A 120 anni dalla nascita e 70 dalla morte
(intervento inviato al convegno di Schio, 5 ottobre 2013)
L’avvertimento secondo cui il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine, proviene da molto lontano: la lontananza, tuttavia, non ha impedito che questa fondamentale indicazione etica s’incarnasse in alcune figure gloriose del movimento rivoluzionario. Pietro Tresso, nome di battaglia «Blasco», è stato certamente una di queste figure, e anche una delle più gloriose. Ascoltiamolo mentre, a novembre del 1942, dal carcere militare di Lodève, scrive alla cognata Gabriella Maier (sorella della sua compagna Barbara Seidenfeld e prima compagna di Silone):
«Perché? Perché siamo rimasti giovani. E per questo sempre insoddisfatti dell’esistente e desiderosi sempre di qualcosa di meglio. Quelli che non sono rimasti giovani, sono, in realtà, diventati dei cinici. Per essi gli uomini e tutta l’umanità non sono che degli strumenti, dei mezzi che devono servire per i loro fini particolari, anche se questi fini sono mascherati con frasi di ordine generale; per noi gli uomini e l’umanità sono le sole vere realtà esistenti. Naturalmente tutto ciò è molto generico. Bisognerebbe ancora stabilire il legame necessario tra le forze morali che sono in noi e la realtà quotidiana. È qui che sorgono le vere difficoltà. Ma una cosa mi pare certa: è impossibile sopportare in silenzio ciò che urta con i più profondi sentimenti dell’uomo. Non possiamo ammettere come giusti gli atti che sentiamo e sappiamo ingiusti; non possiamo dire che è falso ciò che è vero e che è vero ciò che è falso con il pretesto che ciò serve a questa o quella delle forze presenti. In definitiva, ciò ricadrebbe sull’umanità intera e, dunque, su noi stessi; ciò distruggerebbe la ragione stessa dei nostri sforzi…».
È un brano celebre di Pietro Tresso che mi accompagna da decenni e che ormai mi sembra di conoscere quasi a memoria. In questi giorni, però, frugando tra i materiali del mio archivio dedicato a Tresso, è ricomparso fisicamente, stampato dalla mia antica e gloriosa Olivetti L32 in inchiostro rosso, su un foglio di carta roso dal tempo e dai tarli, con sottolineatura d’epoca nelle due linee di imperativo categorico qui messe in corsivo. Devo averlo tradotto dal francese ed essermelo appuntato nel 1976, quando lavoravo alla riedizione del Bollettino della Noi o ad aprile del 1977, quando pubblicai un ricordo di Tresso nel n. 5/6 de La Classe. Cioè 36/37 anni fa (che cominciano ad essere tanti…). Ma erano solo 8/9 anni dopo il ‘68 (che all’epoca sembravano pochi e dirò avanti il perché).
Sono quindi felice di essermi ritrovato fra le mani quel pezzo di carta nel momento in cui mi accingevo a scrivere queste noterelle da inviare come contributo al vostro incontro su Tresso - che certamente sarà interessante e che comunque merita un plauso per il solo fatto di svolgersi, e di svolgersi in questa Italia, in questo ottobre del 2013, in questo momento di crisi storica, morale e politica del poco che resta della sinistra detta un tempo «rivoluzionaria». È un incontro al quale sono stato invitato e avrei voluto partecipare se non mi fossi dovuto trovare, in queste stesse ore, in terra siceliota, a Selinunte, per ricordare un altro rivoluzionario del Novecento, uno dei pochi di cui si possa in qualche modo andare ancora fieri. Ma Ernesto Guevara - che la sostanza di quelle parole di Tresso inconsapevolmente le ha fatte sempre sue, le ha messe per iscritto e ha tentato di tradurle in pratica anche armi alla mano - non poteva certo sapere chi fosse stato il combattente rivoluzionario Blasco. Vista l’ignoranza che circonda questo grande personaggio nella ex sinistra ed ex estrema sinistra italiana, non ci si può stupire se anche all’estero il nome di Tresso sia noto in genere solo agli addetti ai lavori (e non sempre tra i giovani).
Del resto, troppe altre cose avrebbe dovuto sapere Guevara - e dovrebbero sapere le nuove leve di aspiranti rivoluzionari - prima di arrivare a capire l’autentica grandezza di questo proletario italiano di Schio, di questo socialista antinterventista, organizzatore sindacalista, cofondatore del Partito comunista, antistalinista della prima ora, trotskista fino alla morte, internazionalista profondo - insomma, questa perfetta sintesi storicamente determinata di cosa poteva significare essere un rivoluzionario nel periodo tra le due guerre.
Non penso di esagerare a definirlo la più bella figura del movimento operaio italiano del Novecento, non paragonabile a nessun altro in Italia per grandezza morale, lucidità di analisi politica, coerenza tra pensiero e azione, determinazione rivoluzionaria… Non sono mancate figure più celebri, alcune certamente più formate di lui in campo teorico, o più operative in campo pratico; ma di nessuna di loro si può dire che abbia avuto continuativamente ragione nelle scelte compiute per l’intero arco di una vita, come invece si è verificato con lui; o di aver sempre dimostrato coerenza nella traduzione in pratica di idee politiche che a posteriori possiamo e dobbiamo giudicare sostanzialmente giuste, forse giustissime.
Devo però chiarire che tale giudizio non vale in assoluto e quindi in astratto, ma solo relativamente agli anni in cui Tresso agì e nel confronto con le posizioni politiche che erano concretamente in circolazione: una precauzione metodologica che ho sempre considerato fondamentale e che invece i «da soli ideologici» non capiranno mai. Tale precauzione (relativizzatrice) a maggior ragione deve valere per un rivoluzionario immerso attivamente in quella buia notte epocale schiacciata fra due orrendi totalitarismi, quella che Victor Serge ha definito con stupenda immagine letteraria come «mezzanotte nel secolo». Chissà cosa avremmo dovuto dire di successive scelte di Tresso, se fosse sopravvissuto e si fosse trovato davanti alle nuove problematiche del
dopoguerra? Se è vero che non si ha alcun diritto di rispondere a questa domanda, è anche vero che non è proibito porsela, visto l’itinerario tragico che il nuovo movimento trotskista ufficiale ha percorso a partire dalla sua prima riapparizione pubblica - II congresso della Quarta, a Parigi, aprile 1948 - fino alla sua decomposizione nel corso degli anni ‘70. Impossibile stabilire come si sarebbe orientato Tresso.
Il fatto, però, che il giovane sarto di Magrè di Schio abbia pagato sempre di persona - dall’espulsione dal Pcd’I e dal suo Ufficio politico all’esilio in Francia, dalla condanna al carcere petainista all’esecuzione stalinista - avvolge simbolicamente nell’aura del martirio questa sua irripetibile esperienza personale, facendone un simbolo, una bandiera anche se troppo pochi ne avvertono ancora lo sventolìo.
Va detto anche che la crescita intellettuale del giovane cresciuto in famiglia proletaria andò di pari passo con le sue esperienze politiche, liberandolo dal suo originario bordighismo e portandolo a produrre saggi di un certo spessore, come quelli sul fascismo pubblicati in La Lutte de Classe (1930) o in Quatrième Internationale (1938). Ricordiamo, inoltre, che nel commemorare la morte di Gramsci a maggio del 1937, Tresso fu il primo a sollevare il problema che ormai è dato per acquisito e cioè che il Pci, nella persona di Ercoli (Togliatti) ruppe col rivoluzionario sardo nel periodo del suo arresto e nulla fece per farlo uscire «vivo» dal carcere. E anche questo suo contributo nel denunciare pubblicamente l’abbandono di Gramsci da parte del Pci gli sarà stato certamente messo in conto nel momento in cui a Mosca si decise di uccidere Tresso e - per non lasciare tracce - gli altri tre trotskisti che erano con lui, che altrimenti avrebbero potuto anche salvare la vita.
Ciò che resta del movimento operaio italiano, i giovani che oggi lottano
per un mondo migliore, i cristiani o i cattolici che cominciano a riscoprire il
significato eversivo dell’originario messaggio evangelico, le nuove generazioni
che sentono la necessità di recuperare ciò che di positivo ha prodotto il
passato per raccordarlo ai compiti del futuro - dovrebbero studiare la vicenda
di Tresso e aiutarci a farla conoscere. Se credessi alla procedura
istituzionale d’intestare le strade a personalità celebri, direi che ogni
paesino o città italiana dovrebbe avere una via «Pietro Tresso (Blasco)». Ma
poiché in alcune località ciò potrebbe far capitare il suo nome a fianco di
strade intestate al mandante della sua esecuzione - cioè Palmiro Togliatti -
direi che la scelta dell’omaggio toponomastico presenti dei possibili
inconvenienti.
E che il mandante dell’assassinio di Tresso sia stato Togliatti è un
fatto ormai dimostrato sul piano logico-storico e su cui personalmente non ho
più dubbi. (Che in questo non me ne abbia dall’aldilà il caro Alfonso Leonetti
che nelle sue ricerche sull’assassinio del suo amico e compagno degli anni ‘30,
ha sempre cercato di escludere il «Migliore» dal novero dei sospetti).
In realtà Togliatti è sempre riuscito a cavarsi d’impiccio in questa
tragica vicenda, facendosi schermo con la non-certezza del delitto: il corpo
mai ritrovato, le notizie confuse su quella postazione del maquis, la
dispersione ordinata dall’alto e quasi immediata dei tre responsabili diretti
dell’esecuzione, i successivi depistaggi come quello organizzato nel 1964 da
Stefano Schiapparelli segretario del Pc vicentino, il manto calato su questo e
tanti altri crimini commessi sotto l’ombrello della Resistenza - sui quali, per
la caparbia idea che il fine giustifichi i mezzi, si continua a tacere o a
mentire.
A tutto ciò si aggiungano il pretestuoso rinvio da parte di Togliatti
alle responsabilità dei comunisti francesi per le indagini (mai svolte) in loco
(trafiletto su Rinascita del 22
febbraio 1964) e anche, con nostra amara sorpresa, le esitazioni del movimento
trotskista ufficiale che non avviò una propria indagine e non creò una propria
commissione d’inchiesta fin dal primo momento in cui Tresso e gli altri 3
trotskisti evasi da Le Puy e prigionieri dei partigiani del Ftp-Pcf scomparvero
(cioè alla fine di ottobre del 1943). La successiva scelta internazionale a
favore dell’entrismo nei partiti staliniani da parte del movimento trotskista
ufficiale - con tutta la mole di compromessi e sotterfugi diplomatici che essa
comportò, soprattutto nei confronti dei principali partiti europei, il Pci e il
Pcf - spiega perché quell’indagine non sia mai stata condotta e, di fatto,
nemmeno iniziata. Di ciò fu sempre consapevole Barbara Seidenfeld, la compagna
ungherese di Tresso, che non volle più avere rapporti con la Quarta ufficiale,
pur svolgendo le proprie indagini insieme all’altra «vedova», Gaby, la compagna
del trotskista Pierre Salini.
Tutto ciò per decenni ha tenuto il nome di Togliatti al riparo
dell’attribuzione di un crimine che fu tra i più gravi - in senso qualitativo -
dei tanti di cui fu responsabile diretto o indiretto. In questo caso
responsabile diretto e vediamo perché.
Da quando esiste il libro Assassini
nel maquis di Pierre Broué e Raymond Vacheron (metà degli anni ‘90, tra
l’edizione francese di Grasset e quella italiana di Prospettiva edizioni) non
esiste più il dubbio che i 4 siano stati assassinati: dubbio che in precedenza
poteva avere un fondamento più o meno attendibile. Grazie soprattutto all’opera
di Vacheron, finalmente dei testimoni diretti o molto vicini ai fatti hanno
avuto il coraggio di dichiarare apertamente cosa accadde in quelle ore tragiche
del 26/27 ottobre 1943 o cosa avevano saputo. I due autori francesi coprono le
identità di alcuni di questi testimoni all’epoca ancora vivi, dando solo le
iniziali dei nomi, ma dichiarano di disporre delle registrazioni complete:
Dominique Martinez riporta la testimonianza del fratello Jean, deceduto; P.E.,
ricco di dettagli; P.P, era nei pressi; M.B., vide gli assassini che venivano a
prelevare i quattro; L.N., informato di seconda mano; Alain Joubert, anch’egli
di seconda mano, ma accenna al «ruolo importante di un piccolo italiano»
(Giovanni Sosso, «Jean Auber», agente stalinista che svolse il ruolo di
commissario politico e gestì l’intera operazione, sollecitando e ricevendo
istruzioni da Mosca). Gli autori dichiarano di conoscere anche i nomi dei tre che
commisero il delitto, ma di non volerli e non poterli rendere pubblici (a parte
quello di Sosso, indicato da tutti come il capo dell’esecuzione).
Ebbene, ora che non vi sono più dubbi d’ordine giuridico sull’assassinio
di Tresso e gli altri tre (Abraham Sadek, Maurice Siegelmann [«Pierre Salini»]
e Jean Reboul, mentre Albert Demazière era riuscito fortunosamente ad
allontanarsi alcuni giorni prima), possiamo tirare la seguente ferrea
conclusione: nel servizio segreto operante all’estero per conto del Nkvd
sovietico, per il quale l’eliminazione dei dissidenti era moneta corrente,
nessuno, ma veramente nessuno si
sarebbe mai assunto - senza il consenso formale (e probabilmente scritto) di
Togliatti - la responsabilità di far uccidere un ex dirigente comunista
italiano, che era stato confondatore del Partito, presente e attivo in Urss
come delegato dell’Internazionale sindacale rossa (Profintern), membro
dell’Ufficio politico italiano, impegnato nella Resistenza contro il nazismo e
il fascismo, e per giunta personaggio di primo piano nella tanto temuta (benché
ormai inesistente) Quarta internazionale.
Bisogna ignorare tutto della psicologia dei burocrati staliniani e dei
loro agenti assassini per immaginare che qualcuno di loro abbia corso il
rischio di compiere per decisione propria un atto che gli sarebbe potuto
costare la vita: il sicario professionale del Comintern sapeva che, senza il
pezzo di carta liberatorio, nel futuro gli avrebbero potuto rinfacciare di aver
ucciso Tresso, ma anche di non averlo ucciso. Solo un ordine dall’alto avrebbe
potuto garantirgli una relativa sicurezza. Questi assassini sapevano di avere
le proprie vite appese a un filo (non potevano ignorare cos’era accaduto a
tutti i precedenti capi dei servizi segreti sovietici, a funzionari molto più
potenti di loro e apparentemente intoccabili, fino al giorno della loro caduta
in disgrazia).
Per questo era indispensabile l’autorizzazione della massima autorità,
che nel caso di un ex dirigente comunista italiano non poteva essere altro che
Togliatti. Si calcolino i giorni passati dalla mezzanotte tra l’1 e il 2
ottobre (evasione dal carcere di Le Puy) all’esecuzione nella base partigiana
di Raffy - circa 25 giorni - e si avrà la misura del tempo necessario per
ricevere le istruzioni, e la dimostrazione che Sosso e i suoi accoliti
dovettero attendere le istruzioni da Mosca (quindi da Togliatti) prima di
uccidere Tresso e gli altri tre trotskisti. La loro identità politica era nota
già da tempo, tanto è vero che li avevano esclusi da due precedenti tentativi
di evasione proprio perché trotskisti: ma questa volta, purtroppo, non lo
avevano potuto fare visto che l’evasione era organizzata col concorso del Soe
(il britannico Special operations
executive) e anche per questo andò a buon fine interamente, a differenza
dei mezzi fallimenti precedenti. Se non avessero richiesto l’autorizzazione a
Mosca, avrebbero potuto uccidere subito fuori del carcere tutti e 5 i
trotskisti, discretamente e senza dare nell’occhio (come fecero per un altro
dissidente, Paul Maraval, ferroviere e spirito troppo indipendente, ucciso nel
maquis del Puy-de-Dôme, non lontano da Raffy).
Dalle testimonianze raccolte (che appaiono in disaccordo solo su dettagli
minori, spiegabili anche con i quasi cinquant’anni trascorsi) possiamo
concludere che Tresso e gli altri tre furono uccisi nel bosco o sul limitare
del bosco di Raffy; che l’esecuzione fu compiuta da un terzetto di stalinisti
dirigenti del gruppo partigiano Ftp e membri del Pcf, guidati da Giovanni
Sosso; che questi fu autorizzato a farlo oltre che dalla direzione del Pcf,
anche da quella del Pci residente a Mosca, cioè da Palmiro Togliatti in
persona.
Il seguito è storia di depistaggi, manovre per distogliere l’attenzione
dal caso, omertà varie e variamente motivate. La nebulosa ha avvolto la vicenda
per circa mezzo secolo, ma una parte di verità alla fine si è fatta strada.
Resta il compito di farla conoscere.
Essendo stato un grande amico e collaboratore di Leonetti (insieme ad
Antonella Marazzi che all’argomento ha dedicato il libro Alfonso Leonetti. Storia di un’amicizia, Massari ed., 2004), vorrei
spendere due parole anche sul suo ruolo in questa vicenda, vista la sequela di
diffamazioni di cui è stato costantemente oggetto. Nel libro dedicato a Tresso
nel 1985 da Paolo Casciola e Giorgio Sermasi (Vita di Blasco, in cui inspiegabilmente è sbagliata la data della
morte di Tresso fin dal sottotitolo in copertina, dove è scritto «1944?»), il
primo dei due autori presenta (alle pp. 187-8 in particolare) un immagine
di Leonetti veramente diabolica, quasi corrispondente al più noto dei suoi
pseudonimi: «Feroci».
Vi si afferma che questi, trovandosi impegnato nella Resistenza della
stessa zona, non poteva non sapere della prigionia di Tresso e poi della sua
morte; che avendo rotto col movimento trotskista, non poteva non collaborare
con gli stalinisti; che nel 1944 entrò nel Pcf (ma non si dice che ne fu subito
riallontanato appena Togliatti lo venne a sapere); che non sarebbe potuto
rientrare nel Pci (come avverrà ufficialmente nel 1962) se non dando garanzie a
Togliatti che mai avrebbe detto la verità sulla vicenda; che nell’arco degli
anni avrebbe sempre taciuto al riguardo; che forse avrebbe anche dato un suo
contributo per aggravare i depistaggi.
E il fatto che Barbara abbia sempre avuto un’analoga diffidenza, se non
una vera e propria ostilità nei confronti di Leonetti, ha contribuito nel tempo
ad accreditare un’immagine riprovevole del povero Alfonso, ai limiti del
grottesco per chi lo ha conosciuto da vicino. (Va detto, per inciso, che Leonetti invece ricambiò Barbara sempre con
stima e rispetto, nel quadro di un disaccordo di idee, come dimostrano gli
appunti che a novembre del 1978 dettò ad Antonella Marazzi, perché ne ricavasse
l’articolo di necrologio positivo che apparve su La Classe, n. 20, intitolato «Per la morte di Barbara detta
“Ghita”».)
Chi condivide questo punto di vista difficilmente citerà tutto ciò che
Leonetti ha fatto per riaprire la ricerca sulla vicenda dei «Tre», per
combattere le falsificazioni su Gramsci. Si veda, per es., il carteggio con
Deutscher, o l’articolo da lui firmato con 3 asterischi che comparve su La Sinistra (rivista ufficiosa dei Gcr,
sez. ital. del Segretariato unificato della Quarta) a febbraio del 1967 o la
collaborazione con la nostra casa editrice (Controcorrente), col nostro
giornale (La Classe), organo della
sezione italiana della Frazione marxista rivoluzionaria internazionale. Si veda
anche il suo testamento finale con l’appello a lottare per la Quarta. E si
vedano i tanti altri materiali che corredano il libro di Antonella Marazzi già
citato.
Ebbene, rispetto al suo interessamento per scoprire la verità riguardo al
caso Tresso, nel libro di Broué-Vacheron emerge tutta un’altra realtà (già nota
del resto a chi come me e altri studiosi frequentava regolarmente la sua casa):
per anni Leonetti aveva raccolto materiali su quella vicenda; conservava un
compromettente biglietto di Togliatti a lui personalmente indirizzato in cui lo
si invitava a tacere; parlava con chiunque della vicenda Tresso e degli scarsi
progressi che venivano compiuti; un paio di giorni prima della morte
(all’ospedale Gemelli di Roma) resistette alle pressioni di due inviati di
Botteghe Oscure che volevano portar via dalla sua casa il biglietto di
Togliatti e i dossier, e Leonetti li trattò come «corvi»; affidò la
salvaguardia del tutto a Gianfranco Berardi, giornalista dell’Unità, che frequentava assiduamente la
sua casa (dove lo conobbi anch’io); gli disse di essere arrivato a delle
conclusioni riguardo a un membro della direzione del Pci, ma gli chiese anche
di non rivelare nulla prima di un decennio.
Se colpa vi fu, quindi, da parte di Leonetti, fu di non aver rivelato in
vita ciò che riteneva di aver scoperto negli ultimi tempi, ma anche di non aver
tutelato a sufficienza i materiali raccolti, visto che di questi non si è poi
trovata traccia. Del resto dal 1984 - anno simbolico della sua morte (Orwell) -
di decenni ne sono passati quasi tre. Se quei materiali li avesse affidati a
me, ciò non sarebbe accaduto; ma forse Leonetti temeva che non avrei atteso
dieci anni (e aveva probabilmente ragione), oppure che me ne sarei servito per
lanciare una campagna politica (e forse anche in questo aveva ragione). Il
racconto di Berardi è comunque ricco di dettagli sulla sua ultima visita a
Leonetti in ospedale e lo si può leggere nel libro di Broué-Vacheron.
Antonella ed io lo andammo a trovare al Gemelli il pomeriggio della
vigilia di Natale, ma viste le sue condizioni non accennammo a nulla che
potesse turbarlo. Ricordiamo ancora con commozione che Leonetti non riuscendo
quasi a parlare, si aiutava con i gesti. Vedendo la pancia di Antonella a un
certo punto fece il segno del 4 con le dita, che non voleva dire Quarta
internazionale, ma dimostrava di ricordarsi che Antonella era al quarto mese di
gravidanza del nostro futuro figlio Liben. Mi rimane quindi qualche dubbio
riguardo a tutto ciò che è stato raccontato da varie fonti e che sarebbe
accaduto in quegli ultimi giorni in ospedale; mentre non ho difficoltà a
credere che Berardi sia stato molto al corrente delle questioni riguardanti
l’archivio di Leonetti.
Il problema dell’archivio era stata una preoccupazione costante di
Alfonso, della quale aveva parlato spesso con me. Ma avendo io dimostrato una
dura disistima per Fausto Bucci, all’epoca responsabile dell’Archivio di
Follonica, e avendo attaccato pubblicamente - per una sua grave scorrettezza -
Giuseppe Del Bo, direttore dell’Archivio Feltrinelli a Milano, non ero
certamente la persona più indicata per occuparmi del suo lascito. Questo, per
lo meno, pensò erroneamente Leonetti. Da posteri siamo in grado di verificarlo.
La testimonianza di Gianfranco Berardi è diventata molto importante,
anche perché vagliata da uno storico di grande autorità come Pierre Broué.
Berardi ha collaborato con lui; ha scambiato corrispondenza con lui; ha
pubblicato sull’Unità del 3 gennaio
1993 un suo dignitoso articolo su Tresso; ha redatto una relazione sul ruolo di
Leonetti nella vicenda e la relazione (in versione originaria e versione
ampliata) è stata pubblicata col suo consenso nel libro di Broué-Vacheron.
Basta andare a leggere entrambe le versioni per sdrammatizzare (depenalizzare?)
il ruolo che può avere avuto Leonetti nelle ricerche compiute nell’ultima fase
della propria vita e che non condusse (alla pari di tanti altri, trotskisti
francesi e italiani inclusi) all’indomani della morte di Tresso.
Il dossier di Berardi («Appunti per un racconto», li chiama) nella prima
redazione accenna anche alla mia persona nel passo seguente (p. 102, corsivo
mio):
«Come so che Leonetti
possedeva una documentazione sulla morte di “Blasco”? Per il semplice fatto che
lo stesso Leonetti me ne ha parlato per tre volte in occasioni diverse e che,
della stessa cosa, almeno una volta, ne
ha parlato ad un’altra persona che, come me frequentava, spesso la sua casa
romana alla Camilluccia».
Mi è difficile immaginare
altra persona, oltre a me, che corrisponda così esattamente alla descrizione.
Berardi sapeva molto probabilmente sul mio conto molto più di quanto io sapessi
di lui. E Leonetti potrebbe avergli accennato alle conversazioni tra noi avute riguardo alla questione Tresso.
Solo per questo accenno di Berardi alla mia persona, mi permetto quindi di
soffermarmi brevemente sulla cosa.
Innanzitutto mi sembra utile riportare un brano delle annotazioni che
scrissi subito dopo la mia prima visita alla casa di Leonetti (15 maggio 1973)
e che è riportato per intero nel libro di Antonella (p. 12). Scritte «a caldo»
e mai ritoccate, hanno per me il valore di una fotografia:
«Mentre si intrattiene
con Rèpaci, mi dà da leggere un dossier da lui raccolto sul caso Tresso. Oltre
a ritagli di giornali (tra cui un significativo corsivo di Rinascita, da lui attribuito a Togliatti), e alla bibliografia
delle opere di Tresso, vi è la corrispondenza scambiata da Leonetti con uno
storico francese e altri sulla morte di Blasco. Leonetti non esclude che questi
possa essere stato ammazzato dagli stalinisti, ma non esclude nemmeno che
possano essere stati i tedeschi. La presenza di uno spagnolo di nome Blasco in
un gruppo di tre uccisi dalla polizia rende perlomeno dubbia l’ipotesi che
questi non fosse Blasco».
Era il mio primo incontro
con lui, era il 1973 e parlare di Tresso non era tra le mie intenzioni in quel
momento. Me ne parlò lui spontaneamente, mi fece vedere il dossier (una
cartella con dentro soprattutto articoli di giornale, molto materiale fotocopiato) ed io lo scorsi giusto il tempo che
terminasse la conversazione di Alfonso con Leonida Rèpaci. Nulla di particolare
attirò la mia attenzione.
Non immaginavo che quel pomeriggio fosse l’inizio di una grande e bella
amicizia. E invece così fu. Collaborando negli anni con Leonetti, ma
soprattutto nel periodo in cui lavoravamo alla riedizione del Bollettino della Noi, la conversazione
non poteva non cadere a volte anche su Tresso. Leonetti amava questa figura.
Dopo gli anni all’Ordine Nuovo con
Gramsci, accanto a lui aveva trascorso in Francia gli anni politicamente più
belli della sua vita (dall’espulsione nel ‘30 fino al proprio allontanamento
dal movimento per la Quarta nel 1936); lo stimava e lo considerava parte
indispensabile della loro battaglia come Opposizione. Ne parlava sempre con
grande affetto e stima. Ma le poche volte in cui accennavo alla questione della
morte/assassinio, il mite Alfonso si irrigidiva, si poneva sulla difensiva e io
stesso, vedendo che lo mettevo a disagio, lasciavo cadere l’argomento. Credo
che il problema essenziale, tra noi due, fosse Togliatti. Io ero un
antitogliattiano furibondo, Leonetti non lo era più o forse non lo era mai
stato veramente. E sulla questione Tresso non ho dubbi che Leonetti abbia fatto
sempre di tutto per scagionarlo da responsabilità dirette (e non certo dalla
copertura successivamente data all’assassinio), sinceramente persuaso che non
ne avesse avute. Ne era convinto; forse aveva ricevuto delle confidenze al
riguardo (e sappiamo che sul terreno della doppiezza e del raggiro Ercoli era
un maestro); forse stava veramente arrivando a scoprire chi avesse dato
l’ordine di uccidere Tresso; forse non si perdonava di essere rientrato nel Pci
dopo l’assassinio del compagno; forse... tanti altri forse che per fortuna
ancora agitavano il suo animo umano.
Io rimango convinto che l’ordine di uccidere Tresso sia potuto venire
solo da Togliatti e su questo con Leonetti non ci siamo mai intesi.
Broué, tuttavia, lascia aperta la porta (p. 103) a una seconda
possibilità (proposta da Berardi, p. 105), alla quale vale la pena di
accennare. Si tratta di Giulio Cerreti, un nome abbastanza sconosciuto ai più,
ma che all’epoca aveva un ruolo importante nell’apparato stalinista in Europa:
rifugiatosi in Francia nel 1927, punto di riferimento dei comunisti italiani a
Parigi, membro del Comitato centrale del Pcf dal 1932 al 1945 (notare il
periodo...), legatissimo all’apparato internazionale del Comintern, vissuto in
Urss fino al 1945 come stretto collaboratore di Togliatti, premiato poi con
cariche di deputato, senatore e varie altre prebende in Italia,
stalinista-togliattiano convinto sino alla morte.
Ebbene, anche se l’ipotesi avanzata da Berardi e vagliata con attenzione
da Broué fosse vera, continuo a ritenere impensabile che Cerreti possa aver
deciso della morte di Tresso da solo, senza consultare Togliatti. Anche Cerreti
era un burocrate stalinista e come tale aveva assimilato nel più profondo
codice genetico il senso della gerarchia e dell’apparato: un’uccisione di quel
genere e di quel livello non sarebbe spettato a lui deciderla, senza il
consenso esplicito, o al limite la tacita approvazione, del massimo dirigente
stalinista italiano, una sorta di numero 3 nell’apparato internazionale del
Comintern (dopo Stalin e Dimitrov). Come potrebbe essere andato l’eventuale
accordo/discussione tra i due, non potremo mai saperlo, a meno che non appaiano
documenti a tutt’oggi secretati riguardo a questa e altre uccisioni «celebri»
avvenute in epoca staliniana. La lista d’attesa è ancora molto lunga: da Gorkij
a Tresca a Serge a Durruti a Tina Modotti e via di seguito. Tutti «casi» che
non dovremmo considerare chiusi solo perché non abbiamo le prove di
un’esecuzione diretta da parte di agenti staliniani.
Mi avvio a concludere, riprendendo due temi iniziali. Se per far rivivere
idealmente la figura di Tresso va accantonata la soluzione toponomastica e le
altre forme di celebrazione postuma più o meno retoriche (statue, targhe o
giornate della memoria), non restano che gli strumenti ordinari di
perpetuazione del ricordo, come i libri, il Web, i documenti della ricerca
storica, il cinema.
Per quest’ultimo devo ammettere che mi stupisce l’assenza di un qualsiasi
film sulla vita di Tresso (se esistano dei documentari lo ignoro, ma non mi
sembra che ve ne siano), che invece fornirebbe un materiale avvincente in
termini cinematografici, sia per il carattere avventuroso (basti pensare agli
ultimi tempi della sua vita, tra Resistenza, carcere ed evasioni), sia per le
grandi potenzialità drammaturgiche legate al «mistero» della sua morte che una
buona sceneggiatura potrebbe valorizzare. Forse un giorno ciò accadrà; e sia
benedetto quel giorno, anche se il prodotto non dovesse essere filologicamente
accurato: compito del cinema cosiddetto «politico», infatti, non è di
sostituirsi o affiancarsi alla storiografia, ma dare dimensione fantastica o
artistica a esperienze e sentimenti degli esseri umani che in quelle
determinate vicende storiche hanno agito o anche semplicemente vissuto.
Per i libri - al di là delle antologie e dei saggi a carattere politico
che non sono purtroppo molti - va segnalato per la narrativa il romanzo di
Stefano Tassinari (Il vento contro,
Marco Tropea Editore, 2008) interamente dedicato a Tresso da un bravo scrittore
morto un anno fa. E anche alcune opere a latere, come Le tre sorelle Seidenfeld, di Sara Galli (Giunti, 2005): una delle
tre è ovviamente Barbara. E più specialistico, L’incudine e il martello. Aspetti pubblici e privati del trotskismo
italiano (1929-1939), di Eros Francescangeli (Morlacchi, 2005).
Poco fa accennavo alla poca distanza degli anni che dal’68 andarono al
‘77 - quando pubblicai il Bollettino
e una mia presentazione di Tresso su La
Classe - per un inconscio residuo di pensiero che ora desidero esplicitare,
anche se l’ho già fatto altre volte e con riferimenti storici diversi.
Gli ideali del ‘68 - antiautoritari, antistalinisti, libertari nel senso
più pieno del termine, etici e giovanili allo stesso tempo - avrebbero dovuto
portare una buona parte del movimento, o perlomeno le sue avanguardie, o al
limite qualche singolo quadro o dirigente, alla scoperta/riappropriazione di
tutte le più belle storie del movimento rivoluzionario, tragiche o esaltanti
che siano. E Tresso avrebbe dovuto campeggiare in una tale riscoperta. Ma ciò
non accadde. Anzi la cultura di chi passò dal movimento studentesco e dei
consigli di fabbrica agli apparati politici (partiti e partitini ideologizzati)
abbracciò con fanatismo tutto il contrario. Il maoismo in tutta una prima fase
(che di potenziali Tresso ne aveva ammazzati a bizzeffe in Cina, ma anche in
Indocina con Ho Chi Minh, e che ha continuato ad ammazzarne per paura che
rinascessero tutti insieme a piazza Tienanmen): quella follia ideologica,
stalinista e reazionaria, calò come una nube di oscurantismo autoritario e
irrazionale sulle nuove leve della radicalizzazione, distruggendo per sempre la
continuità di pensiero nel marxismo, soprattutto in Italia dove il fenomeno fu
più vistoso che altrove. E poi l’elettoralismo, dapprima camuffato in forma
militante, alla Lotta Continua, poi divenuto il foraggio permanente del fare
politica e della militanza, brodo di coltura inesauribile di aspiranti
Forchettoni rossi.
Dovrei aggiungere l’irrompere della società dello spettacolo anche nel
campo della ricerca teorica, ma penso che il discorso si allungherebbe e mi
sembra di aver già abusato abbastanza dell’attenzione.
Concludo quindi da editore, annunciando che vorrei pubblicare due libri,
per preservare la memoria di Tresso e per contribuire alla «destalinizzazione»
culturale delle menti che, a mio avviso, in Italia ancora non c’è stata. Quindi
sarei favorevole a ritradurre e ripubblicare il libro di Broué-Vacheron, in
modo da consentirne una nuova migliore circolazione nel contesto che gli
compete (cioè nella collana «storia e memoria»). E un’antologia il più completa
possibile degli scritti di Tresso, nella collana «eretici e/o sovversivi». Se
qualcuno tra coloro che ascoltano o leggono queste righe vuole dare una mano
(in tutti i sensi) gli saremo grati fin d’ora. Come al solito non si esclude la
possibilità di una o due coedizioni.