Isis: che fare?
L’improvvisa irruzione dei jihadisti di
al-Baghdadi ha dato corso a una diffusa prassi di massacro delle minoranze
religiose, di barbare esecuzioni, di vendita di schiave non-musulmane o sciite
sulla pubblica piazza, di stupri e matrimoni forzati, nonché di cancellazione
dei più elementari diritti della persona. Il tutto con la abominevole scusa
della religione (vecchio motivo del fanatismo “religioso” sotto tutti i cieli),
quand’anche nulla di ciò abbia a che fare con i precetti coranici riguardanti
il piccolo jihad (quello grande, e di
maggior valore, è lo sforzo umano per essere spiritualmente graditi a Dio). Il
“califfo” e i suoi tagliagole sono portatori di una
sanguinaria religione dell’odio fatta di crudeltà e sadismi pianificati, a cui
si deve contrapporre un’indignazione - senza se e ma - che si concretizzi in
reazioni effettive e idonee a eliminare questo fenomeno, perché qui rientra in
ballo con tutta la sua drammaticità il vecchio dilemma “civiltà o barbarie”.
Purtroppo, ad avere la maggior risonanza
mediatica, più dei massacri di massa, sono state le rozze - e quindi atroci -
decapitazioni filmate di tre ostaggi occidentali (due statunitensi e uno
britannico); due episodi orrendi che già da soli basterebbero a invocare la
distruzione dell’Isis. Comunque ancora una volta emerge il latente razzismo
bianco, in quanto la vita di tre appartenenti al Primo Mondo mantiene una
valenza maggiore rispetto alle vite di migliaia e migliaia di esseri umani un
po’ più abbronzati. Questo lapsus etico non muta di certo i termini del
problema centrale: l’Isis - in fase di strutturazione addirittura come Stato –
è una maxi-organizzazione criminale che le pratiche abituali di uccisione
massiccia di esseri umani indifesi, utilizzate come strumento di terrore,
privano di ogni dignità politica e morale, rendendone la distruzione
un’esigenza di igiene mondiale. Sono in gioco ulteriori vite di innocenti su
cui incombe un massacro ben lungi dall’essere concluso; e questo - checché ne
possano pensare gli “immacolati” di una certa sinistra residuale – richiede il
ricorso a ogni mezzo possibile, anche in nome di un grande dimenticato: l’umanesimo
rivoluzionario.
Se di una tale incombenza si facessero davvero carico gli Stati Uniti -
imperialisti e detestabili per quanto siano – ahimè, ci sarebbe solo da
applaudire. Salvo poi tornare a opporsi alle inevitabili manovre di dominio,
contestuali o nella fase successiva. D’altro canto non sarebbe la prima volta
(e nemmeno l’ultima) che pur da posizioni anticapitalistiche (rimaste tali) si
è costretti dalle contingenze ad appoggiare iniziative anche di soggetti
imperialisti purché siano distrutte realtà di barbarie organizzata.
Naturalmente gli Usa non affrontano la
nuova guerra col fine primario di salvare vite umane, sia di ostaggi
occidentali sia di musulmani: si è visto dall’inizio di questa estate quanta
considerazione ne abbiano in linea di massima. Adesso per loro si tratta di non
perdere il controllo di zone importanti strategicamente ed energeticamente, e
di salvare la faccia, innanzi tutto sul piano elettorale interno (dove in
effetti è alquanto pregiudicata), tenuto conto che negli Stati Uniti si
terranno a breve le elezioni di medio-termine; e qualcosa dev’essere fatta, ponendo
fine a una lunga passività di fronte all’espansione dell’Isis; ma qualcosa di
effettivo giacché i sondaggi evidenziano un’alta percentuale di elettori
favorevole a un deciso intervento. Quindi, per come stanno le cose, c’è poco da
scegliere.
Va anche fatto un discorso senz’altro poco
simpatico: se ci si pone sul piano del realismo, si deve avere il coraggio di
sostenere che i jihadisti dell’Isis (o di chi verrà poi) devono essere
eliminati senza tregua e con la massima determinazione; senza fare prigionieri,
si potrebbe dire. Un tale atteggiamento purtroppo non ha alcuna funzione
deterrente o distogliente, giacché questi criminali, nella loro follia
religiosa, combattono più per morire che per vincere (seppure la vittoria non
sia affatto disprezzata, anzi), sicuri come sono di ottenere le delizie del
Paradiso (con tanto di vergini Urì fornitrici di orgasmi multipli) grazie alle
loro esecrabili azioni blasfemamente compiute in nome di Dio. Cioè a dire:
massacrare gli altri e morire per godere del Paradiso! Non ci sono validi
procedimenti per la disintossicazione mentale dei jihadisti, il cui picco di
gravità è dato dall’indifferenza o - peggio - dalla gioia con cui partecipano
e/o assistono ad efferatezze inqualificabili; e tutto dice che si tratta di
intossicazione irreversibile.
Di un pessimo romanzo di un giornalista
portoghese (José Rodrigues dos Santos, Furia
divina) va ricordata l’interessante descrizione del processo psicologico
attraverso cui un certo tipo di inquieto giovane musulmano sunnita passa da un
Islam davvero moderato e umanista al più barbaro ed efferato jihadismo,
perdendo progressivamente ogni considerazione per la vita umana: non solo di
quella inquadrabile nella vasta categoria degli “infedeli” (comprensiva anche
di determinati musulmani) che sono meritevoli dell’Inferno, ma altresì per la
vita degli stessi musulmani radicali, per i quali il Paradiso è comunque
assicurato.
Il
problema è complesso e ci si potrebbe chiedere se esistano altri rimedi - oltre
agli interventi di tipo militare e poliziesco - che vadano al di là delle
manifestazioni di un male dalle radici profonde per colpirne il nucleo più
essenziale. Si tratta di un male la cui forza contagiosa non si è ancora
pienamente esplicata e oltretutto è palese quanto sia permeabile ad essa un
ampio bacino umano che va da ambienti islamici con forti problemi
socio-psicologici fino a giovani occidentali di recente e malamente convertiti.
Terrificante è la recentissima notizia che l’Isis voleva compiere in Australia
un massacro mediatico, decapitando dei civili rapiti casualmente e riprendendone
l’esecuzione con telecamere; e soprattutto che la cellula di estremisti fosse
guidata da un australiano. Sembra che siano stati effettuati ben 15 arresti e
altri 10 siano ancora da compiere.
I
rimedi aggiuntivi all’azione poliziesca (e militare) sono più teorici che
pratici, in base alle dimensioni dell’ondata di follia che si va sviluppando. L’intervento
sulle cause socio-psicologiche del fenomeno (a prescindere dalla loro efficacia
pratica) non riscuotono molto interesse, nei paesi islamici come in Occidente,
dove si vanno estendendo xenofobia e razzismo. Inoltre, gli psicopatici
criminali dell’Isis non sono riducibili a soggetti emarginati, di scarsa
cultura e facile preda del fanatismo: tra essi si trovano anche persone dotate
di buona qualificazione e buoni curricula
di studi secondo i parametri occidentali: ne è esempio (uno tra i tanti
possibili) l’attuale responsabile delle telecomunicazioni nella città siriana
di Raqqa in mano al “califfato”, un tunisino munito di master universitario.
Che ci sia una via d’uscita plurima è assai
dubbio: le ragioni psicologiche e culturali che hanno portato tanta gente ad
aderire a fascismo e nazismo sono state oggetto di studi per comprenderle; tuttavia
dalla comprensione non è nata alcuna cura. D’altro canto ci sono ormai millenni
e milleni di storia a dimostrare che quando la crudeltà umana riesce ad
ammantarsi di motivazioni ideologiche o (peggio) pseudoreligiose, essa si
scatena senza freni e va solo combattuta e repressa. Ci si deve rassegnare a
convivere col pericolo e colpirlo in ogni sua manifestazione, finché non sia
ridotto ai minimi termini.
Sarebbe banalmente facile constatare,
magari con disdegno occidentale, l’assenza (o la non-visibilità) di forze
laiche capaci di fare da contrappeso al jihadismo ma, al riguardo siamo in
presenza - con tutta drammaticità - delle conseguenze di processi storici in
cui ambienti e personalità (anche di tutto rispetto e punti di riferimento
nella lotta al colonialismo e all’imperialismo) sono rimaste schiacciate dalla
duplice morsa dell’Occidente predatore e del fanatismo religioso di certi
ambienti musulmani. Si pensi solo al mitico abd el-Krim el-Khattabi, guida della lotta contro Spagna
e Francia in Marocco, che combatteva per una repubblica laica, odiava il
fanatismo religioso e non era affatto tacciabile di essere un cattivo
musulmano. E il danno continua.
Si puo parlare quanto si vuole di guerra
totale all’Isis, tuttavia resta da stabilire se verrà fatta davvero e fino a
che punto i seguaci del dio-denaro non la sabotino. Già ci sarebbero le prime
falle, almeno se corrisponde al vero la notizia che da paesi europei (ancora
non rivelati) concretamente si finanzia l’Isis acquistando di contrabbando il
petrolio che esso ricava dalle zone occupate, e per vari miliardi di dollari.
Questo contrabbando passerebbe per la Turchia, paese membro della Nato!
Per quanto riguarda il mondo musulmano
vanno registrate varie e autorevoli prese di posizione contro l’Isis. Imam britannici
hanno emanato una fatwa di condanna
per i giovani musulmani che vanno a combattere in Siria e Iraq definendoli
eretici e qualificando “velenosa” l’ideologia dell’Isis. Ancor prima c’era stata
una fatwa dello stesso tenore emessa dal Consiglio Islamico Siriano, organismo in cui sono presenti ulama di vario orientamento dottrinale;
lo scorso 19 agosto il Gran Muftì dell’Arabia Saudita ha definito Isis e
al-Qaida “nemici numero uno dell’Islam”;
del pari si è espresso al Cairo il Gran Muftì di al-Azhar; il segretario
generale della Lega Araba ha chiesto ai paesi dell’area di aiutare l’Iraq e garantire la sicurezza alle
minoranze religiose; anche esponenti di comunità islamiche negli Usa, in
Gran Bretagna, Francia e Italia hanno preso posizione.
Pur tuttavia non sembra si possa parlare di
una vera mobilitazione (spontanea o indotta) tra le masse musulmane atta a
contrastare il jihadismo. Va pure detto che, se e quando ci fosse, la reazione
omicida di tante cellule radicali oggi in sonno non si farebbe attendere, alla
maniera algerina di vari anni fa, ma forse in modo ancora più cruento. Il che
ci porta al punto di partenza: l’ineludibilità comunque di un capillare impiego
di radicali misure poliziesche e militari a livello sia preventivo sia
repressivo. A parte forse la sola America latina, tutto il resto del mondo non
solo è virtualmente nel mirino, ma in definitiva ogni paese ha già il nemico in
casa, e per giunta occultato. Purtroppo tra i primi a farne le spese saranno i
tanti disperati che attraverso l’emigrazione cercano di salvare la vita e/o di
ottenere un’esistenza migliore.
Se l’Isis va colpito a cuore, individuare
dove sia non è difficile; semmai la questione sta nel come arrivarci. Il suo
cuore sono le fonti di finanziamento, oltre ai 429 milioni di dollari e i più di 600 miliardi
di dinari iracheni (398 milioni di euro) presi a Mosul.
Innanzi tutto non sarebbe affatto male impegnarsi da subito per bloccare il
contrabbando di petrolio dell’Isis (che fornisce 2 milioni di dollari al
giorno); ma si dovrebbero anche colpire le altre fonti: le estorsioni a mo’ di
pizzo islamico, le elargizioni di ricchi arabi sauditi e qatarioti nonché
quelle provenienti dalla rete delle banche islamiche. Inutile dire che si
tratterà di una lotta lunga e difficile, inevitabilmente complicata del
persistere di mene imperialistiche di varia provenienza.
Un’ulteriore considerazione. Sarebbe
esiziale se la coalizione di Obama & Co. finisse con l’essere presentabile,
e con una certa efficacia, come crociata contro l’Islam. Vero è che la
propaganda può far apparire nero il bianco; ed è vero che i jihadisti si
considerano portatori esclusivi del “vero” Islam, vedendo degli apostati in
ogni musulmano che la pensi diversamente; tuttavia una coalizione priva di
presenze islamiche qualificate e diversificate sarebbe davvero suscettibile di
apparire come una crociata occidentale agli occhi di molti musulmani,
quand’anche non radicalizzati in senso jihadista. Sarebbe molto più opportuno
che della coalizione facesse parte più di una presenza islamica in modo da
farla risultare espressione di realtà musulmane che pur restando diverse fra
loro, si uniscono però contro un nemico comune; un nemico che proprio in virtù
del pluralismo islamico in un fronte unito risulterebbe per l’appunto comune.
Per questo non basta la sola presenza dell’Arabia Saudita (a parte le sue
ambiguità): si dovrebbero cioè imbarcare anche Siria e Iran. Ma le necessarie
condizioni politiche ancora non ci sono, e questo peserà.
Obama
non convince
Obama giorni fa ha finalmente annunciato di
aver trovato una strategia contro l’Isis, e l’ha articolata in 4 punti: 1) campagna sistematica di
raid aerei estesi alle zone siriane in mano all’Isis; 2) appoggio alle forze forze
curde e irachene impegnate sul campo; 3) guerra generale contro il terrorismo;
4) aiuti per
rifugiati e profughi. Essa però non convince, e vari soggetti
diffidano. Partiamo da questi ultimi.
a) le
Chiese cristiane dell’area
Giorni fa la posizione statunitense si è
scontrata - poco diplomaticamente a dire il vero - con alti esponenti delle
Chiese cristiane del Vicino e Medio Oriente ospiti a Washington per iniziative
“a favore dei Cristiani d’Oriente”. Obama si è incontrato con il cardinale
Beshara ar-Rai (Patriarca Maronita di Antiochia), il vescovo Zihlawi, i
patriarchi Aram I Keshishian (Chiesa Armena), Ignatius Younane (Chiesa Siriaca)
e Gregorio III Laham (melkita). Avendo capito che non era il caso di usare toni
propagandistici, Obama non ha parlato di “regime siriano”, ma di “governo
siriano” e ha dovuto dare atto che in questi anni il governo di al-Assad ha
operato in difesa dei Cristiani di Siria, suscitando da parte di Aram
Keshishian la replica: «Allora in questo
caso la dovete finire di sostenere i terroristi che cercano di abbattere il suo
Governo».
Purtroppo per Obama i suoi interlocutori
erano prelati e arabi, e quindi doppiamente delle vecchie volpi; costoro
infatti gli hanno presentato un documento scritto in cui i guai dei Cristiani
sono imputati solo in parte all’Isis:
e questo vuol dire estendere le doglianze ai ribelli siriani sostenuti dagli
Stati Uniti. Tant’è che uno dei prelati (non identificato) gli avrebbe chiesto
senza mezzi termini di “smetterla di parlare di opposizione moderata in Siria”.
Quando poi Obama è passato a trattare del Libano, il cardinale Beshara ar-Rai
si è pronunciato a chiare lettere contro il disarmo dell’Hezbollāh sciita.
Dopo questo incontro, si è registrato un
incidente per i discorsi smaccatamente filoisraeliani di congressisti
statunitensi durante un convegno organizzato in favore dei cristiani d’Oriente.
Lì si è particolarmente distinto il senatore Ted Cruz (repubblicano del Texas, appartenente
al Tea Party) provocando l’uscita dei
prelati orientali; essi hanno fatto ritorno in sala solo dopo l’assicurazione
che Cruz se n’era andato, e in più hanno fatto notare al rappresentante degli Usa
(Chris Smith)
che intendeva condannare il regime di Assad, come l’obiettivo della
conferenza fosse diverso.
Citiamo questi
episodi non come inutile gossip, ma
per evidenziare due aspetti che potrebbero avere effetti concreti. Innanzi
tutto quegli ecclesiastici, una volta lasciati gli Usa, non trasmetteranno di
certo sentimenti rassicuranti circa gli Stati Uniti né ai propri fedeli né al
Vaticano, e inoltre hanno dimostrato la distanza esistente fra le bugie
statunitensi e i sentimenti delle minoranze cristiane del Levante; infine vanno
considerati i possibili effetti di tale distanza-incompatibilità sulla prossima
campagna elettorale tra gli elettori appartenenti alle Chiese d’Oriente;
innanzi tutto a carico del Partito Repubblicano, ma forse anche di quello
Democratico. Lo si verificherà a breve.
b) la Russia
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov,
accusando l’Occidente di privilegiare i propri interessi politici, ha criticato
il fatto che l’invito a partecipare ai negoziati per la coalizione anti-Isis
non sia stato rivolto all’Onu e a una trentita di paesi, fra cui Siria e Iran,
definiti i naturali alleati in questa lotta, e la cui assenza renderebbe vaga «la
battaglia antiterrorista contro chi agita l’abisso di una guerra di religione».
Egli ha anche definito inutile e foriero di
caos e sangue il progetto statunitense di condurre la lotta con i bombardamenti
aerei, poiché i jihadisti si mescoleranno alla popolazione civile a mo’ di
scudo umano; e non ha mancato di ipotizzare che l’estensione degli attacchi
aerei alla Siria potrebbe far parte di una strategia per indebolire in realtà
il governo di Damasco, tanto più che
mancherebbe di qualsiasi supporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Irina Zviagelskaya, ricercatrice in Scienze storiche presso l’Istituto
di Orientalistica dell’Accademia delle Scienze russa, ha formulato una giusta
considerazione alla Rbth [Russia Beyond The Headlines, agenzia d’informazioni
multilingue]:
«Nella lotta contro l’Isis il ricorso alla forza militare non basterà poiché quest’organizzazione è riuscita a elaborare un’ideologia che fa presa sulle masse e che ottiene un ampio consenso tra i giovani non soltanto in Medio Oriente, ma anche all’estero. (…) Gli attacchi aerei provocheranno inevitabilmente delle vittime tra la popolazione civile ed è incauto ritenere che i bombardamenti possano liquidare il problema. Questa misura unilaterale non farà che esasperare le persone e si continuerà a infoltire le file dell’Isis».
Ha aggiunto che insieme alle operazioni militari vanno compiuti sforzi
per ripristinare una normale vita economica nei territori liberati, onde
evitare il formarsi di condizioni favorevoli al proliferare dell’ideologia
dell’Isis; e inoltre che va stabilito un assetto politico idoneo a permettere
una pacifica convivenza tra sunniti e sciiti in Iraq. Intanto continuano i
consistenti aiuti militari a questo paese e alla Siria.
c) l’Iran
A Teheran, si registrano da parte della
Guida Suprema Ali Khamenei estrema diffidenza non priva di accenti irrisori,
come il divertimento suscitatogli dall’ascolto dei pomposi proclami di Obama.
Il ministro degli Affari Esteri Marzieh Afkhan ha espresso all’agenzia di
stampa Irna le sue incertezze sulla
cosiddetta coalizione internazionale, e in particolare
«sulla serietà e sulla sincerità di coloro che vogliono estirpare le vere cause del terrorismo [poiché alcuni paesi della coalizione hanno] fornito sostegno finanziario ai jihadisti in Iraq e in Siria, perché speravano di costringere a cambiamenti politici che fossero più vicini ai loro interessi».
Dal canto suo il Presidente Hassan Rohani -
nel corso di un incontro ufficiale con il vicepremier e ministro degli Esteri
slovacco, Miroslav Lajčák, in visita a Teheran - ha sottolineato in via
generale che i responsabili della creazione e della diffusione di una malattia
non possono proporsi come coordinatori o addirittura organizzatori degli sforzi
per combatterla, e scendendo nel particolare che
«Paesi che per anni e anni hanno organizzato, addestrato, armato, finanziato e rifornito i gruppi terroristi operanti in Siria improvvisamente sentono il richiamo, quasi la necessità di combattere le loro creazioni (…) tale ipocrita “necessita” deriva invece dal desiderio di raggiungere con altri mezzi gli obiettivi che i gruppi terroristi hanno fallito in tutto questo tempo».
d) chi esercita spirito critico
Con l’asserito impegno di decisa lotta alla
minaccia jihadista contrasta l’intenzione di fornire nuovi armamenti all’opposizione
siriana “laica e moderata”, con l’aggiunta di bombardamenti anche in Siria. I
dubbi nascono dal fatto che se l’impegno degli Stati Uniti si rivolgesse ad
ampio spettro contro il jihadismo, allora sarebbe conseguente - se non un
accordo - quanto meno una certa benevola neutralità verso chi già lo sta
contrastando con l’apporto di aleviti, sunniti, sciiti e cristiani.
In secondo luogo c’è la mistificazione data
dal concetto di “opposizione siriana laica e moderata”; esso suona bene ma, se si
guarda al contenuto, la musica cambia. Gli Stati Uniti conferiscono tale
patente a un insieme contraddittorio formato dal cosiddetto Esercito Libero
Siriano (Els) e dal fronte al-Nusra
(collegato invece ad al-Qaida di Ayman al-Zawahiry). L’Els è militarmente
pressoché al collasso, anche a causa della lotta scatenatagli dai jihadisti; e il
gruppo radicale al-Nusra si è ampiamente distinto per efferatezze varie.
Efferatezze non solo di oggi, ma finora accuratamente o taciute o minimizzate
dai media occidentali, e da cui non è stato immune nessuno; esempio tipico
quello del maggio 2013 a
carico del comandante della brigata al-Faruk
che fa parte proprio dell’Els (i “moderati” per antomasia): a lui si deve la
trasmissione su internet di un video che lo immortala mentre decapitava un
soldato siriano e ne mangiava il cuore! La BBC gli dette anche la parola perché
si giustificasse.
Questa asserita opposizione “laica e
moderata” attualmente sta per essere cacciata anche da Aleppo a opera
dell’esercito di Damasco, tanto che l’8 di questo mese l’International
Crisis Group ha
pubblicato un rapporto per allertare sulle conseguenze negative di una totale
caduta di Aleppo per l’Els e al-Nusra, i cui rifornimenti passano dalla Turchia
per quella zona. In ordine alle ambiguità satunitensi (a dir poco) c’è il fatto
- censurato forse negli Usa, ma divulgato dalla britannica Reuters - di una
seduta segreta del Congresso, a gennaio 2014, in cui fu votato il
finanziamento e l’armamento fino al 30 settembre 2014 per l’Els, al-Nusra e
anche... per l’Emirato Islamico del Levante e dell’Iraq, oggi meglio noto come
Isis! E allora?
Il problema dell’invio di truppe di terra
Da Washington si ripete fino
alla noia che non ci sarà invio di truppe occidentali per combattere sul campo
l’Isis, anche se dei generali - subito bacchettati - hanno sostenuto proprio la
necessità di tale invio. Orbene, se non fosse per le scelte politiche degli
Stati Uniti, si dovrebbe dire che nemmeno ci sarebbe bisogno di porre, sia pure
al negativo, il problema, poiché sul campo le forze che davvero combattono
l’Isis ci sono eccome; solo che non rientra negli interessi politici
statunitensi appoggiarle, perché anch’esse sono state inserite fra i “nemici
canaglia”. Infatti, oltre al governo di Damasco ci sarebbero le milizie sciite
irachene, l’Hezbollāh libanese e lo stesso Iran. Ma ancora da questo orecchio a
Washington non sentono.
Per cui resta
aperto l’interrogativo tecnico circa l’efficacia dei soli attacchi aerei per
distruggere l’Isis. Forse sarebbero efficaci se di gran lunga massicci; ma sarà
cosi? Comunque il loro costo (di certo non minimale) verrà addossato dagli Usa
al governo iracheno, indipendentemente dal successo che ne derivi.
Si potrebbe obiettare che appoggiando determinate
realtà gli Stati Uniti diverrebbero parti attive di un conflitto settario. Questo
è vero solo apparentemente. Infatti, due aspetti vanno considerati. Innanzi
tutto, nel Vicino e Medio Oriente il conflitto settario fondamentalmente vede in
campo: da un lato, il radicalismo islamico sunnita fino al jihadismo, e
dall’altro lato tutto il resto (sunniti non-radicali, sciiti di varia
appartenenza, cristiani delle diverse Chiese, laici, atei e agnostici), cioè la
maggioranza. Il secondo aspetto è che in questo quadro gli Stati Uniti
partecipano già al conflitto settario, avendo effettuato da tempo una scelta
politico-militare anti-sciita, con l’appoggio ai regimi di Arabia Saudita e
Qatar (notori e potenti sovvenzionatori religiosi, economici e militari per i
jihadisti) e avendo giocato (senza uscita di sicurezza) la carta della Fratellanza
Musulmana (e organizzazioni affini, come in Tunisia) gratificandola della
patente – immotivata come il Nobel a Obama – di “islamismo moderato”, come
mostrano i fatti. L’insospettabile emittente qatariota al-Jazeera ha rivelato che ai primi di dicembre 2012 ci fu un
incontro fra il Muhammad Badie, leader dei Fratelli Musulmani d’Egitto (proprio
giorni fa condannato all’ergastolo al Cairo), e il capo di al-Qaida
Ayman al-Zawahiry, a Peshawar; in tale incontro i due firmarono un patto
finalizzato anche alla fusione delle rispettive organizzazioni. È stato pure
rivelato che questo incontro aveva fatto seguito ad altre riunioni al Cairo fra
Badie e al-Zawahiry dopo le elezioni vinte da Mohammad Morsi. Tuttavia per l’Occidente la Fratellanza musulmana non sarebbe un gruppo terroristico – mentre tale è
considerata in Russia, Tagikistan e Uzbekistan - ed è anzi usata da vari
servizi segreti (come quelli Usa e britannico), quand’anche dopo l’11 settembre
del 2011 fosse stata accusata di favoreggiamento dei terroristi.
Che la scelta in questione sia funzionale a
precisi disegni politici viene inferito dal fatto che gli Usa altrimenti non avrebbero
assistito con neutralità benevolente alla caduta dei regimi amici a Tunisi e al
Cairo. D’altro canto la carta dell’Islam-politico non è spendibile solo nel
Mediterraneo e zone contigue; essa vale anche nei confronti della Russia, della
Cina e dell’India, dove le minoranze musulmane sono di una certa rilevanza e
nei primi due paesi manifestano una certa agitabilità. Che da questo
Islam-politico provengano anche fazioni propense al jihad armato, tanto meglio in un’ottica destabilizzante a vasto
raggio. Il problema è che poi sfuggono sempre di mano.
Gli
altri paesi dell’area
Non puo escludersi che l’evolversi della
situazione nel Levante prima o poi costringa Washington a uscire dai dilemmi
della sua politica, tra cui quello del mantenimento delle alleanze attuali
oppure di una loro revisione. In questa seconda prospettiva si collocano anche
possibili intese tattiche, cioè di mera convenienza, quand’anche ancora non se
ne vedono le condizioni, contrastando com esse sia le pubbliche dichiarazioni
di esponenti dell’amministrazione statunitense, sia le ovvie diffidenze di
quanti per Washington sono soggetti regionali scomodi, ma che per un altro
verso sono di tale importanza da non poter essere del tutto esclusi dai giochi politici
e militari. Per esempio si dice nel mondo arabo che senza l’Egitto non si può
fare la guerra, e senza la Siria non si può fare la pace. Obama dovrebbe ricordarsene.
Il quadro strategico in Oriente è già
mutato, e in concreto le convenienze oggettive ci sono; comunque ripensare
radicalmente strategie politico-militari e alleanze comporta sempre vari
“dolori di pancia” e nello specifico si deve fare i conti con quella mina
elettorale che è l’influenza degli interessi israeliani. Ci vorrà tempo, ma nel
corso del tempo anche gli eventi maturano; in bene come in male.
Arabia Saudita
Intanto va registrata la presa di distanza
dell’Arabia Saudita dai jihadisti dell’Isis, avvenuta in agosto. Per quanto il
Wahhabismo sia ideologicamente prossimo all’ideologia dell’Isis (per alcuni
anzi ne è anzi la matrice) il governo di Ryadh si trova di fronte a decisioni delicate
e determinanti. Ha fornito ai jihadisti consistenti aiuti finanziari e
militari, ma non gli sfugge affatto che qualora l’Isis si rafforzasse
ulteriormente non riceverebbe di certo né manifestazioni tangibili di gratitudine
né riconoscimenti di legittimità islamica, bensì si troverebbe decisamente nel
mirino di radicali non più contenibili. D’altro canto, sull’alleanza com gli Stati
Uniti potrebbero venire a pesare eccessivamente i legami di Ryadh con i
jihadisti, tanto più che il petrolio saudita oggi non è più importante come
ieri per gli Stati Uniti.
Egitto
Ovviamente in ballo c’è anche l’Egitto, per
quanto ancora se ne stia un po’ defilato. In questo paese è in corso una lotta
al jihadismo che nel Sinai ha assunto connotati innegabilmente feroci, e a
volte controproducenti. Contro l’Isis è sceso in campo anche il Dar al-Ifta, cioè il maggiore organismo religioso del
paese, innanzi tutto dando corso a una forte campagna contro l’uso del termine
“Stato islamico” e presentando i jihadisti come dei “separatisti”; inoltre ha annunciato
la pubblicazione di un’enciclopedia per illustrare la vera realtà dell’Islam,
da diffondere nelle varie comunità musulmane anche fuori dal paese. Fin qui
tutto bene. Poi però emergono le magagne, tali da gettare pesanti ombre sull’Egitto
di al-Sisi. Anche Dar al-Ifta è portatore
della sua visione di “vero” Islam, e la vuole imporre: ecco cosi le sentenze
religiose contro atteggiamenti e idee non in linea con la sua concezione (come
le chat tra uomini e donne che non si
conoscono), accuse di blasfemia a pioggia, blocco di una trasmissione televisiva
consistente in una gara fra danzatrici del ventre, accanimento contro libri di autori
egiziani e stranieri non graditi, chiusure di canali televisivi e cosi
via.
Al momento l’Egitto parteciperà alla coalizione più moralmente che
materialmente, quand’anche siano in molti a pensare che la sua lotta al
jihadismo esterno potrebbe consistere in un intervento militare in Libia, dove
i radicali islamici imperversano. Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh
Shukry, intervistato da El Pais al
suo rientro dal vertice di Pari sull’Iraq, è stato molto chiaro:
«Appoggiamo l’azione internazionale per frenare l’espansione del terrorismo e dell’ideologia radicale. Preferiamo non riferirci a esso come “Stato islamico” perché non ha rapporti com l’Islam. Queste persone hanno un’agenda politica il cui obiettivo è demolire il concetto di Stato nazionale. Da molto tempo chiediamo alla comunità internazionale di agire con fermezza contro il terrorismo. (…) Se si sta riferendo all’appoggio all’Esercito iracheno con attacchi aerei, l’Egitto non è nella posizione di intervenire in forma diretta in Iraq. Stiamo combattendo il terrorismo nel Sinai, e quello perpetrato dai Fratelli Musulmani dentro l’Egitto. Le nostre forze di sicurezza hanno la responsabilità di proteggere il territorio e i suoi cittadini. Ci sono molte altre forme di appoggio alla lotta contro il terrorismo, come l’appoggio logistico o quello a istituzioni religiose che fanno fronte alla distorsione ideologica dei gruppi radicali».
È più che altro un “ciascuno per sé
e Allah per tutti”.
Turchia
La Turchia è un problematico caso a parte. Essa non parteciperà alle
operazioni militari, e la base aerea di Incirlik sara utilizzabile al massimo
per assistenza umanitaria e logistica. È un colpo alla coalizione, giustificato
con la presenza di una cinquantina di ostaggi turchi a Mosul. Ma le ragioni sono
anche altre. In primo luogo salvare la faccia di Erdoğan che altrimenti – dopo
essersi schierato contro il governo di Damasco - si troverebbe ora a mettersi contro
i nemici di Assad, implicitamente legittimandolo e riconoscendo l’errore
fatto. Ma vi sono anche ulteriori fattori a giocare ruoli importanti. La
Turchia – che confina con la Siria per 910 km e con l’Iraq per 384 – con il governo
degli islamisti “moderati” ha scelto di abbandonare la vecchia linea tracciata
da Mustafa Kemal: evitare i problemi con i vicini, anche a costo assumere una
posizione defilata, e pensare solo agli interessi turchi. In conclusione, dopo
aver appoggiato lo schieramento contro al-Assad, nel 2014 il governo turco si è
dovuto rendere conto degli imprevisti cambiamenti verificatisi in Siria e Iraq,
a tutto scapito degli equilibri regionali, trovandosi a ridosso di una lunghissima
frontiera un pericolo aggravato dalla presenza di volontari turchi nelle file
dell’Isis da un mínimo di 1.000
a un massimo di 3.000, cioè un contagio potenziale da non
sottovalutare. Per giunta la Turchia – oltre a essere paese di transito per chi
vuole arruolarsi nell’Isis in Siria e Iraq – è come già detto l’area di
passaggio del contrabbando di petrolio dell’Isis, venduto a prezzi ribassati.
Si parla, finora, di un traffico arrivato a circa 800 milioni di dollari. Inoltre
dal territorio turco continuano ad arrivare rifornimenti per i jihadisti in
Siria: è del 16 di questo mese la notizia che un generale
siriano, il druso Issam
Zahr Eddine, ha deciso la demolizione del ponte di Siyassa sull’Eufrate, proprio
per tagliare i rinforzi e i rifornimenti che stavano arrivando dalla Turchia.
La posizione turca verso l’Isis non è mai stata priva di ambiguità e la
recente affermazione di Erdoğan - «Per noi è intollerabile che
l’Isis o altri gruppi traffichino con il petrolio» - lascia il tempo che trova; intanto vari settori della popolazione si
avvantaggiano dei bassi prezzi del combustibile trafficato dai jihadisti (meno
della meta dei prezzi correnti).
Ovviamente per Obama l’appoggio turco sarebbe essenziale, ma sarà costretto
ad attendere. Non si esclude che Ankara finirà con l’essere costretta a
muoversi per proteggersi, in quanto il contagio jihadista è già in atto anche
sul suolo turco, ed è molto sintomatico il commercio a Istanbul di magliette
con scritte inneggianti all’Isis. A seconda dello sviluppo degli avvenimenti
potrebbe pure modificare il proprio atteggiamento sul piano esterno.
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