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martedì 27 dicembre 2011

IL TEMA DELLA VIOLENZA DOPO IL 15 OTTOBRE A ROMA, di Stefano Sbolgi («Birillo»)

Personalmente mi ci sono voluti almeno un paio di giorni per elaborare un ragionamento razionale sul 15 ottobre. Certo il turbamento ed il disagio che già si percepivano tra i compagni nel viaggio di ritorno erano palpabili. Poca era la voglia di commentare a caldo l’accaduto, grande la preoccupazione di dovere gestire nei giorni successivi la valanga di critiche che avrebbero coinvolto, in particolare i Cobas, a seguito delle tante situazioni paradossali verificatesi prima e durante l’evento.
Credo di poter dire che il mezzo disastro del 15 ottobre affonda le sue radici nelle molte, troppe ambiguità e differenze interpretative della fase storica che stiamo attraversando, solchi che segnano il movimento fin dalla sua genesi, ed in parte anche la nostra organizzazione. La giornata del 15 ottobre è stata la disfatta dell’idea stessa di organizzazione, della capacità del movimento di coordinarsi, di trovare una sintesi politica traducibile in parole d’ordine chiare ed unificanti. Sintesi, a mio avviso impossibile tra componenti la cui prospettiva strategica è “l’alternanza di governo” magari partecipandovi, e le altre, per le quali regna, con rinnovata forza e come orizzonte strategico, “l’alternativa di sistema” che qualcuno, al contrario ha liquidato da tempo e troppo presto, come stantia utopia totalitaria.
Già nelle settimane precedenti c’era un gran caos che circondava il corteo. Le assemblee a Roma si susseguivano senza sosta, ma chi ci partecipava ha deciso alla fine di lasciare la piazza a se stessa, decidendo una linea pacifica che, com’era chiaro a tutti fin da subito, non sarebbe stata l’unica presente. Ciò che era ampiamente previsto alla fine è successo. Sostanzialmente c’è stata una non-gestione, derivata da un’incapacità di leggere la situazione, vista la complessità degli elementi in campo.
L’unica sintesi individuata è stata attribuire alla manifestazione la cifra della pluralità e del pacifismo.
Un evento capace di accogliere qualsiasi orientamento purché contenesse una qualche critica dell’esistente. L’evento è stato derubricato ad una semplice conta, per dire “vediamo quanti siamo, poi decideremo che fare”. In Italia, però, c’è forte tensione, maggiore che negli altri paesi, dall’estate calda in Val di Susa, alle dure manifestazioni operaie di Fincantieri piuttosto che di Termini Imerese, fino agli scontri dei pastori sardi o degli stessi Cobas arrivati fin sotto il Parlamento. La consapevolezza che la crisi morde davvero e sta accendendo gli animi. Così era prevedibile che qualcuno pur non inquadrato nel gruppo organizzato decidesse di seguirli e passare direttamente all’azione.

domenica 25 dicembre 2011

SARKOZY E IL GENOCIDIO ARMENO, di Pier Francesco Zarcone


Quando si dice il tempismo ...
In una fase della politica internazionale in cui l’urgenza della questione turco/armena è praticamente a livello zero, l’Assemblea Nazionale francese ha approvato una legge che configura come reato il negazionismo del genocidio armeno compiuto dal governo ottomano dei Giovani Turchi durante la Prima guerra mondiale. Per chi pubblicamente sostenga che il massacro non arrivò a configurare un genocidio sono previsti un anno di prigione e 45.000 euro di multa. Si aspetta che il Senato approvi a sua volta, e sicuramente così sarà.
Poiché ciò avviene in un momento in cui le due parti in causa – Turchia e Armenia – sono impegnate in un processo, sia pure lento e faticoso, volto a instaurare rapporti reciproci definibili “normali”, è ovvio che ci si interroghi sul reale significato dell’iniziativa insieme a un minimo di chiarimento sul retroterra storico delle vicende implicate.
Ma prima ancora è utile spendere due parole sul nazionalismo e certi suoi effetti. Laddove infatti il nazionalismo ha operato all’interno di ambienti multinazionali, o multietnici che dir si voglia, il massacro del diverso ha sempre costituito la tragica “normalità”. Esempio: quando l’Impero ottomano fu espulso dai Balcani – a cominciare dalla Grecia ai primi dell’800 e per finire con la guerra balcanica all’inizio del nuovo secolo – la plaudente Europa dell’epoca omise di porsi il problema della sorte degli islamizzati locali (tutti inglobati, artificiosamente, nella categoria dei “turchi”, e quindi da esecrare) a seguito della vittoria “cristiana”: la risposta è semplice: fu l’apoteosi del massacro e del forzato esodo dalle proprie case e dai propri luoghi di origine. Tant’è che oggi – Albania e Bosnia a parte – di “turchi” lì ne è rimasta solo una sparuta rappresentanza.

venerdì 23 dicembre 2011

PIOVONO MESSAGGI DI FINE ANNO - GOVERNO LADRO!

Da Pino Bertelli:

* * * *
Michele Nobile ci chiede di riportare questa strofa tratta dal film L'armata Brancaleone:

Senza armatura
senza paura
senza calzari
senza denari
senza la brocca
senza pagnocca*
senza la mappa
senza la pappa
senza cavallo
né caciocavallo...

E ci prega di aggiungere: «Nonostante tutto l’avventura continua!».

martedì 20 dicembre 2011

La manifestazione di Firenze dopo la strage dei senegalesi, di Antonio Marchi


Caro Roberto,
ho fatto bene ad andare a Firenze alla manifestazione dei "senza patria" in risposta all'assassinio di Diop Mor e Samb Modou e dei tre feriti senegalesi, vittime dell'odio razziale di una classe politica di marca leghista che ha armato la mano dell'assassino. Lo sforzo è stato ripagato da una giornata di incontri, di sguardi, di colori di parole sussurrate e gridate, di una forza imponente che ha dimostrato di essere "padrona" (oltre il suo numero citato dai giornali - 30/35.0000 - e mortificato dalla questura 12/15.000) della piazza e in prospettiva capace di risolvere da sé lo scontro in atto. Una massa in movimento che ha preso coscienza di sé (...).

lunedì 19 dicembre 2011

LA LOTTA AL VISCONTI PALACE HOTEL, di Andrea Furlan


(fotografia tratta da http://www.cinquegiorni.it/news.asp?id=5517  ) 
I lavoratori del Visconti Palace Hotel di Roma continuano la loro lotta contro l'apertura della procedura di terziarizzazione da parte dell'azienda di 26 lavoratori su un totale di 75. Martedì 13 si sono trovati davanti all'azienda e hanno effettuato un presidio con volantini, striscioni  e slogan, per far sentire tutta la  loro rabbia contro la decisione di dare in appalto i reparti facchinaggio, piani, guardaroba.

sabato 17 dicembre 2011

LE LEZIONI DELLA CRISI, di Michele Nobile

(intervento letto al Convegno-dibattito "Dentro la crisi del capitale", organizzato dalla Confederazione Cobas Firenze il 15 dic. 2011  e al quale hanno partecipato anche Guglielmo Carchedi, Domenico Moro e Roberto Massari)

Lezione 1.

Nell’autunno 2008 molti commentatori e politici di sinistra annunziarono la fine del cosiddetto neoliberismo. Si facevano così due errori, tra loro connessi. Il primo errore concerneva proprio la caratterizzazione dell’epoca, la stessa nozione di neoliberismo. Il secondo errore concerneva il rapporto tra crisi economica, sbocchi politici e radicalizzazione sociale.
Ora siamo nella fase in cui governi e padronato intendono effettivamente far pagare alla classe dei salariati i costi della crisi capitalistica e del salvataggio delle banche private. Con l’eccezione parziale della Grecia, questo accade senza che al momento si profili una risposta delle classi dominate europee all’altezza dell’attacco che ad esse viene portato.
La prima lezione è che non esiste alcun nesso meccanico tra crisi, anche crisi grave, e fuoriuscita dalla cosiddetta globalizzazione neoliberista; e non esiste neanche nessun nesso meccanico tra crisi e rilancio della lotta di classe.
Bisogna chiedersi perché.

giovedì 15 dicembre 2011

L'ISLAM «MODERATO»: MA CHE COS'È? (Mondo arabo in rivolta XXVI), di Pier Francesco Zarcone

Il "luogo comune"
In ogni ambito della vita umana il più insidioso, ricorrente e tenace nemico risponde al nome di "luogo comune". Per il fatto di esprimersi con le parole, esso rientra appieno nel famoso ammonimento di Nanni Moretti: «chi parla male, pensa anche male». Infatti il luogo comune fa davvero pensare male, poiché si sovrappone, si sostituisce del tutto alla realtà a cui si riferisce. Quando se ne forma uno, poi sono dolori per chi pretenda di voler vedere le cose in termini più effettivi. Non che il luogo comune impedisca le analisi oggettive, però ne rende i risultati non facilmente assimilabili dagli altri.
Il luogo comune oggetto del nostro esame è quello dell'Islam "moderato", che ormai si è conquistato un posto "indiscusso" nell'ideario dei mass media e – ahimè – dei politici (in buona o mala fede).
Innanzitutto c'è da chiarire a cosa effettivamente ci si riferisca con questa espressione, e capirlo non è difficile se si sgombera il campo dal concetto di Islam in quanto religione. "Moderato" è un aggettivo di relazione, implicante un giudizio di esistenza riguardo a due parti (di uno stesso insieme o di due realtà distinte): la moderata e l'estremista.

È corretto parlare di Islam?
Islam è un concetto astratto, con il quale evidentemente incontrarsi e dialogare è "alquanto arduo", giacché il Corano è qualcosa di statico con cui non si interloquisce. Semmai ci si incontra e si dialoga con le persone, che possono essere moderate o immoderate. Il fatto è che le religioni - in sé e per sé – sono quello che sono, e soltanto in un'ottica comparativa interreligiosa va applicato un giudizio di maggiore o minore rigidità. Prendiamo il fenomeno più affine all'islamismo a motivo della stessa matrice etno-culturale: l'ebraismo biblico. Anch'esso è quel che è; e anche nel suo testo sacro – come del resto nel Corano – è possibile trovare tutto e il contrario di tutto.
In entrambi i casi, però, intervengono le interpretazioni (cioè le persone che le creano o vi aderiscono) a definire storicamente le diverse correnti e/o sfumature teologiche alle quali possono essere attribuiti i giudizi di "estremista" oppure di "moderato". Questo fa sì che anche a livello concettuale nessuna religione sia monolitica. Il che vale anche per l'Islam, a parte magari il periodo della vita del profeta Muhāmmad, giacché dopo c'è stata la frammentazione nelle due sfere fondamentali del Sunnismo e dello Sciismo, a loro volta articolatesi in varie correnti e sottocorrenti, ciascuna con i suoi moderati ed estremisti.
Questo come premessa.

domenica 11 dicembre 2011

DENTRO LA CRISI DEL CAPITALE

Giovedì 15 dicembre

presso il Circolo ARCI la Loggetta V. Aretina 301
Dentro la crisi del capitale 
Convegno-dibattito sulla crisi economica

Partecipano:

Guglielmo Carchedi (Professore di economia all’università di Amsterdam e York):
“Dietro e oltre la crisi” la giusta prospettiva per capire la crisi attraverso la legge della caduta
tendenziale del saggio di profitto – Marx o Keynes.

Domenico Moro (Economista e sociologo - direttivo Associazione Marx XXI):
Le cause del debito europeo il che fare - La linea di Confindustria sul debito pubblico: privatizzazioni –
dietro il debito pubblico bassi salari e delocalizzazioni.

Michele Nobile (Autore di Merce-natura ed ecosocialismo (1993) e Imperialismo. Il volto reale della
globalizzazione (2006); già membro del Comitato direttivo della rivista Giano, redattore di Utopia Rossa):
Oltre la critica del neoliberismo, per un movimento di massa anticapitalistico. I diversi livelli esplicativi,
temporali e geografici della crisi.

Roberto Massari ("editore rivoluzionario"):
Il contesto internazionale, processi in corso in America latina e la loro maggiore o minore ricaduta sul
contesto europeo - "Le insorgenze dall'America latina all'Europa".

Inizio dei lavori ore 18,00
Ore 20,00 – 21,00 pausa buffet
21,00 -23,30 circa, conclusioni
Confederazione Cobas di Firenze

Leggere l'intervento di Michele Nobile

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

venerdì 9 dicembre 2011

RED UTOPIA AND A NEW IDEA OF REVOLUTION, by Roberto Massari

An interview with Roberto Massari by Michele Azzerri

Dear friend and comrade,
this is the English translation of the interview on my idea of revolution made by Michele Azzerri on April 2011. I hope you'll find the time to read it and, if possible, to comment it. It is just an interview (then not a theoretical text) but I consider it a good synthesis of my present approach to the possibility (hope?) of revolution. It has been necessary for me to go through 45 years of revolutionary experiences in various parts of the world and the writing of almost 30 books in order to arrive to such a synthesis: but I know that it might be overcome in the same moment you read it. Luckily that on the ground of principles, the pace of change is not so rapid. So you may still find in it something reasonable. That "reasonable" part can be further discussed and improved. It can be also a mean of political connection between us, provided that you still consider the process of thinking a possible future revolution in the first place as a collective project.
Thanks for giving your attention to it.
Roberto Massari


© Jean Michel Basquiat
To begin with, can you introduce me to Red Utopia - to its national and international profile?
RU is a libertarian political association, which at the moment is comprised of comrades of many origins: Marxists, Libertarian Marxists, Anarchists, Situationists, Trotskyists, Guevarists, Leninists, Feminists, trade unionists, and Christians, if I haven't forgotten anyone.
Everyone is free to maintain his own individual ideology and is not responsible for the ideological positions of the others. We try to operate in a way that allows everyone to learn and understand the positive aspects that come from the various ideological origins. It is therefore a non-ideological association (nor ideologised) in which statutes do not exist, there are no conventions, executive committees, hierarchies, or similar structures. Neither is it obligatory to pay any membership dues. In fact, on closer inspection, there are no obligations whatsoever, apart from respecting the six principles of revolution that we will discuss later on. You are a part of RU because you want to be, at your own pace, without sacrifice, obligations or being made to feel guilty for «non-involvement».
Viewed in comparison with the small political groups, our most unusual characteristic - which was, however, a founding characteristic of the First International until it split - is that we do not have a political programme. Despite the fact that I have personally written many of them during my long life as a militant (as one can read from the collections of my unpublished writings: up to now there are four volumes, dating from the 1960's until 1980; the fifth volume is a work in progress). Leaving aside the controversy with small groups or political factions who utilize the supposed Programme (with a capital P) as a sort of panacea or a tournament of teams, even for more serious organisations adopting a single and obligatory programme is a foolish thing.
In the first place a revolutionary political programme cannot be written once and for all, but it should act as a guide to the course of events and therefore it should be continuously brought up to date in real-time (something that has never happened in history, with the partial exception, however to be discussed, of February-October 1917).
The truth is that the so-called revolutionary Left is continually quarrelling about past written programmes and agendas which are unfailingly left behind by reality. And it is not worth wasting a single word on the texts, often infantile and theoretically unfounded, that small political factions pass off as «Revolutionary Programmes» - they are actually timeless and unrealistic shopping lists.
And also because a political Programme assumes that when there are differences they should cohabit within the same organization and under the same leadership: however, the entire history of Leninism (and of Trotskyist parties) shows that differences can only live together for a short time. There are always majorities that expel the minorities or minorities which sooner or later separate from the majority (which is more or less the same thing): it is only a matter of time.
If all the historical evidence was not enough to prove this, one can recall what happened to the comrades of the old Fmr (the Third International tendency or fraction within the Fourth International of Mandel, Maitan, Frank) when after three years of written and rigorously elaborated criticism of the majority leadership, they were expelled in Italy, Austria, in Portugal and even erased from the history of that organization. The funny and absurd thing is that in relation to the political line of the majority we were right about everything (you can read the almost 600 pages of materials dedicated to this episode material that I have published), even though being right is always relative, tied to a determined context, as well as to a certain accumulation of knowledge.

domenica 4 dicembre 2011

LE ELEZIONI EGIZIANE, di Pier Francesco Zarcone (Mondo arabo in rivolta XXV)

Fatti salvi eventuali futuri sconvogimenti di rilievo, questa è l’ultima corrispondenza sul mondo arabo in rivolta e sulla cosiddetta “primavera araba”. Essa è scritta con innegabile amarezza perché le aspettative erano altre; ma forse si è commesso il non infrequente errore di confondere le minoranze attive con le maggioranze votanti.
Anche in Egitto si è votato e l’evento era attesissimo, trattandosi (sotto tutti i profili) del più importante paese arabo. Questa tornata elettorale è stata solo la prima nel complicato sistema di voto voluto dai militari. Per ora si è votato in solo 9 delle 27 regioni egiziane. Nel gennaio prossimo voteranno le restanti regioni, per la Camera Bassa; poi ci saranno le elezioni per il Senato e infine, a giugno (se tutto va bene) verrà eletto il Presidente della Repubblica (si ricordi che l’Egitto è Repubblica presidenziale). Fino a quest’ultimo evento i militari non sembrano affatto disposti a mettersi da parte; e infatti il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha fatto presente che continuerà a detenere il potere di nomina del governo anche dopo le elezioni politiche e fino all’avvento del nuovo Capo dello Stato eletto. 
Alle elezioni si è presentato un ampio ventaglio di partiti e alleanze, di cui le principali entità sono: l’Alleanza Democratica (ha il principale nucleo nel Partito Libertà e Giustizia, braccio politico della Fratellanza Musulmana, ci sono poi i partiti al-Ghad e al-Karama);l’Alleanza Islamica salafita, fra al-Nur, al-Asala, al-Fadila e il partito Costruzione e Sviluppo; il Blocco Egiziano (al-Kutla al-Masriya), laico, guidato dal copto Samuel Essam, riunisce gruppi liberali e di sinistra (Tagamu, Partito Socialdemocratico Egiziano, al-Masrin al-Ahrar o Egiziani Liberi; il giovane blocco rivoluzionario al-Zaura al-Mustamira; che riunisce gruppi marxisti; al-Kifaya, che fu attivissimo nei moti di piazza; la Associazione Nazionale per il Cambiamento, di orientamento laico e democratico fondata da Mohamed el Baradei; il Movimento 6 Aprile, espressione del mondo giovanile e universitario; la Coalizione della Giovane Rivoluzione, attiva sul piano sociale.
Il risultato della tornata elettorale parziale testè svoltasi non dà adito a giochi interpretativi: la vittoria è del Partito Libertà e Giustizia. Quindi, la Fratellanza Musulmana (oggetto di forti repressioni da parte di Nasser, Sadāt e Mubarāk), sostanzialmente assente nei moti di piazza, dal comportamento ambiguo verso i militari, e oggi probabilmente in combutta con essi, si è rivelata espressione dell’Egitto maggioritario.
I sospetti sul “moderatismo” di questi vincitori sono plausibili ed è meglio riservarsi il beneficio d’inventario. Il quadro però si oscura se si pensa al successo del partito estremista dei Salafiti (al-Nur; la luce!) che ha riscosso un buon pacchetto di voti, tali da fare ottenere – sulla carta, però, e se nella seconda tornata l’esito sarà dello stesso tipo – la maggioranza governativa al fronte islamico che comprende gli estremisti. Ricordiamo che i Salafiti vogliono l’applicazione integrale della legge islamica (e con interpretazioni restrittive), per cui si oppongono all’emancipazione della donna, alla musica, al ballo e chi più ne ha ne metta.
Essendo difficile che le altre regioni egiziane ribaltino il risultato, dobbiamo prendere atto di una schiacciante sconfitta storica dei partiti laici. Ancora una volta, dopo la Tunisia e il Marocco. C’è da scommettere senza rischio che in Libia le cose non andranno diversamente (o forse andranno peggio); ci sarà da piangere quando la stessa sorte toccherà all’Algeria e – per quanto cinico sia, un osservatore non può tacerlo – in Siria dopo la probabile caduta di al-Assad (qui ci saranno ripercussioni a catena dagli esiti difficilmente positivi).

Che manovre si profilano?
Restando all’Egitto, in apparenza si profilerebbe il complicarsi della situazione politica con la contrapposizione fra islamici e militari. Tuttavia questa ipotesi potrebbe non essere realistica, in quanto – al di là della sommatoria fatta a tavolino fra i voti del Partito Libertà e Giustizia e quelli di al-Nur – un fronte islamico unito al momento non esiste affatto. I rapporti fra i predetti due partiti sono pessimi (al-Nur si contrappone alla Fratellanza Musulmana e l’accusa di essersi accordata con i militari); è in ballo il potere e in queste condizioni non pare proprio che la Fratellanza Musulmana sia disposta a spartirlo con al-Nur, e magari correre il rischio che un’alleanza con esso le faccia fare una fine analoga – tanto per intenderci fra italiani – a quella del Psi unito al Pci nel Fronte Popolare.
E poi – non da ultima – una considerazione: i dirigenti della Fratellanza Musulmana sanno bene di avere a portata di mano un’occasione d’oro: legittimarsi di fronte all’Egitto e al mondo come gli adeguati governanti del paese. Imbarcare i Salafiti – e quindi subirne il condizionamento, trattandosi di una fazione per niente malleabile – vorrebbe dire, oltre alla rottura della tregua con i militari o addirittura dell’accordo con essi, portare il paese al disastro economico, innanzi tutto. Vorranno correre questo rischio? Una radicale svolta islamista avrebbe come immediata coseguenza, sul piano economico, il sostanziale azzeramento del turismo, settore fondamentale per le finanze egiziane e per l’enorme massa dei suoi operatori (e relative famiglie) diretti e indiretti (venditori ambulanti inclusi). Finora i dirigenti della Fratellanza hanno assicurato di non voler imporre la sharía e di rispettare il pluralismo politico. D’altro canto il carattere non antislamico dell’ordinamento giuridico egiziano – con la sharía fondamento della legislazione - è già sancito dall’attuale Costituzione.
L’alleanza con i Salafiti equivarrebbe a creare, a partire dalle urne elettorali, un sistema fortemente autoritario, anche sul piano della vita quotidiana: già ci sono elementi salafiti che (come in Tunisia) cominciano a interrompere concerti e riunioni musicali (anche private) per tutelare il bene spirituale dei musulmani. Una tale alleanza potrebbe riaprire la via agli scontri di piazza, alle repressioni e altro.
Il coordinatore del Blocco Egiziano si è dichiarato, a caldo, sicuro che se la Fratellanza Musulmana non rispetterà la linea proposta alle elezioni, andrà al fallimento: auspicio o certezza?
Dal canto loro i vertici delle Forze Armate non si trovano in una situazione agevole: da un lato la Fratellanza Musulmana con la sua imprevista capacità di mobilitazione di una “maggioranza silenziosa”, dall’altro il dominus statunitense, che inevitabilmente si farà sentire, anche se è difficile prevedere come.
Non si può non rilevare che nella “rivoluzione” egiziana si è verificato un moto circolare da vera e propria rivoluzione astronomica in relazione all’Egitto laico. Cioè a dire, politicamente, e con tutta l’anomalia del caso, per gli Egiziani laici le Forze Armate restano l’ombrello di protezione dall’estremismo islamico. Ombrello autoritario però, e con tanti saluti alle speranze di rinnovamento “democratico”.
C’è da chiedersi: ma i milititari ci staranno ancora a svolgere un ruolo del genere? Fermo restando che nessuno ha un magica palla di vetro, si può pensare di sì, per il semplice motivo che altrimenti le loro sfere di potere (economico e non solo politico) saranno implacabilmente erose e occupate dalla famelica e assolutista volontà degli islamisti. Con le conseguenze facilmente intuibili.

Che dire, alla fin fine, nel vedere l’Egitto – il primo paese arabo ad aprirsi alla modernizzazione nel secolo XIX – volgersi agli islamisti? E non solo: in certe circoscrizioni i Salafiti hanno “stracciato” perfino i candidati della Fratellanza Musulmana. In primo luogo “ringraziamo” per questo risultato le conseguenze di tutte le manovre sporche dell’imperialismo, britannico prima e statunitense poi. In secondo luogo, restiamo in attesa di vedere se hanno ragione i mass-media che continuano ad accreditare valido il modello turco di Erdoğan anche per la Fratellanza Musulmana. Il corollario è che nelle società islamiche i laici sono e restano minoranza, che l’orientamento culturale delle masse è ancora radicato in una dimensione che per i laici d’Occidente – quand’anche “credenti” – appartiene al Medio Evo.
Certo è che se il modello turco non si affermerà, allora si dovrà fronteggiare la situazione della crescita vittoriosa degli islamisti in tutto il Nordafrica e delle sue ripercussioni sul Vicino Oriente. Prevedendo anche scenari peggiori, se si dovesse scivolare verso il cosiddetto “scontro di civiltà”, e mettendo in conto disastrosi colpi di testa degli Usa in appoggio a Israele (Stato alieno al contesto di inserimento e oggi senza più alleati nell’area).

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

venerdì 25 novembre 2011

L’OPPOSIZIONE SOCIALE NELL’ERA DI INTERNET: “Militanti” da desktop e Intellettuali pubblici, di James Petras

(Intervento inviato al “Simposio sulla ri-pubblicizzazione”
Ankara, 9-10 dicembre 2011)
Introduzione
Il rapporto della tecnologia informatica (TI) e più specificamente di Internet, con la politica è una questione centrale in relazione ai movimenti sociali attuali. Come per molti progressi scientifici precedenti, le innovazioni dell'informatica hanno una doppia funzione: da un lato, accelerano il flusso globale di capitali, in special modo quelli finanziari, e favoriscono la “globalizzazione” imperialistica. Dall’altro, Internet serve anche a mettere a disposizione fonti di analisi critiche alternative così come una facilità di comunicazione per l'attivazione di movimenti popolari.
L'industria dell'informatica ha creato una nuova classe di miliardari, dalla Silicon Valley in California a Bangalore in India. Essi hanno avuto un ruolo centrale nell'espansione del colonialismo economico grazie al loro controllo monopolistico, in diversi ambiti, dei flussi dell’informazione e dell'intrattenimento.
Per parafrasare Marx, “Internet è diventata l'oppio dei popoli”. Giovani e vecchi, lavoratori e disoccupati amano passare ore a farsi catturare, in modo passivo, da spettacoli, pornografia, videogiochi, consumismo online e anche notizie, isolati dagli altri cittadini e colleghi di lavoro. In molti casi, la sovrabbondanza di notizie su Internet l'ha saturata, assorbendo tempo ed energie e distraendo gli “spettatori” dal riflettere e agire. Così come poche e distorte notizie che provengono dai mass media sviano la consapevolezza delle persone, troppi messaggi in Internet possono bloccare le azioni dei cittadini.
Internet, volutamente o no, ha “privatizzato” la vita politica. Molte persone che diversamente sarebbero state dei potenziali attivisti, hanno cominciato a credere che far circolare proclami fra altri individui sia un atto politico, dimenticando che solo l'azione pubblica, che comprende il confronto tra avversari in spazi pubblici, nei centri delle città e in provincia, è la base delle trasformazioni politiche.

giovedì 24 novembre 2011

SOCIAL OPPOSITION IN THE AGE OF INTERNET: DESKTOP “MILITANTS” AND PUBLIC INTELLECTUALS, by James Petras

 Invited paper to be read at the “Symposium on Re-Publicness”
Sponsored by the Chamber of Electrical Engineers
Ankara Turkey, December 9 – 10, 2011
Introduction
The relation of information technology (IT) and more specifically the internet, to politics is a central issue facing contemporary social movements. Like many previous scientific advances the IT innovations have a dual purpose:  on the one hand, it has accelerated the global flow of capital, especially financial capital and facilitated imperialist ‘globalisation’. On the other hand the internet has served to provide alternative critical sources of analysis as well as easy communication to mobilize popular movements.
The IT industry has created a new class of billionaires, from Silicon Valley in California to Bangalore, India.  They have played a central role in the expansion of economic colonialism via their monopoly control in diverse spheres of information flows and entertainment.
            To paraphrase Marx “the internet has become the opium of the people”. Young and old, employed and unemployed alike spend hours passively gazing at spectacles, pornography, video games, online consumerism and even “news” in isolation from other citizens, fellow workers and employees.
            In many cases the “overflow” of “news” on the internet has saturated the internet, absorbing time and energy and diverting the ‘watchers’ fromreflection and action.  Just as too little and biased news by the mass media distorts popular consciousness, too many internet messages can immobilize citizen action.
            The Internet, deliberately or not, has “privatized” political life. Many otherwise potential activists have come to believe that circulating manifestos to other individuals is a political act, forgetting that only public action, including confrontations with their adversaries in public spaces, in city centers and in the countryside, is the basis of political transformations.

mercoledì 23 novembre 2011

A PROPOSITO DELL’ARTICOLO DI PIERO BERNOCCHI "SULLA CRISI", di Michele Nobile

(21/11/2011)

Sia pur di misura, la casta politica italiana è infine giunta al giudizio da tempo condiviso dalla stampa e dai governi esteri, nonché dal capitale internazionale: quella di Berlusconi non è la «squadra» di governo né la coalizione politica più adatta a far pagare la crisi ai lavoratori italiani. È questo certamente il significato dell’allargarsi del differenziale dei tassi d’interesse tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi. Ma non si tratta di un’imposizione «dello straniero»: a ben vedere a questa conclusione era giunto anche il padronato italiano. Con ciò dovrebbero andare a farsi benedire le farneticazioni subìte per anni circa l’esistenza di uno specifico «regime berlusconiano». Dovrebbe, ma non sarà così, perché se i militanti della sinistra italiana accettano di farsi dirigere da ex ministri di governi imperialistici o da governatori regionali, figurarsi se sono in grado di chiedere conto delle bufale con cui sono stati nutriti e illusi per anni e anni.
Mentre la crisi si estendeva dall’economia al campo della gestione politico-istituzionale, la sinistra «antagonista» o d’opposizione italiana ha dato libero corso alla propria fantasia per elaborare «soluzioni alternative», già discusse criticamente in questo blog. Un elemento comune, espressione dello stato pietoso, non solo politico ma anche intellettuale di questa sinistra, è la mancanza di autocritica su categorie e nozioni ambigue o fuorvianti, ampiamente impiegate per circa venti anni, e la persistenza del metodo dell’invenzione di frasi ad effetto in sostituzione di un’analisi seria delle tendenze dell’economia mondiale e, specialmente, dei rapporti tra politica, Stati ed economia.
Aspetti decisamente nefasti di questa situazione sono l’esplicitarsi di pulsioni nazionalistiche e «antieuropeistiche» e di atteggiamenti ambigui, possibilisti, di «aspettativa» o di «delusione» nei confronti del governo Monti, come se fosse possibile avere anche il più piccolo dubbio sulla natura dell’operazione iniziata con questo tecnocrate. Il tutto accompagnato dal rullare di tamburi che annuncia il «colpo di Stato», l’atto «contro la Costituzione», la «presa del potere delle banche» e cose simili.
In questo quadro di povertà politica e intellettuale spicca positivamente un recente articolo diPiero Bernocchi, storico dirigente dei Cobas, apparso sul giornale omonimo («Sulla crisi», nel  n. 49, ott./nov. 2011). In obiettiva convergenza con le posizioni da noi esposte nel blog di Utopia rossa, nell’articolo di Bernocchi si discutono gli errori analitici e politici prevalenti nella sinistra che si vuole anticapitalistica.
Ne ripercorro lo svolgimento.

martedì 22 novembre 2011

SU ALCUNE INTERPRETAZIONI DELLA CRISI E DEL CAPITALISMO ATTUALE E SULLE PROSPETTIVE, di Piero Bernocchi

Le mobilitazioni in corso in Europa contro la crisi e i suoi responsabili stanno provocando anche una diffusa discussione su elementi di analisi economica e politica cruciali per qualsiasi processo di trasformazione sociale di rilievo. In generale si può dire che si estendono positivamente argomentazioni di carattere apertamente anticapitalistico, di rifiuto globale di un sistema considerato inemendabile, e di ripudio anche di intere strutture istituzionali, parlamentari e politiche, indipendentemente dai “colori” di chi le gestisce, nonché richieste di vera giustizia sociale e di democrazia reale e sostanziale.
Tuttavia, risulta piuttosto diffusa una vulgata sulle responsabilità principali della crisi e sui suoi attori dominanti che ingigantisce alcuni protagonisti di essa rimpiccolendone oltre misura altri, che poi spesso sono quelli davvero principali; e che non riesce a dare conto del perché, a tre anni dall’esplosione ufficiale della crisi, non solo a pagare siano stati sempre gli stessi settori popolari più deboli e indifesi, ma per giunta senza che a livello europeo si stabilisse una qualche forma di resistenza e difesa comune tra i settori sociali più colpiti e tra le loro forme di rappresentanza o protagonismo sociale, politico e sindacale.
Sarà opportuno innanzitutto intenderci su alcuni criteri di valutazione complessiva del funzionamento del sistema capitalistica odierno, e in particolare sul rapporto tra Stati-nazione ed economia globale e tra capitali di Stato e capitali privati.

mercoledì 16 novembre 2011

DUE ESEMPI DI CIVILE POLEMICA, di G. Cremaschi, A. Helman e R. Massari


Pubblichiamo di seguito, con l’autorizzazione degli interessati, uno scambio di lettere personali tra Roberto Massari e Giorgio Cremaschi, e tra Massari e Alfredo Helman. Cremaschi è persona nota in Italia; Helman è uno degli argentini che si addestrarono a Cuba per raggiungere la guerriglia del Che in Bolivia (non fece in tempo ma Guevara lo nomina nel Diario); vive da tempo a Viareggio, è membro della Fondazione Guevara, ha pubblicato un libro sul Peronismo e uno sulle proprie passate esperienze politiche (Il militante, Edizioni clandestine, Marina di Massa 2005).

Pubblichiamo questo scambio per due ragioni:

1) Sia la lettera di Cremaschi che quella di Helman sono repliche a critiche di Massari; quella di Cremaschi a un articolo recentemente pubblicato su questo blog e quella di Helman a una lettera di Massari dopo la lettura del libro Il militante. Come redazione di Utopia Rossa non siamo interessati a commenti anonimi e poco o nulla argomentati (prova ne sia che questo blog non prevede la classica sezioni "commenti agli articoli"); desideriamo, invece, dialogare o polemizzare in modo aperto e meditato, nel caso rendendo disponibili tutti i materiali, senza preclusioni. La pubblicazione di queste lettere è in tale spirito di franca discussione.

2) La seconda ragione è anche più importante. Riteniamo che i due scambi, che il caso ha voluto accadessero quasi contemporaneamente, sono un bell'esempio di come dovrebbe essere una discussione politica sana, civile, capace di comprendere le ragioni dell’interlocutore nello stesso momento in cui si esprime dissenso o ferma opposizione alle stesse. Purtroppo si tratta di occasioni rare, tanto da meritare un certo rilievo per il loro valore di esempio. La norma nella sinistra italiana è invece altra: il silenzio, l’insulto, il travisamento. Una discussione civile e razionale è sia un dovere etico-politico, sia la condizione per chiarire dissensi e convergenze al fine costruire una sinistra anticapitalistica vitale (Michele Nobile).


Cremaschi-Massari (13 novembre)

Caro Roberto,
credo che alla luce degli ultimi avvenimenti potresti convenire con me che la tua polemica su un mio breve comunicato(*), totalmente ignorato dal regime informativo postberlusconiano, sia stata un poco esagerata.
Il tallone di ferro che ci stanno costruendo addosso a colpi di spreads a mio parere richiede un salto di analisi e iniziativa. Non penso minimamente ad alleanze con borghesie nazionali... ahaha e quali poi... ma ad una lotta durissima che per me ha un solo paragone: quella dei residui del movimento operaio europeo contro il nazionalismo del 1914... Non dico che la situazione è la stessa naturalmente, ma che è dello stesso segno e che va nella stessa direzione.
Il regime che spinge per il consenso a Monti pare lo stesso che nelle “giornate radiose” del maggio 1915 portò l’Italia a scendere in guerra. E stiamo tranquilli, il nazionalismo, la retorica del RI MONTI AMO saranno la miscela che verrà usata per coprire il massacro sociale.
Il mio scandalo per la presenza dei messi del FMI era tutto qui, nella piena consapevolezza che essa era assolutamente minoritaria… per ora.
Certo oggi c'è anche una destra che parla di governo delle banche, ragione di più per essere in campo noi, con i 5 punti del movimento no-debito e con anche molto altro.
Onestamente penso che dopo il governo Monti nessuno di noi sarà perdonato se non farà l'impossibile per unire tutte  le forze e le persone che vogliono disertare dalla guerra del debito e lottare contro il dominio che essa esercita qui e ora. A me tutto questo è assolutamente chiaro da quando Marchionne vinse il ricatto a Pomigliano. Da allora per me comincia la Terza repubblica ove il capitale governa direttamente...
Mi posso sbagliare, ma non trovo nel programma di chi vinse proclamando tutto il potere ai soviet altro che rivendicazioni che oggi sarebbero definite democratiche radicali. Io penso al rifiuto del debito come al rifiuto della guerra e anche per questo mi preoccupo del consenso che la guerra al debito per ora conquista a livello di massa. Loro saranno sciovinisti, noi semplicemente dobbiamo far fronte ai nostri  padroni e ai loro legami internazionali. Alle prossime
 Giorgio

Caro Giorgio, la tua risposta conferma ciò che vado dicendo di te da molto tempo, e cioè che sei una delle ultime persone civili rimaste nella ex estrema sinistra (sulla ex sinistra non vale la pena di parlare). E certamente la tua precisazione è dettata dalla consapevolezza o constatazione che il passaggio del potere istituzionale a Monti (nella sostanza, ma anche per il modo extraparlamentare con cui è stato fatto) rappresenta una montagna d'ingerenza da parte dei vertici dell'imperialismo mondiale rispetto al sassolino d'ingerenza che sarebbero stati i presunti ispettori. E forse ti sarai anche detto che la spiegazione che avevo dato io per la trovata degli ispettori (e cioè un gesto di diffida o sfiducia in più, visto che in alto avevano deciso di farla finita con Berlusconi) si è rivelata giusta e tempestiva. Di qui probabilmente anche il desiderio di mantenere aperto il dialogo fra noi, come mi auguravo anch'io nel finale del mio intervento.

Voglio rassicurarti dicendo che non ho pensato che la tua posizione sugli ispettori (o ancor prima sul non-pagamento del debito - che è cosa diversa dal non-pagamento dei costi sociali del debito che in quanto tale non differisce granché dalla lotta rivendicativa quotidiana) significasse un tuo spostamento a destra o a favore di un'alleanza con borghesie nazionali. Il problema è un altro e non credo si possa affrontare in queste poche righe. Riguarda un certo modo di procedere per reazioni successive, la pressione delle alleanze politiche che hai tessuto da un po' di tempo a questa parte, la convinzione di poter imprimere da solo, con la tua esperienza Fiom, un orientamento unitario e anticapitalistico ai relitti di una estrema sinistra che in quanto tale non esiste più da tempo, le deformazioni ideologiche che ci si porta dietro per esser cresciuti politicamente nella Cgil, o nel Pci, o in Dp, o nel Prc, o in tutti costoro o in uno dei tanti gruppi minori autosoddisfatti (scegli tu la combinazione in cui ti riconosci) - ma sempre e inequivocabilmente in una dimensione nazionale, in primo luogo. E sempre e comunque in un rapporto di non-dialogo teorico con le altre correnti o componenti, in secondo luogo.
Per es., ora che con Monti si preparano tempi ancor più duri che con Berlusconi, sarebbe interessante sentire qualche autocritica da parte di coloro che per un decennio o più hanno fatto dell'antiberlusconismo la bandiera principale e in nome di tale bandiera sono anche andati al governo, all'abbraccio col centrosinistra ecc. Se qualche "dirigente" riconoscesse l'errore compiuto e si ponesse modestamente a ritessere la trama con coloro che questo errore non l'hanno fatto, forse non faremmo dei passi da gigante in avanti, ma muoveremmo qualche passettino che magari fornirà una base di crescita ad altri, un investimento per il futuro ecc. Al momento ciò non accade e si conferma così che continuiamo a vivere l'anno zero del pensiero e del progetto anticapitalistico e tu lo verificherai prima o poi. Più pessimista di come sono sul tipo di forze politiche sulle quali ti stai appoggiando non potrei esserlo (staliniani, centristi sui generis ed ex forchettoni rossi, gruppettari e vittime più o meno illustri della società dello spettacolo...). Vorrei tanto aiutarti nella tua battaglia mettendoti a disposizione la mia esperienza rivoluzionaria più che quarantennale, nonché le capacità teoriche dei compagni che compongono la redazione internazionale di Utopia rossa (pensa che sommando le opere di 5 o 6 di noi si arriva a un centinaio di libri scritti nell'arco di qualche decennio...). Ma so benissimo che ciò non è facile da realizzare per il veleno che si è diffuso e radicato dopo le corse agli incarichi parlamentari, dopo le tante scissioni ed espulsioni, dopo l'avvento dell'individualismo sul senso del collettivo. Insomma, il forchettonismo rosso.
Restiamo quindi in contatto. Comunichiamo quando è possibile e speriamo che da qualche parte si riesca a perforare la diga.
Un abbraccio
Roberto
* * *

Massari-Helman (15 novembre)

Caro Alfredo, ho finito di leggere attentamente il tuo libro Il militante e ho dato una scorsa a quello sul Peronismo. 
Quest'ultimo non è un libro da lettura, ma da consultazione e come tale lo utilizzerò. Condivido pienamente la tua battaglia per far capire che Perón non è stato un dittatore fascista, ma anzi è stato l'unico leader che col suo specifico populismo sia riuscito a unificare la stragrande maggioranza dei lavoratori argentini nella totale incomprensione da parte del movimento operaio classico. (Del resto avrai visto come la penso nel mio libretto su Il peronismo). 
Trattandosi per te di una storia autocritica (in quanto ex comunista prosovietico) mi sembra che il libro sia veramente onesto. E utile, perché i dati che tu riporti non si trovano facilmente raccolti insieme in un unico libro. (Peccato che Perón sia scritto sempre senza accento. Ma mi pare che nel resto del libro tutti i nomi latinoamericani siano privi di accento.)

Il militante, invece, si legge bene, come storia di vita. Una storia che si svolge da entrambi i lati dell'Atlantico con scorribande in Russia e in Cina. È veramente istruttivo vedere come sei entrato nel movimento "comunista". Scusami le virgolette, ma per mia formazione non sono mai riuscito a considerare gli staliniani come comunisti. Il bello è che verso la fine del libro questo lo dici anche tu, con un linguaggio cauto ma nella sostanza non differente dal mio.
Non pensavo che la parte precedente il tuo ingresso nell'area guerriglieristica si sarebbe rivelato così interessante alla lettura. 
E invece lo è e lo consiglierei a qualsiasi giovane argentino che voglia sentire l'aria che tirava in quegli anni anche per chi stava all'esterno del movimento peronista.
E poi ovviamente mi sono divorato e annotato tutta la parte "guevarista", preziosa anche per "specialisti" del Che. Nel tentativo di ricostruire il grande mosaico della vicenda di Guevara, tu apporti delle tessere utili, che si vanno a incastrare con altre tessere. E devo dire che combaciano sempre. (E' stranamente assente dal tuo libro il nome di Amalio Rey che ho conosciuto molto bene a Córdoba e con lui ho visitato Alta Gracia.) Io - all'epoca guerriglierista come te - arrivai a Cuba a luglio del 1968 e vi rimasi sino a fine dicembre, quindi con solo un anno di ritardo rispetto a te. Puoi immaginare quindi con quanta passione ho letto la tua trafila, ben sapendo che sarebbe potuta essere anche mia. Nell'autunno del 1968, infatti, chiesi alla mia "protectora" (o directa responsable), Melba Hernández, di mandarmi a combattere in America latina. Ignoravo ovviamente la svolta che c'era stata nell'orientamento del Departamento para las Américas. Per mia fortuna Melba mi rispose negativamente dicendo che tipi come me servivano di più in Europa e che in Italia, se fossi riuscito a costruire un gruppo deciso e ben armato...
Non sto scherzando: è storia vera e credo che tu sei uno dei pochi ancora in circolazione che riesce a credermi.
Un valore aggiuntivo al tuo libro è dato dal fatto che sei ancora in circolazione, per l'appunto. Con idee politiche che non condivido affatto, ma che sono "storicamente" comprensibili.
Se ci fossimo conosciuti alla fine degli anni '60 o prima che il crollo dell'Urss creasse tanta demoralizzazione nella ex sinistra, forse oggi la penseremmo in maniera simile. Ma così non è andata, né con te, né con le migliaia di compagni sparsi nel mondo che allora erano disposti a dare la vita per l'ideale rivoluzionario, ma non sono stati poi disposti a continuare quando invece che il sacrificio della vita si richiedevano l'uso della ragione, la pazienza e soprattutto letture giuste e formative.
Sono contento di averti conosciuto, sono contento che tu sia parte della Fondazione Guevara e sono contento di aver letto il tuo libro autobiografico. Avendo i soldi lo ripubblicherei senza esitazioni nella collana Guevara della mia casa editrice. Ma così non è e credo che non lo sarà per un bel po' di tempo visto che da Tre-monti siamo passati a un Monti solo.
Un abbraccio
Roberto

Caro Roberto:
Decirte que tu carta me produjo una gran alegría no es la consabida  formalidad.
No es común, aun entre compañeros, sentirse estimulado y considerado con la generosidad que reflejan  tus líneas.
¡Gracias de todo cuore!
Creo haberte dicho - y en todo caso lo repito - que  tu caracterización del peronismo es la única escrita de un italiano, en la que me reconozco. Todas las otras que leído, son influenciadas por las deformaciones,  que la rabia y la frustración de comunistas y socialistas argentinos, impusieron  a  una visión justa del peronismo.
 Creo que también nos une la condena del estalinismo. Es realmente cómico que la crisis de un ex estalinista como yo, haya comenzado por su visita a la URSS. Es como si un musulmán dejara de serlo después de la visita a la Meca.
Quizás nos separa la caracterización de este proceso latinoamericano, que en mi provoca entusiasmo  y creo que en vos, perplejidades bastantes criticas.
Pero en fin, si todos los compañeros pensáramos igual el mundo sería muy aburrido.
Quiero decirte que estoy muy orgulloso de que me hayas aceptado en la Fondazione Guevara y que en los días que compartimos me ha impresionado la pasión,  la dedicación y la competencia con que estas librando tu batalla política y cultural.
Dejame decirte también que tipos como vos son un ejemplo para todos. Y sobre todo para los pibes que sin duda hoy, se aprestan a  continuar  la herencia, que nosotros recogimos a su vez de nuestros mayores.
Te mando un fraternal abrazo y espero verte pronto.
Alfredo


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martedì 15 novembre 2011

COME BOUVARD E PÉCUCHET, di Enzo Valls

          (Filastrocca dialogata a tempo di chotis)

          Io quasi quasi,
          già che ci sto,
          io quasi quasi
          mi faccio un blog.
          Ma ché ci scrivi?
          Non hai talento!
          Ma che ci vuole?
          Copista son!
          Per le mie mani
          passa di tutto,
          un po’ s’impara
          un po’ s’inventa,
          guardo i manuali
          m’informo in giro,
          come quei due
          del romanzo di Flaubert.

          Cita la fonte!
          Lo faccio sempre!
          …o quasi sempre...
          O quasi mai!
          Non è un problema:
          le idee belle
          non hanno autori
          né copyright.
                      Ma cosa dici?
                      Io ti sputtano
          Tu mi sputtani?
                      A meno che…
          A meno che…?
                      … non lo facciamo insieme…
              … come quei tali
             Bouvard e Pecuchet!
  
             Enzo Valls
             Santa Fe (Argentina), novembre 2011


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lunedì 14 novembre 2011

UNA PRECISAZIONE, di don Ferdinando Sudati

(sull'articolo CRISTIANESIMI (I) - Martiri del libero pensiero e della scienza. Presunti "santi" e canonizzazioni ad hoc, di Pier Francesco Zarcone)

Caro Roberto,
seguirò con interesse la serie di Zarcone “Cristianesimi” - è sempre un brillante scrittore - sebbene mi pare dica cose già molto visitate e forse scontate anche per la “massa”, però repetita iuvant e qualcosa di nuovo c’è sempre. Aspetto in ogni caso le altre puntate.
Su un punto avrei qualche dubbio, laddove scrive: «A questo genere appartiene lo “scandalo” dei manoscritti del Mar Morto, scoperti per caso da alcuni beduini a Wadi Qumrān. La Chiesa ci mise le mani sopra e ne tenne nascosti i risultati fino a quando non ebbe appurato che non contenevano nulla di idoneo a confutare la narrazione cattolica sulle origini del Cristianesimo». Non conoscevo questa versione, che mi stupisce perché detto materiale è stato trattato e pubblicato da un gruppo internazionale e interconfessionale di studiosi e oltretutto mi pare che i primi e forse maggiori studiosi dei manoscritti di Qumrān siano protestanti. Indubbiamente Luigi Moraldi, uno più ragguardevoli studiosi italiani di Qumrān, è cattolico e prete, però uscito dal clero e dall’organizzazione accademica ecclesiastica, quindi più libero da vincoli.
Forse c’era qualche paura ma non al punto da consigliare e consentire  un veto. Anche il libro dal titolo un po’ intrigante Manoscritti segreti di Qumran. I 50 documenti che fanno discutere l’esegesi biblica mondiale, di R.H.Eisenman-M. Wise (Piemme, Casale Monferrato 1999, 10 ed.) accenna a motivi spesso “banali” che hanno fatto ritardare la pubblicazione dei manoscritti (p. XIII). Parlo però da non competente in materia e sempre salvo meliori iudicio.
Buona giornata.
don Ferdinando Sudati
P.S. Volevo solo precisare che Moraldi è più famoso come studioso degli apocrifi del Nuovo Testamento, però è stato anche editore in Italia dei manoscritti di Qumran (noti all’epoca).

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sabato 12 novembre 2011

ELEZIONI TUNISINE: «PRIMAVERA» ADDIO, di Pier Francesco Zarcone (Mondo Arabo in rivolta XXIV)

Dopo tanti articoli a commento della cosiddetta “primavera araba” è quasi obbligatorio scrivere sull’esito delle elezioni tunisine che avrebbero dovuto sancire l’ingresso di quel paese nell’area liberal/democratica, come sempre ci hanno detto i mass-media occidentali, contando sul fatto che la Tunisia in linea di massima è il paese arabo con maggiore tasso di laicità. Il risultato elettorale, tuttavia, ha dato al partito islamista en-Nahda una maggioranza relativa superiore al 40%! Figuriamoci cosa accadrà con le elezioni egiziane dove gli islamisti sono più forti che in Tunisia.

Cambia il vento
Dopo una massiccia rivolta popolare in Tunisia, con parole d’ordine totalmente laiche, ecco che un partito islamista (promosso alla qualificazione di “moderato” dai media) sostanzialmente vince le prime elezioni libere. Il primo segnale della mutata direzione del vento politico è dato dall’aumento in pubblico di teste femminili coperte.
Delusione nei più, qui da noi, e risolini a carico dei commentatori che troppo presto avevano proclamato un cambiamento oggi smentito dai fatti.  Ne esce meno pregiudicato chi aveva presentato i suoi commenti nell’ottica condizionante del “a parità di condizioni”.
Il risultato elettorale tunisino – è bene dirlo – non è necessariamente una sorpresa, almeno se si considerano le dinamiche dei “processi rivoluzionari” (in senso lato, poiché in Tunisia c’è stato solo un cambio di regime). Il fatto è che i soggetti attivi di questi processi sono sempre minoranze che hanno preliminarmente effettuato un certo e debito cambio di mentalità. Nelle maggioranze che restano a casa essi possono trovare gradi maggiori o minori di simpatia e/o solidarietà, o quanto meno indifferenza; ma – cosa importantissima – si tratta generalmente di maggioranze rimaste estranee al mutamento di mentalità avvenuto nei soggetti attivi dell’intervenuto processo rivoluzionario.

Criticità delle elezioni
Non è la prima volta (anche in aree non islamiche) che l’elettorato, dopo la caduta del vecchio regime, premi posizioni o più arretrate o addirittura conservatrici; magari non identificantesi pienamente con il vecchio regime, ma comunque espressive di orientamenti antitetici a quelli animatori di quanti si erano rivoltati.
Il rapporto fra rivolta vittoriosa e svolgimento del classico elettoralismo liberal/democratico è complesso e delicato. Partiamo dal fatto che sia il mero cambio violento di regime sia l’effettiva rivoluzione politico/sociale sono nell’immediato realtà deboli, ancora lungi dall’essere consolidate. Esse, quindi, si devono autoproteggere. Il problema sta nel “come”.
Senza addentrarci nell’arduo campo teorico/pratico della difesa delle rivoluzioni (in senso lato) tuttavia uno spunto è ricavabile proprio dagli assetti costituzionali borghesi: come qui esistono principî e norme non modificabili nemmeno con referendum – il farlo vorrebbe dire rompere con l’assetto costituzionale vigente – così dopo un cambio di regime, ovvero una rivoluzione, si dovrebbero porre all’elettorato dei “paletti programmatici” non valicabili. Naturalmente se si è in grado di farlo, Comunque una rivoluzione messa ai voti è inevitabilmente una rivoluzione perduta (ne sanno qualcosa i sandinisti del Nicaragua).