l’esecuzione con telecamere; e soprattutto che la cellula di estremisti fosse guidata da un australiano. Sembra che siano stati effettuati ben 15 arresti e altri 10 siano ancora da compiere.

I rimedi aggiuntivi all’azione poliziesca (e militare) sono più teorici che pratici, in base alle dimensioni dell’ondata di follia che si va sviluppando. L’intervento sulle cause socio-psicologiche del fenomeno (a prescindere dalla loro efficacia pratica) non riscuotono molto interesse, nei paesi islamici come in Occidente, dove si vanno estendendo xenofobia e razzismo. Inoltre, gli psicopatici criminali dell’Isis non sono riducibili a soggetti emarginati, di scarsa cultura e facile preda del fanatismo: tra essi si trovano anche persone dotate di buona qualificazione e buoni curricula di studi secondo i parametri occidentali: ne è esempio (uno tra i tanti possibili) l’attuale responsabile delle telecomunicazioni nella città siriana di Raqqa in mano al “califfato”, un tunisino munito di master universitario.
Che ci sia una via d’uscita plurima è assai dubbio: le ragioni psicologiche e culturali che hanno portato tanta gente ad aderire a fascismo e nazismo sono state oggetto di studi per comprenderle; tuttavia dalla comprensione non è nata alcuna cura. D’altro canto ci sono ormai millenni e milleni di storia a dimostrare che quando la crudeltà umana riesce ad ammantarsi di motivazioni ideologiche o (peggio) pseudoreligiose, essa si scatena senza freni e va solo combattuta e repressa. Ci si deve rassegnare a convivere col pericolo e colpirlo in ogni sua manifestazione, finché non sia ridotto ai minimi termini.
Sarebbe banalmente facile constatare, magari con disdegno occidentale, l’assenza (o la non-visibilità) di forze laiche capaci di fare da contrappeso al jihadismo ma, al riguardo siamo in presenza - con tutta drammaticità - delle conseguenze di processi storici in cui ambienti e personalità (anche di tutto rispetto e punti di riferimento nella lotta al colonialismo e all’imperialismo) sono rimaste schiacciate dalla duplice morsa dell’Occidente predatore e del fanatismo religioso di certi ambienti musulmani. Si pensi solo al mitico abd el-Krim el-Khattabi, guida della lotta contro Spagna e Francia in Marocco, che combatteva per una repubblica laica, odiava il fanatismo religioso e non era affatto tacciabile di essere un cattivo musulmano. E il danno continua. 
Si puo parlare quanto si vuole di guerra totale all’Isis, tuttavia resta da stabilire se verrà fatta davvero e fino a che punto i seguaci del dio-denaro non la sabotino. Già ci sarebbero le prime falle, almeno se corrisponde al vero la notizia che da paesi europei (ancora non rivelati) concretamente si finanzia l’Isis acquistando di contrabbando il petrolio che esso ricava dalle zone occupate, e per vari miliardi di dollari. Questo contrabbando passerebbe per la Turchia, paese membro della Nato!
Per quanto riguarda il mondo musulmano vanno registrate varie e autorevoli prese di posizione contro l’Isis. Imam britannici hanno emanato una fatwa di condanna per i giovani musulmani che vanno a combattere in Siria e Iraq definendoli eretici e qualificando “velenosa” l’ideologia dell’Isis. Ancor prima c’era stata una fatwa dello stesso tenore emessa dal Consiglio Islamico Siriano, organismo in cui sono presenti ulama di vario orientamento dottrinale; lo scorso 19 agosto il Gran Muftì dell’Arabia Saudita ha definito Isis e al-Qaida “nemici numero uno dell’Islam”; del pari si è espresso al Cairo il Gran Muftì di al-Azhar; il segretario generale della Lega Araba ha chiesto ai paesi dell’area di aiutare l’Iraq e garantire la sicurezza alle minoranze religiose; anche esponenti di comunità islamiche negli Usa, in Gran Bretagna, Francia e Italia hanno preso posizione.
Pur tuttavia non sembra si possa parlare di una vera mobilitazione (spontanea o indotta) tra le masse musulmane atta a contrastare il jihadismo. Va pure detto che, se e quando ci fosse, la reazione omicida di tante cellule radicali oggi in sonno non si farebbe attendere, alla maniera algerina di vari anni fa, ma forse in modo ancora più cruento. Il che ci porta al punto di partenza: l’ineludibilità comunque di un capillare impiego di radicali misure poliziesche e militari a livello sia preventivo sia repressivo. A parte forse la sola America latina, tutto il resto del mondo non solo è virtualmente nel mirino, ma in definitiva ogni paese ha già il nemico in casa, e per giunta occultato. Purtroppo tra i primi a farne le spese saranno i tanti disperati che attraverso l’emigrazione cercano di salvare la vita e/o di ottenere un’esistenza migliore.
Se l’Isis va colpito a cuore, individuare dove sia non è difficile; semmai la questione sta nel come arrivarci. Il suo cuore sono le fonti di finanziamento, oltre ai 429 milioni di dollari e i più di 600 miliardi di dinari iracheni (398 milioni di euro) presi a Mosul. Innanzi tutto non sarebbe affatto male impegnarsi da subito per bloccare il contrabbando di petrolio dell’Isis (che fornisce 2 milioni di dollari al giorno); ma si dovrebbero anche colpire le altre fonti: le estorsioni a mo’ di pizzo islamico, le elargizioni di ricchi arabi sauditi e qatarioti nonché quelle provenienti dalla rete delle banche islamiche. Inutile dire che si tratterà di una lotta lunga e difficile, inevitabilmente complicata del persistere di mene imperialistiche di varia provenienza.
Un’ulteriore considerazione. Sarebbe esiziale se la coalizione di Obama & Co. finisse con l’essere presentabile, e con una certa efficacia, come crociata contro l’Islam. Vero è che la propaganda può far apparire nero il bianco; ed è vero che i jihadisti si considerano portatori esclusivi del “vero” Islam, vedendo degli apostati in ogni musulmano che la pensi diversamente; tuttavia una coalizione priva di presenze islamiche qualificate e diversificate sarebbe davvero suscettibile di apparire come una crociata occidentale agli occhi di molti musulmani, quand’anche non radicalizzati in senso jihadista. Sarebbe molto più opportuno che della coalizione facesse parte più di una presenza islamica in modo da farla risultare espressione di realtà musulmane che pur restando diverse fra loro, si uniscono però contro un nemico comune; un nemico che proprio in virtù del pluralismo islamico in un fronte unito risulterebbe per l’appunto comune. Per questo non basta la sola presenza dell’Arabia Saudita (a parte le sue ambiguità): si dovrebbero cioè imbarcare anche Siria e Iran. Ma le necessarie condizioni politiche ancora non ci sono, e questo peserà.

Obama non convince

Obama giorni fa ha finalmente annunciato di aver trovato una strategia contro l’Isis, e l’ha articolata in 4 punti: 1) campagna sistematica di raid aerei estesi alle zone siriane in mano all’Isis; 2) appoggio alle forze forze curde e irachene impegnate sul campo; 3) guerra generale contro il terrorismo; 4) aiuti per rifugiati e profughi. Essa però non convince, e vari soggetti diffidano. Partiamo da questi ultimi.

a) le Chiese cristiane dell’area
Giorni fa la posizione statunitense si è scontrata - poco diplomaticamente a dire il vero - con alti esponenti delle Chiese cristiane del Vicino e Medio Oriente ospiti a Washington per iniziative “a favore dei Cristiani d’Oriente”. Obama si è incontrato con il cardinale Beshara ar-Rai (Patriarca Maronita di Antiochia), il vescovo Zihlawi, i patriarchi Aram I Keshishian (Chiesa Armena), Ignatius Younane (Chiesa Siriaca) e Gregorio III Laham (melkita). Avendo capito che non era il caso di usare toni propagandistici, Obama non ha parlato di “regime siriano”, ma di “governo siriano” e ha dovuto dare atto che in questi anni il governo di al-Assad ha operato in difesa dei Cristiani di Siria, suscitando da parte di Aram Keshishian la replica: «Allora in questo caso la dovete finire di sostenere i terroristi che cercano di abbattere il suo Governo».
Purtroppo per Obama i suoi interlocutori erano prelati e arabi, e quindi doppiamente delle vecchie volpi; costoro infatti gli hanno presentato un documento scritto in cui i guai dei Cristiani sono imputati solo in parte all’Isis: e questo vuol dire estendere le doglianze ai ribelli siriani sostenuti dagli Stati Uniti. Tant’è che uno dei prelati (non identificato) gli avrebbe chiesto senza mezzi termini di “smetterla di parlare di opposizione moderata in Siria”. Quando poi Obama è passato a trattare del Libano, il cardinale Beshara ar-Rai si è pronunciato a chiare lettere contro il disarmo dell’Hezbollāh sciita.
Dopo questo incontro, si è registrato un incidente per i discorsi smaccatamente filoisraeliani di congressisti statunitensi durante un convegno organizzato in favore dei cristiani d’Oriente. Lì si è particolarmente distinto il senatore Ted Cruz (repubblicano del Texas, appartenente al Tea Party) provocando l’uscita dei prelati orientali; essi hanno fatto ritorno in sala solo dopo l’assicurazione che Cruz se n’era andato, e in più hanno fatto notare al rappresentante degli Usa (Chris Smith) che intendeva condannare il regime di Assad, come l’obiettivo della conferenza fosse diverso.
Citiamo questi episodi non come inutile gossip, ma per evidenziare due aspetti che potrebbero avere effetti concreti. Innanzi tutto quegli ecclesiastici, una volta lasciati gli Usa, non trasmetteranno di certo sentimenti rassicuranti circa gli Stati Uniti né ai propri fedeli né al Vaticano, e inoltre hanno dimostrato la distanza esistente fra le bugie statunitensi e i sentimenti delle minoranze cristiane del Levante; infine vanno considerati i possibili effetti di tale distanza-incompatibilità sulla prossima campagna elettorale tra gli elettori appartenenti alle Chiese d’Oriente; innanzi tutto a carico del Partito Repubblicano, ma forse anche di quello Democratico. Lo si verificherà a breve.

b) la Russia
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, accusando l’Occidente di privilegiare i propri interessi politici, ha criticato il fatto che l’invito a partecipare ai negoziati per la coalizione anti-Isis non sia stato rivolto all’Onu e a una trentita di paesi, fra cui Siria e Iran, definiti i naturali alleati in questa lotta, e la cui assenza renderebbe vaga «la battaglia antiterrorista contro chi agita l’abisso di una guerra di religione».
Egli ha anche definito inutile e foriero di caos e sangue il progetto statunitense di condurre la lotta con i bombardamenti aerei, poiché i jihadisti si mescoleranno alla popolazione civile a mo’ di scudo umano; e non ha mancato di ipotizzare che l’estensione degli attacchi aerei alla Siria potrebbe far parte di una strategia per indebolire in realtà il  governo di Damasco, tanto più che mancherebbe di qualsiasi supporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Irina Zviagelskaya, ricercatrice in Scienze storiche presso l’Istituto di Orientalistica dell’Accademia delle Scienze russa, ha formulato una giusta considerazione alla Rbth [Russia Beyond The Headlines, agenzia d’informazioni multilingue]:

«Nella lotta contro l’Isis il ricorso alla forza militare non basterà poiché quest’organizzazione è riuscita a elaborare un’ideologia che fa presa sulle masse e che ottiene un ampio consenso tra i giovani non soltanto in Medio Oriente, ma anche all’estero. (…) Gli attacchi aerei provocheranno inevitabilmente delle vittime tra la popolazione civile ed è incauto ritenere che i bombardamenti possano liquidare il problema. Questa misura unilaterale non farà che esasperare le persone e si continuerà a infoltire le file dell’Isis».

Ha aggiunto che insieme alle operazioni militari vanno compiuti sforzi per ripristinare una normale vita economica nei territori liberati, onde evitare il formarsi di condizioni favorevoli al proliferare dell’ideologia dell’Isis; e inoltre che va stabilito un assetto politico idoneo a permettere una pacifica convivenza tra sunniti e sciiti in Iraq. Intanto continuano i consistenti aiuti militari a questo paese e alla Siria.

c) l’Iran
A Teheran, si registrano da parte della Guida Suprema Ali Khamenei estrema diffidenza non priva di accenti irrisori, come il divertimento suscitatogli dall’ascolto dei pomposi proclami di Obama. Il ministro degli Affari Esteri Marzieh Afkhan ha espresso all’agenzia di stampa Irna le sue incertezze sulla cosiddetta coalizione internazionale, e in particolare
«sulla serietà e sulla sincerità di coloro che vogliono estirpare le vere cause del terrorismo [poiché alcuni paesi della coalizione hanno] fornito sostegno finanziario ai jihadisti in Iraq e in Siria, perché speravano di costringere a cambiamenti politici che fossero più vicini ai loro interessi».

Dal canto suo il Presidente Hassan Rohani - nel corso di un incontro ufficiale con il vicepremier e ministro degli Esteri slovacco, Miroslav Lajčák, in visita a Teheran - ha sottolineato in via generale che i responsabili della creazione e della diffusione di una malattia non possono proporsi come coordinatori o addirittura organizzatori degli sforzi per combatterla, e scendendo nel particolare che
«Paesi che per anni e anni hanno organizzato, addestrato, armato, finanziato e rifornito i gruppi terroristi operanti in Siria improvvisamente sentono il richiamo, quasi la necessità di combattere le loro creazioni (…) tale ipocrita “necessita” deriva invece dal desiderio di raggiungere con altri mezzi gli obiettivi che i gruppi terroristi hanno fallito in tutto questo tempo».

d) chi esercita spirito critico
Con l’asserito impegno di decisa lotta alla minaccia jihadista contrasta l’intenzione di fornire nuovi armamenti all’opposizione siriana “laica e moderata”, con l’aggiunta di bombardamenti anche in Siria. I dubbi nascono dal fatto che se l’impegno degli Stati Uniti si rivolgesse ad ampio spettro contro il jihadismo, allora sarebbe conseguente - se non un accordo - quanto meno una certa benevola neutralità verso chi già lo sta contrastando con l’apporto di aleviti, sunniti, sciiti e cristiani.
In secondo luogo c’è la mistificazione data dal concetto di “opposizione siriana laica e moderata”; esso suona bene ma, se si guarda al contenuto, la musica cambia. Gli Stati Uniti conferiscono tale patente a un insieme contraddittorio formato dal cosiddetto Esercito Libero Siriano (Els) e dal fronte al-Nusra (collegato invece ad al-Qaida di Ayman al-Zawahiry). L’Els è militarmente pressoché al collasso, anche a causa della lotta scatenatagli dai jihadisti; e il gruppo radicale al-Nusra si è ampiamente distinto per efferatezze varie. Efferatezze non solo di oggi, ma finora accuratamente o taciute o minimizzate dai media occidentali, e da cui non è stato immune nessuno; esempio tipico quello del maggio 2013 a carico del comandante della brigata al-Faruk che fa parte proprio dell’Els (i “moderati” per antomasia): a lui si deve la trasmissione su internet di un video che lo immortala mentre decapitava un soldato siriano e ne mangiava il cuore! La BBC gli dette anche la parola perché si giustificasse.
Questa asserita opposizione “laica e moderata” attualmente sta per essere cacciata anche da Aleppo a opera dell’esercito di Damasco, tanto che l’8 di questo mese l’International Crisis Group ha pubblicato un rapporto per allertare sulle conseguenze negative di una totale caduta di Aleppo per l’Els e al-Nusra, i cui rifornimenti passano dalla Turchia per quella zona. In ordine alle ambiguità satunitensi (a dir poco) c’è il fatto - censurato forse negli Usa, ma divulgato dalla britannica Reuters - di una seduta segreta del Congresso, a gennaio 2014, in cui fu votato il finanziamento e l’armamento fino al 30 settembre 2014 per l’Els, al-Nusra e anche... per l’Emirato Islamico del Levante e dell’Iraq, oggi meglio noto come Isis! E allora?

Il problema dell’invio di truppe di terra

Da Washington si ripete fino alla noia che non ci sarà invio di truppe occidentali per combattere sul campo l’Isis, anche se dei generali - subito bacchettati - hanno sostenuto proprio la necessità di tale invio. Orbene, se non fosse per le scelte politiche degli Stati Uniti, si dovrebbe dire che nemmeno ci sarebbe bisogno di porre, sia pure al negativo, il problema, poiché sul campo le forze che davvero combattono l’Isis ci sono eccome; solo che non rientra negli interessi politici statunitensi appoggiarle, perché anch’esse sono state inserite fra i “nemici canaglia”. Infatti, oltre al governo di Damasco ci sarebbero le milizie sciite irachene, l’Hezbollāh libanese e lo stesso Iran. Ma ancora da questo orecchio a Washington non sentono.
Per cui resta aperto l’interrogativo tecnico circa l’efficacia dei soli attacchi aerei per distruggere l’Isis. Forse sarebbero efficaci se di gran lunga massicci; ma sarà cosi? Comunque il loro costo (di certo non minimale) verrà addossato dagli Usa al governo iracheno, indipendentemente dal successo che ne derivi.  
Si potrebbe obiettare che appoggiando determinate realtà gli Stati Uniti diverrebbero parti attive di un conflitto settario. Questo è vero solo apparentemente. Infatti, due aspetti vanno considerati. Innanzi tutto, nel Vicino e Medio Oriente il conflitto settario fondamentalmente vede in campo: da un lato, il radicalismo islamico sunnita fino al jihadismo, e dall’altro lato tutto il resto (sunniti non-radicali, sciiti di varia appartenenza, cristiani delle diverse Chiese, laici, atei e agnostici), cioè la maggioranza. Il secondo aspetto è che in questo quadro gli Stati Uniti partecipano già al conflitto settario, avendo effettuato da tempo una scelta politico-militare anti-sciita, con l’appoggio ai regimi di Arabia Saudita e Qatar (notori e potenti sovvenzionatori religiosi, economici e militari per i jihadisti) e avendo giocato (senza uscita di sicurezza) la carta della Fratellanza Musulmana (e organizzazioni affini, come in Tunisia) gratificandola della patente – immotivata come il Nobel a Obama – di “islamismo moderato”, come mostrano i fatti. L’insospettabile emittente qatariota al-Jazeera ha rivelato che ai primi di dicembre 2012 ci fu un incontro fra il Muhammad Badie, leader dei Fratelli Musulmani d’Egitto (proprio giorni fa condannato all’ergastolo al Cairo), e il capo di al-Qaida Ayman al-Zawahiry, a Peshawar; in tale incontro i due firmarono un patto finalizzato anche alla fusione delle rispettive organizzazioni. È stato pure rivelato che questo incontro aveva fatto seguito ad altre riunioni al Cairo fra Badie e al-Zawahiry dopo le elezioni vinte da Mohammad Morsi. Tuttavia per l’Occidente la Fratellanza musulmana non sarebbe un gruppo terroristico – mentre tale è considerata in Russia, Tagikistan e Uzbekistan - ed è anzi usata da vari servizi segreti (come quelli Usa e britannico), quand’anche dopo l’11 settembre del 2011 fosse stata accusata di favoreggiamento dei terroristi.
Che la scelta in questione sia funzionale a precisi disegni politici viene inferito dal fatto che gli Usa altrimenti non avrebbero assistito con neutralità benevolente alla caduta dei regimi amici a Tunisi e al Cairo. D’altro canto la carta dell’Islam-politico non è spendibile solo nel Mediterraneo e zone contigue; essa vale anche nei confronti della Russia, della Cina e dell’India, dove le minoranze musulmane sono di una certa rilevanza e nei primi due paesi manifestano una certa agitabilità. Che da questo Islam-politico provengano anche fazioni propense al jihad armato, tanto meglio in un’ottica destabilizzante a vasto raggio. Il problema è che poi sfuggono sempre di mano.

Gli altri paesi dell’area

Non puo escludersi che l’evolversi della situazione nel Levante prima o poi costringa Washington a uscire dai dilemmi della sua politica, tra cui quello del mantenimento delle alleanze attuali oppure di una loro revisione. In questa seconda prospettiva si collocano anche possibili intese tattiche, cioè di mera convenienza, quand’anche ancora non se ne vedono le condizioni, contrastando com esse sia le pubbliche dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione statunitense, sia le ovvie diffidenze di quanti per Washington sono soggetti regionali scomodi, ma che per un altro verso sono di tale importanza da non poter essere del tutto esclusi dai giochi politici e militari. Per esempio si dice nel mondo arabo che senza l’Egitto non si può fare la guerra, e senza la Siria non si può fare la pace. Obama dovrebbe ricordarsene.
Il quadro strategico in Oriente è già mutato, e in concreto le convenienze oggettive ci sono; comunque ripensare radicalmente strategie politico-militari e alleanze comporta sempre vari “dolori di pancia” e nello specifico si deve fare i conti con quella mina elettorale che è l’influenza degli interessi israeliani. Ci vorrà tempo, ma nel corso del tempo anche gli eventi maturano; in bene come in male.

Arabia Saudita

Intanto va registrata la presa di distanza dell’Arabia Saudita dai jihadisti dell’Isis, avvenuta in agosto. Per quanto il Wahhabismo sia ideologicamente prossimo all’ideologia dell’Isis (per alcuni anzi ne è anzi la matrice) il governo di Ryadh si trova di fronte a decisioni delicate e determinanti. Ha fornito ai jihadisti consistenti aiuti finanziari e militari, ma non gli sfugge affatto che qualora l’Isis si rafforzasse ulteriormente non riceverebbe di certo né manifestazioni tangibili di gratitudine né riconoscimenti di legittimità islamica, bensì si troverebbe decisamente nel mirino di radicali non più contenibili. D’altro canto, sull’alleanza com gli Stati Uniti potrebbero venire a pesare eccessivamente i legami di Ryadh con i jihadisti, tanto più che il petrolio saudita oggi non è più importante come ieri per gli Stati Uniti.

Egitto

Ovviamente in ballo c’è anche l’Egitto, per quanto ancora se ne stia un po’ defilato. In questo paese è in corso una lotta al jihadismo che nel Sinai ha assunto connotati innegabilmente feroci, e a volte controproducenti. Contro l’Isis è sceso in campo anche il Dar al-Ifta, cioè il maggiore organismo religioso del paese, innanzi tutto dando corso a una forte campagna contro l’uso del termine “Stato islamico” e presentando i jihadisti come dei “separatisti”; inoltre ha annunciato la pubblicazione di un’enciclopedia per illustrare la vera realtà dell’Islam, da diffondere nelle varie comunità musulmane anche fuori dal paese. Fin qui tutto bene. Poi però emergono le magagne, tali da gettare pesanti ombre sull’Egitto di al-Sisi. Anche Dar al-Ifta è portatore della sua visione di “vero” Islam, e la vuole imporre: ecco cosi le sentenze religiose contro atteggiamenti e idee non in linea con la sua concezione (come le chat tra uomini e donne che non si conoscono), accuse di blasfemia a pioggia, blocco di una trasmissione televisiva consistente in una gara fra danzatrici del ventre, accanimento contro libri di autori egiziani e stranieri non graditi, chiusure di canali televisivi e cosi via. 
Al momento l’Egitto parteciperà alla coalizione più moralmente che materialmente, quand’anche siano in molti a pensare che la sua lotta al jihadismo esterno potrebbe consistere in un intervento militare in Libia, dove i radicali islamici imperversano. Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shukry, intervistato da El Pais al suo rientro dal vertice di Pari sull’Iraq, è stato molto chiaro:
«Appoggiamo l’azione internazionale per frenare l’espansione del terrorismo e dell’ideologia radicale. Preferiamo non riferirci a esso come “Stato islamico” perché non ha rapporti com l’Islam. Queste persone hanno un’agenda politica il cui obiettivo è demolire il concetto di Stato nazionale. Da molto tempo chiediamo alla comunità internazionale di agire con fermezza contro il terrorismo. (…) Se si sta riferendo all’appoggio all’Esercito iracheno con attacchi aerei, l’Egitto non è nella posizione di intervenire in forma diretta in Iraq. Stiamo combattendo il terrorismo nel Sinai, e quello perpetrato dai Fratelli Musulmani dentro l’Egitto. Le nostre forze di sicurezza hanno la responsabilità di proteggere il territorio e i suoi cittadini. Ci sono molte altre forme di appoggio alla lotta contro il terrorismo, come l’appoggio logistico o quello a istituzioni religiose che fanno fronte alla distorsione ideologica dei gruppi radicali».
È più che altro un “ciascuno per sé e Allah per tutti”.

Turchia
La Turchia è un problematico caso a parte. Essa non parteciperà alle operazioni militari, e la base aerea di Incirlik sara utilizzabile al massimo per assistenza umanitaria e logistica. È un colpo alla coalizione, giustificato con la presenza di una cinquantina di ostaggi turchi a Mosul. Ma le ragioni sono anche altre. In primo luogo salvare la faccia di Erdoğan che altrimenti – dopo essersi schierato contro il governo di Damasco - si troverebbe ora a mettersi contro i nemici di Assad, implicitamente legittimandolo e riconoscendo l’errore fatto. Ma vi sono anche ulteriori fattori a giocare ruoli importanti. La Turchia – che confina con la Siria per 910 km e con l’Iraq per 384 – con il governo degli islamisti “moderati” ha scelto di abbandonare la vecchia linea tracciata da Mustafa Kemal: evitare i problemi con i vicini, anche a costo assumere una posizione defilata, e pensare solo agli interessi turchi. In conclusione, dopo aver appoggiato lo schieramento contro al-Assad, nel 2014 il governo turco si è dovuto rendere conto degli imprevisti cambiamenti verificatisi in Siria e Iraq, a tutto scapito degli equilibri regionali, trovandosi a ridosso di una lunghissima frontiera un pericolo aggravato dalla presenza di volontari turchi nelle file dell’Isis da un mínimo di 1.000 a un massimo di 3.000, cioè un contagio potenziale da non sottovalutare. Per giunta la Turchia – oltre a essere paese di transito per chi vuole arruolarsi nell’Isis in Siria e Iraq – è come già detto l’area di passaggio del contrabbando di petrolio dell’Isis, venduto a prezzi ribassati. Si parla, finora, di un traffico arrivato a circa 800 milioni di dollari. Inoltre dal territorio turco continuano ad arrivare rifornimenti per i jihadisti in Siria: è del 16 di questo mese la notizia che un generale siriano, il druso Issam Zahr Eddine, ha deciso la demolizione del ponte di Siyassa sull’Eufrate, proprio per tagliare i rinforzi e i rifornimenti che stavano arrivando dalla Turchia.
La posizione turca verso l’Isis non è mai stata priva di ambiguità e la recente affermazione di Erdoğan - «Per noi è intollerabile che l’Isis o altri gruppi traffichino con il petrolio» - lascia il tempo che trova; intanto vari settori della popolazione si avvantaggiano dei bassi prezzi del combustibile trafficato dai jihadisti (meno della meta dei prezzi correnti). 
Ovviamente per Obama l’appoggio turco sarebbe essenziale, ma sarà costretto ad attendere. Non si esclude che Ankara finirà con l’essere costretta a muoversi per proteggersi, in quanto il contagio jihadista è già in atto anche sul suolo turco, ed è molto sintomatico il commercio a Istanbul di magliette con scritte inneggianti all’Isis. A seconda dello sviluppo degli avvenimenti potrebbe pure modificare il proprio atteggiamento sul piano esterno.

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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

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a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.