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martedì 27 dicembre 2011

IL TEMA DELLA VIOLENZA DOPO IL 15 OTTOBRE A ROMA, di Stefano Sbolgi («Birillo»)

Personalmente mi ci sono voluti almeno un paio di giorni per elaborare un ragionamento razionale sul 15 ottobre. Certo il turbamento ed il disagio che già si percepivano tra i compagni nel viaggio di ritorno erano palpabili. Poca era la voglia di commentare a caldo l’accaduto, grande la preoccupazione di dovere gestire nei giorni successivi la valanga di critiche che avrebbero coinvolto, in particolare i Cobas, a seguito delle tante situazioni paradossali verificatesi prima e durante l’evento.
Credo di poter dire che il mezzo disastro del 15 ottobre affonda le sue radici nelle molte, troppe ambiguità e differenze interpretative della fase storica che stiamo attraversando, solchi che segnano il movimento fin dalla sua genesi, ed in parte anche la nostra organizzazione. La giornata del 15 ottobre è stata la disfatta dell’idea stessa di organizzazione, della capacità del movimento di coordinarsi, di trovare una sintesi politica traducibile in parole d’ordine chiare ed unificanti. Sintesi, a mio avviso impossibile tra componenti la cui prospettiva strategica è “l’alternanza di governo” magari partecipandovi, e le altre, per le quali regna, con rinnovata forza e come orizzonte strategico, “l’alternativa di sistema” che qualcuno, al contrario ha liquidato da tempo e troppo presto, come stantia utopia totalitaria.
Già nelle settimane precedenti c’era un gran caos che circondava il corteo. Le assemblee a Roma si susseguivano senza sosta, ma chi ci partecipava ha deciso alla fine di lasciare la piazza a se stessa, decidendo una linea pacifica che, com’era chiaro a tutti fin da subito, non sarebbe stata l’unica presente. Ciò che era ampiamente previsto alla fine è successo. Sostanzialmente c’è stata una non-gestione, derivata da un’incapacità di leggere la situazione, vista la complessità degli elementi in campo.
L’unica sintesi individuata è stata attribuire alla manifestazione la cifra della pluralità e del pacifismo.
Un evento capace di accogliere qualsiasi orientamento purché contenesse una qualche critica dell’esistente. L’evento è stato derubricato ad una semplice conta, per dire “vediamo quanti siamo, poi decideremo che fare”. In Italia, però, c’è forte tensione, maggiore che negli altri paesi, dall’estate calda in Val di Susa, alle dure manifestazioni operaie di Fincantieri piuttosto che di Termini Imerese, fino agli scontri dei pastori sardi o degli stessi Cobas arrivati fin sotto il Parlamento. La consapevolezza che la crisi morde davvero e sta accendendo gli animi. Così era prevedibile che qualcuno pur non inquadrato nel gruppo organizzato decidesse di seguirli e passare direttamente all’azione.
Però, a proposito di quanto si è verificato, bisogna dare una lettura per così dire laica, interpretando i fatti per quello che sono. I danni politici sono sicuramente elevati ed ancora non quantificabili, quelli materiali sono francamente risibili: alcune auto e qualche cassonetto incendiato, una caserma dismessa data alle fiamme, un pugno di bancomat fuori uso e qualche vetrina sfondata ed infine il sacrificio, forse preventivato, del blindato avvolto dalle fiamme elevato, assieme al ragazzo con l’estintore (invitabile l’accostamento con Genova) ad immagini universali dell’evento. Però, il parallelo con Genova, immediatamente evocato, francamente non ci sta, sicuramente per la dimensione dei fatti, ma soprattutto per il comportamento della polizia e dello stato. Non ci sono stati né massacri né pestaggi, sarebbe stato facile per la polizia massacrare migliaia di persone in P.za San Giovanni. A differenza di Genova, alle centinaia di persone passate a mani alzati davanti ai reparti repressivi non è stato torto un capello, non abbiamo assistito nemmeno ai possibili rastrellamenti a danno delle migliaia di compagni che vagavano nel centro di Roma diretti agli autobus del ritorno. A fronte dell’entità dei danni il saldo politico per lo stato è del tutto attivo. A Genova per tre giorni fu sospesa la democrazia, le nefandezze fasciste degli sbirri hanno consegnato alla storia una banda di carnefici impresentabili. A Roma, al contrario, l’apparato repressivo è diventato vittima più o meno passivo della “cieca” violenza rossa, consegnandoci un regime con le carte in regole per riesumare leggi anticostituzionali come la legge Reale proposta da quel Di Pietro che qualcuno considera valido interlocutore anche all’interno del movimento. Leggi speciali, è bene ricordare, immediatamente evocate da tutto lo schieramento parlamentare ed extraparlamentare.
Regime nuovamente con le carte in regola per pretendere la riorganizzazione dell’apparato repressivo magari destinando le residuali risorse per la spesa sociale verso le forze di polizia.
Riabilitazione politica dell’apparato, e riorganizzazione logistica della forza repressiva, non certo per fronteggiare trecento Black, ma per prepararsi a quella stagione del conflitto sociale che cresce con il crescere del prezzo della crisi che, al di là degli slogan belli, continuano a pagare solo le masse popolari.
Con le carte in regola per procedere, come dalle notizie che stanno arrivando, a mettere sotto controllo le avanguardie militanti impegnate nelle lotte, come testimoniano le perquisizioni in tutto il territorio nazionale.
Inevitabilità del conflitto, all’interno di un altro paradosso nel quale sono gli stessi autorevoli rappresentanti delle istituzioni internazionali del capitalismo che ci dicono che la crisi è sistemica ed irrisolvibile, paradosso per il quale, mentre il blocco reazionario si prepara a gestire l’”emergenza” del conflitto sociale, pare che sia proprio il movimento, o parti significative di esso, l’ultimo ad accorgersi dell’imminente sospensione delle “regole democratiche” dello scontro sociale.
A prescindere dalla frittata politica che si era già consumata negli intergruppi romani, ritengo che il comportamento tenuto dai Cobas durante il corteo prima, e in San Giovanni dopo, è stato in ogni caso l’unico possibile e comunque il più sensato. Al di là delle idiozie che sento girare sul fatto che i Cobas abbiano condotto operazioni di polizia addirittura consegnando agli sbirri alcuni “Black”, la realtà è che i compagni dei Cobas, mettendo a repentaglio anche la propria personale sicurezza, hanno protetto il corteo dai pericoli oggettivi derivanti dalle possibili esplosioni delle auto e dei cassonetti in fiamme, hanno contenuto le cariche della polizia in via Labicana arrivate pericolosamente a ridosso del corteo, cercando di far proseguire la manifestazione fino a San Giovanni. Hanno fatto esattamente il contrario di quanto vengono accusati, evitando che la situazione degenerasse. I Cobas hanno evitato lo scontro generalizzato tra spezzoni di corteo e il gruppo dei Black, frapponendosi fisicamente tra gli schieramenti, fin dal Colosseo. Per cui, sgombrato il campo dalle cazzate, bisogna concentrarci sulle questioni politiche che dopo Roma si aprano nel movimento e all’interno dei Cobas.
È del tutto legittimo criticare in profondità la linea politica decisa dalla dirigenza nazionale, e io sono tra questi; è altrettanto legittimo denunciare il corto circuito tra gli esecutivi e i tanti compagni che fanno fatica a capire certe dinamiche all’interno di un’evidente carenza di dibattito politico che ha completamente atomizzato la dirigenza nazionale. Su queste questioni di carattere politico si può anche decidere di abbandonare l’organizzazione, al contrario è assurdo uscire dai Cobas sulla base dei fatti di Roma.
Ma se il parallelo con Genova non regge per quanto riguarda il comportamento dello Stato, è invece plausibile per quanto riguarda l’interpretazione della violenza esercitata durante il corteo, che riproduce esattamente le erronee valutazioni del dopo Genova di tanta parte di quel movimento, Cobas compresi, lasciando pensare che in questi anni nulla è cambiato sotto il profilo dell’evoluzione dell’analisi e della critica politica. A tal proposito riporto un passaggio di una cosa che scrissi all’indomani di Genova, per chi avesse la pazienza di leggere.
Tutta l’Operazione è stato così assurdamente autocontraddittoria… Come si fa a partire dall’obiezione dell’esistente e poi pretendere sconti ferroviari, alberghi e sevizi per andare a contestare senza avvertire il puzzo di bruciato? Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche, salvo poi precisare “naturalmente tutto è metaforico, ludico, siamo venuti con le pistole ad acqua…”.
Come si fa a protestare perché gli anarchici greci vengono bloccati e respinti ad Ancona, e poi imputare al governo e alle forze dell'ordine di non aver bloccato, cioè arrestato, dopo averli individuati, i “casseurs”?.
Come si fa a definire barbari, teppisti, provocatori infiltrati poche centinaia di “devastatori”, e poi gestire tutti insieme la morte di Carlo Giuliani? In diretta col suo estintore in mano.
E se invece di essere un ragazzo di Genova, fosse stato un Black Block cosa avremmo detto… che se l’è voluta.
Era inevitabile che qualcuno ci provasse davvero ad assaltare la zona rossa, o a sfondare vetrine, non tanto e non solo per aver male interpretato il “disubbidiente Casarini”, ma perché il rabbioso e irrazionale scatenarsi sui simboli dell’oppressione, dalla polizia alle banche alle scintillanti vetrine piene di merci è un fenomeno “normale” delle metropoli del Nord come del Sud del mondo. Espressione di un ribellismo confuso e nichilista, di una jacquerie autodistruttiva e violenta, come violenti sono i rapporti sociali che uccidono ed escludono i diversi, i deboli, i sensibili, o semplicemente gli incapaci o refrattari ad accettare le regole della subordinazione sociale.
Gli stessi individui la cui irriverente esistenza è stata presa a prestito da fior di intellettuali e sociologi della sinistra, per dimostrare il fallimento di un sistema culturale e relazionale violento e ipercompetitivo, basato esclusivamente su rapporti mercantili. Sono gli stessi “brutti ragazzi” per i quali tutti noi, però, proviamo grande simpatia quando bruciano i ghetti delle metropoli o ne assaltano i cuori con la loro esplosione di violenza senza alcuna ideologia.
Però sono gli stessi “giovani arrabbiati” che non abbiamo esitato a definire agenti provocatori, infiltrati, probabilmente gestiti e manovrati dai servizi segreti, nel momento in cui hanno “sciupato” la nostra bella e pulita manifestazione… contro “la fame nel mondo” e il “cerbero Governo delle destre di Berlusconi”.
I fatti di Roma ci impongono una riflessione politica profonda, in particolare sul tema della violenza, che non è mai legittima e sempre controproducente quando diviene l'unico elemento identificativo di subculture prive di una strategia e di un progetto di trasformazione sociale, anzi del tutto prive della speranza che possa essere costruita questa possibilità, in particolare quando il suo esercizio avviene a qualche metro da persone che, pur condividendo molte delle ragioni di quella violenza, non sono né militarmente né culturalmente preparate. L‘antagonismo radicale al sistema di potere non è certo misurabile dalla quantità di vetrine infrante, esso deve essere un percorso in grado di costruire giorno dopo giorno rapporti di forza sempre più favorevoli alla ripresa dell’insorgenza, nella consapevolezza che quando lo scontro con i prepotenti si fa duro la prima condizione da costruire è il radicamento sociale, senza pensare che esistano delle scorciatoie.
D’altro canto mi lasciano altrettanto perplesso le dichiarazioni ufficiali Cobas dalle quali traspare un’assunzione acritica di un pacifismo radicale senza se e senza ma. Sarebbe bene chiarire questa posizione.
Si tratta di una valutazione tattica o di un orizzonte strategico? Mi chiedo se quando si scrive "pacifismo", si debba leggere compatibilità, compromissione, patteggiamento in cambio della rappresentanza formale sui tavoli della finta democrazia negoziale, ove chi detiene il monopolio della forza ha sempre schiacciato chi si è presentato con la sola forza delle ragioni.
Non vorrei che anche i Cobas cadessero in uno dei tanti paradossi di questo paese per il quale l’ossessione per la legalità, che per l’anomalia italiana chiamata Berlusconi è diventata una sorta di “valore rivoluzionario”, e di conseguenza porta a questa perversione per cui chi va in piazza in modo pacifico rifiuta e disprezza chi scende in altro modo, perché si tratta di teppisti, criminali; perché mettono a repentaglio la loro manifestazione. Non vorrei che in questa deriva ci fosse un calcolo politico per il quale queste interpretazioni servono a costruirsi una “presentabilità” per accomodarsi sull’ultimo strapuntino rimasto libero della presunta rappresentanza sociale. Nel grave errore di interpretazione della crisi per cui sia possibile una qualche concertazione sociale, magari con l’italiano neo-presidente delle BCE, disponibile, pur di contenere il conflitto, a qualche illusoria redistribuzione di ricchezza attraverso blande patrimoniali o politiche fiscali più rigorose. Che poi sono alcune delle parole d’ordine di larga parte del movimento che stanno a testimoniare come non sia ancora compresa la natura sistemica della crisi e l’accumulo di potenziale rivoluzionario che essa comporta.
Devo purtroppo segnalare che da questo punto di vista anche la posizione dei Cobas è confusa e finisce per generare quelle contraddizioni che si traducono nella modalità con cui si consumano gli ambigui rapporti che teniamo con altri apparati in cerca di egemonia. Cambiano i nomi e le sigle ma sono sempre gli stessi, cercano visibilità nei movimenti che considerano una sorta di serbatoio di consenso per le competizioni elettorali. Apparati burocratici, gruppi di potere che nel sistema capitalistico non ci stanno poi male, soggetti per i quali la sopravvivenza del capitalismo, specialmente se in  crisi, rappresenta la ragione stessa della loro esistenza.
Oppure il rifiuto aprioristico della violenza è un atteggiamento tattico derivante dalla convinzione che il movimento non sia maturo per l’assalto al cielo?
Che ci sia qualche potenziale forchettone anche tra i Cobas del 2011?
Io personalmente credo che la maturità dei movimenti sia determinata anche dalla chiarezza dell’analisi. Le ragioni sono molte e complesse, ma una cosa è certa: quel livello di violenza fatica a essere accettato dalla maggior parte della gente.
I più credono ancora che con un governo migliore, con riforme più umane di quelle che ci chiede la BCE, tutto andrebbe a posto, che la crisi sia prodotta da un manipolo di banditi dell’alta finanza e dal ceto politico corrotto. Un po’ di etica nella finanza, rinnovamento del ceto politico e la crisi supera.
La stessa composizione sociale del corteo era eterogenea e rispecchia l’ampia stratificazione del paese. C’erano persone che erano pronte a tutto, precari che non compaiono da Santoro, senza laurea e master a Oxford, quelli invisibili ormai maggioranza della forma produttiva nel paese, ma che non riescono a esprimere un vero progetto se non quello di sfogarsi; altre adagiate in quell’illusione di relativo benessere che il sistema ha diffuso fino alla scorsa generazione, indignati più per la questione morale che per la crisi, e che non si sentono ancora così disperate e ancora sperano che si possano cambiare le cose senza rischiare di spaccarsi la testa. È persino banale costatare che queste due categorie facciano fatica a capirsi e trovare per incanto una saldatura politica. Uno delle nostre priorità diventa lavorare proprio intorno a questa apparente contraddizione. Una parte di responsabilità della condizione di immaturità che si manifesta nell’ambito della dialettica politica sta nella “timidezza” delle parti più avanzate del movimento a sgombrare il campo dall’illusione che il capitalismo sia riformabile. La paura dell’isolamento politico figlia del vizio di navigare a vista con un occhio alla politica più deteriore e con l’altro vigile a cogliere l’occasione, pronti a salire sul carro, caso mai dovesse mettersi in movimento.
Al contrario, senza ambiguità, bisogna farci interpreti del fatto che il capitale sta attraversando una crisi epocale, che a detta anche dei più fanatici sostenitori del modo di produzione attuale, sta ponendo in evidente discussione le basi e le finalità del capitalismo e della produzione basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo al fine di massimizzare il profitto.
L’inasprimento della condizione di accumulazione a partire dal 2007, destinato a continuare ancora per anni, è una naturale manifestazione della ben più lunga crisi tendenziale del capitale, contrastata ma non più neutralizzata da elementi di controtendenza. Tra i principali elementi di controtendenza c’è senz’altro il processo di finanziarizzazione del capitale che fa apparire la crisi stessa come finanziaria solo perché questa è la forma prevalente del capitalismo contemporaneo. La finanziarizzazione, però, non è la causa della crisi ma un effetto della crisi di accumulazione che ha tratto principio almeno dagli anni ‘70.
L’equivoco interpretativo, non è né formale né accademico, esso ha generato il trappolone nel quale è caduta la parte prevalente del movimento, finendo per produrre proposta politica e parole d’ordine del tutto inadeguate alla natura della crisi. Un modello di “concertazione democratica” che invoca sciocchezze come la cancellazione del debito o il diritto all’insolvenza, che pretende di suggerire la medicina al capitalismo morente. E ovvio che per molti, più o meno consapevolmente, non sia una condizione condivisa. È uno spartiacque profondo che si è materializzato violentemente nel corteo romano.
Non sarà facile la ricomposizione politica di mondi che per il momento paiono molto lontani.
È vero che l’imponente sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale dal secondo dopoguerra per circa venti anni ha stimolato le contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico che, poi attanagliato dalla crisi di sovrapproduzione e quindi dalla progressiva riduzione del saggio di profitto, si è trovato del nuovo millennio in una fase estremamente intricata. Tuttavia, se il capitale ed i suoi agenti attraverso il motore della concorrenza e dello sfruttamento hanno adottato un comportamento particolarmente aderente alle previsioni marxiane, è pur vero che l’insieme della classe subalterna sembra ancora lontana dall’appuntamento con la storia, faticando, proprio in virtù delle scarsa comprensione della natura sistemica ed irrisolvibile della crisi, a sviluppare un coscienza in grado di esprimere il suo enorme potenziale rivoluzionario. La rivolta mondiale di cui Roma, nonostante tutto, ha costituito un passaggio significativo, pur unificando milioni di individui intorno alla parola d’ordine “la crisi la paghi chi l’ha provocata”, manca del passaggio successivo circa l’inevitabilità del superamento necessariamente violento del sistema di produzione capitalistico.
La giornata del 15 ottobre ci consegna un movimento di portata mondiale che però sembra non distinguersi, almeno nella fase attuale sia nei contenuti che nelle modalità di espressione dalle esperienze maturate negli ultimi 15 anni che purtroppo vantano un curriculum disastroso proprio perché private di una solida base teorica e di una struttura connessa in grado di permettere un vero e proprio accumulo di forze che, in una fase come l'attuale, sembrerebbe quanto mai non solo opportuno ma uno sbocco persino naturale…

20 ottobre 2011

(Stefano Sbolgi, detto «Birillo», milita nei Cobas di Firenze)

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