Personalmente
mi ci sono voluti almeno un paio di giorni per elaborare un ragionamento
razionale sul 15 ottobre. Certo il turbamento ed il disagio che già si
percepivano tra i compagni nel viaggio di ritorno erano palpabili. Poca
era la voglia di commentare a caldo l’accaduto, grande la preoccupazione di
dovere gestire nei giorni successivi la valanga di critiche che avrebbero coinvolto,
in particolare i Cobas, a seguito delle tante situazioni paradossali
verificatesi prima e durante l’evento.
Credo
di poter dire che il mezzo disastro del 15 ottobre affonda le sue radici nelle
molte, troppe ambiguità e differenze interpretative della fase storica che
stiamo attraversando, solchi che segnano il movimento fin dalla sua genesi, ed
in parte anche la nostra organizzazione. La giornata del 15 ottobre è
stata la disfatta dell’idea stessa di organizzazione, della capacità del
movimento di coordinarsi, di trovare una sintesi politica traducibile in parole
d’ordine chiare ed unificanti. Sintesi, a mio avviso impossibile tra componenti
la cui prospettiva strategica è “l’alternanza di governo” magari
partecipandovi, e le altre, per le quali regna, con rinnovata forza e
come orizzonte strategico, “l’alternativa di sistema” che qualcuno, al
contrario ha liquidato da tempo e troppo presto, come stantia utopia totalitaria.
Già
nelle settimane precedenti c’era un gran caos che circondava il corteo. Le assemblee
a Roma si susseguivano senza sosta, ma chi ci partecipava ha deciso alla fine
di lasciare la piazza a se stessa, decidendo una linea pacifica che, com’era
chiaro a tutti fin da subito, non sarebbe stata l’unica presente. Ciò che era
ampiamente previsto alla fine è successo. Sostanzialmente c’è stata una non-gestione,
derivata da un’incapacità di leggere la situazione, vista la complessità degli
elementi in campo.
L’unica
sintesi individuata è stata attribuire alla manifestazione la cifra della
pluralità e del pacifismo.
Un evento capace di accogliere qualsiasi orientamento purché contenesse una qualche critica dell’esistente. L’evento è stato derubricato ad una semplice conta, per dire “vediamo quanti siamo, poi decideremo che fare”. In Italia, però, c’è forte tensione, maggiore che negli altri paesi, dall’estate calda in Val di Susa, alle dure manifestazioni operaie di Fincantieri piuttosto che di Termini Imerese, fino agli scontri dei pastori sardi o degli stessi Cobas arrivati fin sotto il Parlamento. La consapevolezza che la crisi morde davvero e sta accendendo gli animi. Così era prevedibile che qualcuno pur non inquadrato nel gruppo organizzato decidesse di seguirli e passare direttamente all’azione.
Però,
a proposito di quanto si è verificato, bisogna dare una lettura per così dire
laica, interpretando i fatti per quello che sono. I danni politici sono
sicuramente elevati ed ancora non quantificabili, quelli materiali sono
francamente risibili: alcune auto e qualche cassonetto incendiato, una caserma
dismessa data alle fiamme, un pugno di bancomat fuori uso e qualche vetrina
sfondata ed infine il sacrificio, forse preventivato, del blindato avvolto
dalle fiamme elevato, assieme al ragazzo con l’estintore (invitabile
l’accostamento con Genova) ad immagini universali dell’evento. Però, il
parallelo con Genova, immediatamente evocato, francamente non ci sta,
sicuramente per la dimensione dei fatti, ma soprattutto per il comportamento
della polizia e dello stato. Non ci sono stati né massacri né pestaggi, sarebbe
stato facile per la polizia massacrare migliaia di persone in P.za San
Giovanni. A differenza di Genova, alle centinaia di persone passate a mani
alzati davanti ai reparti repressivi non è stato torto un capello, non abbiamo
assistito nemmeno ai possibili rastrellamenti a danno delle migliaia di
compagni che vagavano nel centro di Roma diretti agli autobus del ritorno. A
fronte dell’entità dei danni il saldo politico per lo stato è del tutto attivo.
A Genova per tre giorni fu sospesa la democrazia, le nefandezze fasciste degli
sbirri hanno consegnato alla storia una banda di carnefici impresentabili. A
Roma, al contrario, l’apparato repressivo è diventato vittima più o meno
passivo della “cieca” violenza rossa, consegnandoci un regime con le carte
in regole per riesumare leggi anticostituzionali come la legge Reale
proposta da quel Di Pietro che qualcuno considera valido interlocutore anche
all’interno del movimento. Leggi speciali, è bene ricordare, immediatamente
evocate da tutto lo schieramento parlamentare ed extraparlamentare.
Regime
nuovamente con le carte in regola per pretendere la riorganizzazione
dell’apparato repressivo magari destinando le residuali risorse per la spesa
sociale verso le forze di polizia.
Riabilitazione
politica dell’apparato, e riorganizzazione logistica della forza repressiva,
non certo per fronteggiare trecento Black, ma per prepararsi a quella stagione
del conflitto sociale che cresce con il crescere del prezzo della crisi che, al
di là degli slogan belli, continuano a pagare solo le masse popolari.
Con le
carte in regola per procedere, come dalle notizie che stanno arrivando, a
mettere sotto controllo le avanguardie militanti impegnate nelle lotte, come
testimoniano le perquisizioni in tutto il territorio nazionale.
Inevitabilità
del conflitto, all’interno di un altro paradosso nel quale sono gli stessi
autorevoli rappresentanti delle istituzioni internazionali del capitalismo che
ci dicono che la crisi è sistemica ed irrisolvibile, paradosso per il quale,
mentre il blocco reazionario si prepara a gestire l’”emergenza” del conflitto
sociale, pare che sia proprio il movimento, o parti significative di esso,
l’ultimo ad accorgersi dell’imminente sospensione delle “regole democratiche”
dello scontro sociale.
A
prescindere dalla frittata politica che si era già consumata negli intergruppi
romani, ritengo che il comportamento tenuto dai Cobas durante il corteo prima,
e in San Giovanni dopo, è stato in ogni caso l’unico possibile e comunque il
più sensato. Al di là delle idiozie che sento girare sul fatto che i Cobas
abbiano condotto operazioni di polizia addirittura consegnando agli sbirri
alcuni “Black”, la realtà è che i compagni dei Cobas, mettendo a repentaglio
anche la propria personale sicurezza, hanno protetto il corteo dai pericoli
oggettivi derivanti dalle possibili esplosioni delle auto e dei cassonetti in
fiamme, hanno contenuto le cariche della polizia in via Labicana arrivate
pericolosamente a ridosso del corteo, cercando di far proseguire la
manifestazione fino a San Giovanni. Hanno fatto esattamente il contrario di
quanto vengono accusati, evitando che la situazione degenerasse. I Cobas hanno
evitato lo scontro generalizzato tra spezzoni di corteo e il gruppo dei Black,
frapponendosi fisicamente tra gli schieramenti, fin dal Colosseo. Per cui,
sgombrato il campo dalle cazzate, bisogna concentrarci sulle questioni
politiche che dopo Roma si aprano nel movimento e all’interno dei Cobas.
È del
tutto legittimo criticare in profondità la linea politica decisa dalla dirigenza
nazionale, e io sono tra questi; è altrettanto legittimo denunciare il corto
circuito tra gli esecutivi e i tanti compagni che fanno fatica a capire certe
dinamiche all’interno di un’evidente carenza di dibattito politico che ha
completamente atomizzato la dirigenza nazionale. Su queste questioni di
carattere politico si può anche decidere di abbandonare l’organizzazione, al
contrario è assurdo uscire dai Cobas sulla base dei fatti di Roma.
Ma se
il parallelo con Genova non regge per quanto riguarda il comportamento dello
Stato, è invece plausibile per quanto riguarda l’interpretazione della violenza
esercitata durante il corteo, che riproduce esattamente le erronee valutazioni
del dopo Genova di tanta parte di quel movimento, Cobas compresi, lasciando
pensare che in questi anni nulla è cambiato sotto il profilo dell’evoluzione
dell’analisi e della critica politica. A tal proposito riporto un passaggio di
una cosa che scrissi all’indomani di Genova, per chi avesse la pazienza di
leggere.
Tutta
l’Operazione è stato così assurdamente autocontraddittoria… Come si fa a
partire dall’obiezione dell’esistente e poi pretendere sconti ferroviari,
alberghi e sevizi per andare a contestare senza avvertire il puzzo di bruciato?
Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “violeremo
la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari,
guerresche, salvo poi precisare “naturalmente tutto è metaforico, ludico, siamo
venuti con le pistole ad acqua…”.
Come
si fa a protestare perché gli anarchici greci vengono bloccati e respinti ad
Ancona, e poi imputare al governo e alle forze dell'ordine di non aver
bloccato, cioè arrestato, dopo averli individuati, i “casseurs”?.
Come si fa a definire barbari, teppisti, provocatori infiltrati poche centinaia di “devastatori”, e poi gestire tutti insieme la morte di Carlo Giuliani? In diretta col suo estintore in mano.
E se invece di essere un ragazzo di Genova, fosse stato un Black Block cosa avremmo detto… che se l’è voluta.
Era
inevitabile che qualcuno ci provasse davvero ad assaltare la zona rossa, o a
sfondare vetrine, non tanto e non solo per aver male interpretato il
“disubbidiente Casarini”, ma perché il rabbioso e irrazionale scatenarsi sui
simboli dell’oppressione, dalla polizia alle banche alle scintillanti vetrine
piene di merci è un fenomeno “normale” delle metropoli del Nord come del Sud
del mondo. Espressione di un ribellismo confuso e nichilista, di una jacquerie
autodistruttiva e violenta, come violenti sono i rapporti sociali che uccidono
ed escludono i diversi, i deboli, i sensibili, o semplicemente gli incapaci o
refrattari ad accettare le regole della subordinazione sociale.
Gli stessi individui la cui irriverente esistenza è stata presa a prestito da fior
di intellettuali e sociologi della sinistra, per dimostrare il fallimento di un
sistema culturale e relazionale violento e ipercompetitivo, basato
esclusivamente su rapporti mercantili. Sono gli stessi “brutti ragazzi” per i
quali tutti noi, però, proviamo grande simpatia quando bruciano i ghetti delle
metropoli o ne assaltano i cuori con la loro esplosione di violenza senza
alcuna ideologia.
Però
sono gli stessi “giovani arrabbiati” che non abbiamo esitato a definire agenti
provocatori, infiltrati, probabilmente gestiti e manovrati dai servizi segreti,
nel momento in cui hanno “sciupato” la nostra bella e pulita manifestazione…
contro “la fame nel mondo” e il “cerbero Governo delle destre di Berlusconi”.
I
fatti di Roma ci impongono una riflessione politica profonda, in particolare
sul tema della violenza, che non è mai legittima e sempre controproducente
quando diviene l'unico elemento identificativo di subculture prive di una
strategia e di un progetto di trasformazione sociale, anzi del tutto prive
della speranza che possa essere costruita questa possibilità, in particolare
quando il suo esercizio avviene a qualche metro da persone che, pur
condividendo molte delle ragioni di quella violenza, non sono né militarmente
né culturalmente preparate. L‘antagonismo radicale al sistema di potere non è
certo misurabile dalla quantità di vetrine infrante, esso deve essere un
percorso in grado di costruire giorno dopo giorno rapporti di forza sempre più
favorevoli alla ripresa dell’insorgenza, nella consapevolezza che quando lo
scontro con i prepotenti si fa duro la prima condizione da costruire è il
radicamento sociale, senza pensare che esistano delle scorciatoie.
D’altro canto mi lasciano altrettanto perplesso le dichiarazioni ufficiali
Cobas dalle quali traspare un’assunzione acritica di un pacifismo
radicale senza se e senza ma. Sarebbe bene chiarire questa posizione.
Si tratta di una valutazione tattica o di un orizzonte
strategico? Mi chiedo se quando si scrive "pacifismo", si debba
leggere compatibilità, compromissione, patteggiamento in cambio
della rappresentanza formale sui tavoli della finta democrazia negoziale, ove
chi detiene il monopolio della forza ha sempre schiacciato chi si è presentato
con la sola forza delle ragioni.
Non vorrei che anche i Cobas cadessero in uno dei tanti paradossi di questo
paese per il quale l’ossessione per la legalità, che per l’anomalia italiana
chiamata Berlusconi è diventata una sorta di “valore rivoluzionario”, e di
conseguenza porta a questa perversione per cui chi va in piazza in modo pacifico
rifiuta e disprezza chi scende in altro modo, perché si tratta di teppisti,
criminali; perché mettono a repentaglio la loro manifestazione. Non vorrei che
in questa deriva ci fosse un calcolo politico per il quale queste
interpretazioni servono a costruirsi una “presentabilità” per accomodarsi
sull’ultimo strapuntino rimasto libero della presunta rappresentanza sociale.
Nel grave errore di interpretazione della crisi per cui sia possibile una
qualche concertazione sociale, magari con l’italiano neo-presidente delle BCE,
disponibile, pur di contenere il conflitto, a qualche illusoria redistribuzione
di ricchezza attraverso blande patrimoniali o politiche fiscali più rigorose.
Che poi sono alcune delle parole d’ordine di larga parte del movimento che stanno
a testimoniare come non sia ancora compresa la natura sistemica della crisi e
l’accumulo di potenziale rivoluzionario che essa comporta.
Devo purtroppo segnalare che da questo punto di vista anche la posizione
dei Cobas è confusa e finisce per generare quelle contraddizioni che si
traducono nella modalità con cui si consumano gli ambigui rapporti che teniamo
con altri apparati in cerca di egemonia. Cambiano i nomi e le sigle ma
sono sempre gli stessi, cercano visibilità nei movimenti che considerano
una sorta di serbatoio di consenso per le competizioni elettorali. Apparati
burocratici, gruppi di potere che nel sistema capitalistico non ci stanno poi
male, soggetti per i quali la sopravvivenza del capitalismo, specialmente se
in crisi, rappresenta la ragione stessa della loro esistenza.
Oppure il rifiuto aprioristico della violenza è un atteggiamento tattico derivante dalla convinzione che il movimento non sia maturo per l’assalto al cielo?
Che ci sia qualche potenziale forchettone anche tra i Cobas del 2011?
Io personalmente credo che la maturità dei
movimenti sia determinata anche dalla chiarezza dell’analisi. Le ragioni sono
molte e complesse, ma una cosa è certa: quel livello di violenza fatica a
essere accettato dalla maggior parte della gente.
I più
credono ancora che con un governo migliore, con riforme più umane di quelle che
ci chiede la BCE, tutto andrebbe a posto, che la crisi sia prodotta da un
manipolo di banditi dell’alta finanza e dal ceto politico corrotto. Un po’ di
etica nella finanza, rinnovamento del ceto politico e la crisi supera.
La stessa composizione sociale del corteo era eterogenea e rispecchia l’ampia stratificazione del paese. C’erano persone che erano pronte a tutto, precari che non compaiono da Santoro, senza laurea e master a Oxford, quelli invisibili ormai maggioranza della forma produttiva nel paese, ma che non riescono a esprimere un vero progetto se non quello di sfogarsi; altre adagiate in quell’illusione di relativo benessere che il sistema ha diffuso fino alla scorsa generazione, indignati più per la questione morale che per la crisi, e che non si sentono ancora così disperate e ancora sperano che si possano cambiare le cose senza rischiare di spaccarsi la testa. È persino banale costatare che queste due categorie facciano fatica a capirsi e trovare per incanto una saldatura politica. Uno delle nostre priorità diventa lavorare proprio intorno a questa apparente contraddizione. Una parte di responsabilità della condizione di immaturità che si manifesta nell’ambito della dialettica politica sta nella “timidezza” delle parti più avanzate del movimento a sgombrare il campo dall’illusione che il capitalismo sia riformabile. La paura dell’isolamento politico figlia del vizio di navigare a vista con un occhio alla politica più deteriore e con l’altro vigile a cogliere l’occasione, pronti a salire sul carro, caso mai dovesse mettersi in movimento.
Al
contrario, senza ambiguità, bisogna farci interpreti del fatto che il capitale
sta attraversando una crisi epocale, che a detta anche dei più fanatici
sostenitori del modo di produzione attuale, sta ponendo in evidente discussione
le basi e le finalità del capitalismo e della produzione basata sullo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo al fine di massimizzare il profitto.
L’inasprimento della condizione di accumulazione a partire dal 2007, destinato a continuare ancora per anni, è una naturale manifestazione della ben più lunga crisi
tendenziale del capitale, contrastata ma non più neutralizzata da elementi di controtendenza. Tra i principali elementi di controtendenza c’è
senz’altro il processo di finanziarizzazione del capitale che fa apparire
la crisi stessa come finanziaria solo perché questa è la forma prevalente del
capitalismo contemporaneo. La finanziarizzazione, però, non è la causa
della crisi ma un effetto della crisi di accumulazione che ha tratto
principio almeno dagli anni ‘70.
L’equivoco
interpretativo, non è né formale né accademico, esso ha generato il trappolone
nel quale è caduta la parte prevalente del movimento, finendo per produrre
proposta politica e parole d’ordine del tutto inadeguate alla natura della
crisi. Un modello di “concertazione democratica” che invoca sciocchezze
come la cancellazione del debito o il diritto all’insolvenza, che pretende
di suggerire la medicina al capitalismo morente. E ovvio che per molti, più o
meno consapevolmente, non sia una condizione condivisa. È uno spartiacque
profondo che si è materializzato violentemente nel corteo romano.
Non
sarà facile la ricomposizione politica di mondi che per il momento paiono molto
lontani.
È vero che l’imponente sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale dal
secondo dopoguerra per circa venti anni ha stimolato le contraddizioni
immanenti al modo di produzione capitalistico che, poi attanagliato dalla crisi
di sovrapproduzione e quindi dalla progressiva riduzione del saggio di
profitto, si è trovato del nuovo millennio in una fase estremamente intricata.
Tuttavia, se il capitale ed i suoi agenti attraverso il motore della
concorrenza e dello sfruttamento hanno adottato un comportamento
particolarmente aderente alle previsioni marxiane, è pur vero che l’insieme
della classe subalterna sembra ancora lontana dall’appuntamento con la storia,
faticando, proprio in virtù delle scarsa comprensione della natura sistemica ed
irrisolvibile della crisi, a sviluppare un coscienza in grado di esprimere il
suo enorme potenziale rivoluzionario. La rivolta mondiale di cui Roma,
nonostante tutto, ha costituito un passaggio significativo, pur unificando milioni
di individui intorno alla parola d’ordine “la crisi la paghi chi l’ha
provocata”, manca del passaggio successivo circa l’inevitabilità del
superamento necessariamente violento del sistema di produzione capitalistico.
La
giornata del 15 ottobre ci consegna un movimento di portata mondiale che
però sembra non distinguersi, almeno nella fase attuale sia nei contenuti che
nelle modalità di espressione dalle esperienze maturate negli ultimi 15 anni
che purtroppo vantano un curriculum disastroso proprio perché private di una
solida base teorica e di una struttura connessa in grado di permettere un vero
e proprio accumulo di forze che, in una fase come l'attuale, sembrerebbe quanto
mai non solo opportuno ma uno sbocco persino naturale…
20 ottobre 2011
(Stefano Sbolgi, detto «Birillo», milita nei Cobas di Firenze)
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