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giovedì 15 dicembre 2011

L'ISLAM «MODERATO»: MA CHE COS'È? (Mondo arabo in rivolta XXVI), di Pier Francesco Zarcone

Il "luogo comune"
In ogni ambito della vita umana il più insidioso, ricorrente e tenace nemico risponde al nome di "luogo comune". Per il fatto di esprimersi con le parole, esso rientra appieno nel famoso ammonimento di Nanni Moretti: «chi parla male, pensa anche male». Infatti il luogo comune fa davvero pensare male, poiché si sovrappone, si sostituisce del tutto alla realtà a cui si riferisce. Quando se ne forma uno, poi sono dolori per chi pretenda di voler vedere le cose in termini più effettivi. Non che il luogo comune impedisca le analisi oggettive, però ne rende i risultati non facilmente assimilabili dagli altri.
Il luogo comune oggetto del nostro esame è quello dell'Islam "moderato", che ormai si è conquistato un posto "indiscusso" nell'ideario dei mass media e – ahimè – dei politici (in buona o mala fede).
Innanzitutto c'è da chiarire a cosa effettivamente ci si riferisca con questa espressione, e capirlo non è difficile se si sgombera il campo dal concetto di Islam in quanto religione. "Moderato" è un aggettivo di relazione, implicante un giudizio di esistenza riguardo a due parti (di uno stesso insieme o di due realtà distinte): la moderata e l'estremista.

È corretto parlare di Islam?
Islam è un concetto astratto, con il quale evidentemente incontrarsi e dialogare è "alquanto arduo", giacché il Corano è qualcosa di statico con cui non si interloquisce. Semmai ci si incontra e si dialoga con le persone, che possono essere moderate o immoderate. Il fatto è che le religioni - in sé e per sé – sono quello che sono, e soltanto in un'ottica comparativa interreligiosa va applicato un giudizio di maggiore o minore rigidità. Prendiamo il fenomeno più affine all'islamismo a motivo della stessa matrice etno-culturale: l'ebraismo biblico. Anch'esso è quel che è; e anche nel suo testo sacro – come del resto nel Corano – è possibile trovare tutto e il contrario di tutto.
In entrambi i casi, però, intervengono le interpretazioni (cioè le persone che le creano o vi aderiscono) a definire storicamente le diverse correnti e/o sfumature teologiche alle quali possono essere attribuiti i giudizi di "estremista" oppure di "moderato". Questo fa sì che anche a livello concettuale nessuna religione sia monolitica. Il che vale anche per l'Islam, a parte magari il periodo della vita del profeta Muhāmmad, giacché dopo c'è stata la frammentazione nelle due sfere fondamentali del Sunnismo e dello Sciismo, a loro volta articolatesi in varie correnti e sottocorrenti, ciascuna con i suoi moderati ed estremisti.
Questo come premessa.
Poi, naturalmente, viene il problema di determinare in che consista – e se consista – nello specifico degli islamisti "moderati" siffatta componente umana, alquanto generica, poiché si prescinde dai diversi contesti di concreta appartenenza. Comunque sia, due categorie di musulmani "moderati" sono individuabili, ma già l'individuazione contiene i suoi limiti.

Gli islamici "moderati"
In primo luogo, poiché la valutazione di "moderato" proviene da noi occidentali – e quindi è determinata dalla nostra ottica, dai valori conquistati storicamente e faticosamente – la categoria dei musulmani "moderati" a rigore dovrebbe riguardare soltanto i musulmani semplicemente tali perché nati in una famiglia musulmana, o coloro che sul piano dottrinario effettuano un'interpretazione "elastica" del Corano e della Tradizione – in buona sostanza storicizzandoli. Entrambi sul piano politico accettano senza problemi (o vogliono) lo Stato laico. Quindi si tratta di persone che in concreto prendono la religione a piccole dosi, amano la libertà, possono essere o non essere maschilisti, in genere bevono alcolici tranquillamente (al pari dei sultani ottomani, si potrebbe dire, che oltretutto erano anche Califfi), alcuni addirittura mangiano maiale (di nascosto nei loro paesi) e comunque si identificano con lo slogan di certi giovani tunisini: «touche pas ma liberté». Ovviamente costoro non credono che il nuovo equivalga al male e guardano con giusto disdegno i barbuti salafiti che – illudendosi di restaurare il passato - vogliono instaurare un mondo islamico che storicamente non è mai esistito e hanno portato il cervello all'ammasso del primo Imām carismatico che hanno incontrato.
In buona sostanza si tratta di musulmani occidentalizzati, che non hanno difficoltà alcuna a concordare con quanto di recente dichiarato al quotidiano Le Parisien dalla ministra della Gioventù francese Jeannette Bougrab, di origine algerina. Essa ha affermato di non conoscere alcun islamismo moderato e che «l'uguaglianza non può avere una geometria variabile (…) lo Stato di diritto si misura soprattutto in rapporto ai diritti delle donne, e non accetto che una costituzione possa basarsi sulla sharī'ah, che è un sistema religioso fondamentalmente non egualitario. La democrazia non è un supermercato da cui si può prendere soltanto ciò che ci piace (…) non esiste la sharī'ah light. Il diritto fondato sulla sharī'ah è necessariamente una restrizione dei diritti e della libertà, specialmente della libertà di coscienza, perché l'apostasia è vietata e i matrimoni misti non sono riconosciuti».
Esistono anche i musulmani non laici in senso proprio, ma neppure radicali. Si tratta però di una categoria differente dalla prima: persone religiose che all'interno del Corano hanno compiuto delle scelte qualitative e di priorità, anch'esse elastiche e storicizzate, ma animate da un'adesione maggiore alla sfera religiosa. Ribadiamo, al riguardo, il variegato contenuto del Corano, in cui espressioni interpretabili alla maniera di bin Lādin coesistono con espressioni che stanno alla base della latitudine spirituale e aperta del Sufismo. Un bel film francese del 2008, ambientato in Tunisia, Il canto delle spose (regia di Karin Albou), lo evidenzia rappresentando una ragazza musulmana che il fidanzato sta indottrinando nel senso dell'odio mediante una scelta ad hoc di passi coranici, alla quale il padre (musulmano osservante) effettua una profilassi antitetica leggendole altri passaggi del Corano che vanno in senso completamente opposto.
"Moderati" di questo tipo non possono che fare piacere, ma non è per niente detto che possano diventare base sociale per l'impostazione propugnata dalla ministra Bougrab. Li si può considerare dei conservatori, con quanto di bene e di male ciò implica. Per costoro lo Stato laico dev'essere adeguatamente "digerito", e sarebbe arduo sostenere che essi (più o meno tolleranti) solleverebbero obiezioni contro la prospettiva di un'egemonia culturale islamica, con spazi variabilmente ristretti per gli "altri", salvo deprecare le violenze dei salafiti: non già in nome di una libertà di pensiero che è ancora patrimonio dei soli laici, bensì per un'esigenza di "moderazione" del tutto interna allo stesso Islam. Rispetto ai laici veri e propri costoro si trovano a dover affrontare (più o meno consapevolmente) un problema culturale di un certo peso: mentre i laici si sono costruiti un proprio retroterra culturale – composito, certo (ma questa non è necessariamente un'anomalia) – invece i musulmani "moderati" più osservanti – e non troppo sbilanciati verso la dimensione occidentalizzante – devono fare i conti con il fatto di avere come retroterra una tradizionale e istituzionalizzata cultura religiosa chiusasi in se stessa a seguito dell'incontro-sfida con la modernità introdotta e/o prospettata dall'Occidente.

Le specificità del "modello turco"
Il fatto è che il sorgere del concetto di Islam "moderato" è influenzato dal cosiddetto "modello turco", vale a dire la constatazione che l'avvento al potere del partito islamico Akp [Adalet ve Kalkınma Partisi (Partito per la giustizia e lo sviluppo)] per via elettorale non ha recato nocumento al funzionamento della democrazia rappresentativa. Va peraltro osservato che la situazione turca si trova ancora in una fase processuale non conclusa (e non finirà domani né dopodomani), aperta negli esiti. Inoltre essa va contestualizzata nel quadro della storia della Turchia contemporanea. Cominciamo da quest'ultimo aspetto.
Il successo del partito di Erdoğan - che tanto piace agli occidentali, a scapito delle forze laiche - nasce da più fattori, tra i quali la perdita di mordente dei partiti laici che dagli anni '20 del secolo scorso hanno governato la Repubblica turca, e il loro aver mancato nell'affrontare crisi economiche e politiche con forte corredo di violenze; la stanchezza per i colpi di stato militari e il protrarsi della questione curda senza soluzioni all'orizzonte; nonché una riscossa della cultura islamica e del passato ottomano, senza la quale l'identità turca (obiettivamente) si riduce a un mero fatto linguistico.
Ad ogni buon conto, lo stesso Erdoğan ha avuto modo di sottolineare il carattere di insulto alla religione musulmana insito nell'espressione "Islam moderato", esistendo (a suo dire) un unico Islam.
Orbene, non va trascurato un elemento fondamentale: il tanto decantato “modello turco” deve fare i conti con una buona metà della società turca plasmata dalla grande rivoluzione laica e modernizzatrice di Mustafa Kemal Atatürk che ha eliminato il califfato, sottoposto allo Stato la sfera religiosa, introdotto un codice civile modellato su quello svizzero, emancipato la donna (quanto meno sul piano legislativo), introdotto il divorzio, combattuto il velo, abolito l’alfabeto arabo (sacro, perché il Corano è scritto in arabo), introdotto il calendario occidentale, affidato alle Forze Armate la custodia della laicità dello Stato. Si tratta di quella parte della società turca che qualche hanno fa dette luogo a imponenti manifestazioni di massa all'insegna dello slogan “no alla sharī'ah”. E, per quanto spiacevole possa risultare, sul “modello turco” finora è stata pendente la prospettiva di un ennesimo intervento militare contro derive islamiche.
Una volta il generale turco Büyükanit, ex Capo di Stato Maggiore, dichiarò che «Non esiste l’Islam moderato. L’Islam è l’Islam, una religione come tutte le altre, che non deve restare ancorata nella coscienza dei singoli. Se appare in pubblico, confligge inevitabilmente con il destino laico della Turchia».
Ovviamente il generale Büyükanit ha centrato il problema, e sul finale si riprenderà questo concetto. Qui però va anche detto che questo militare difensore strenuo della laicità dello Stato e della società è forse stato l’ultimo Capo di Stato Maggiore kemalista doc, poiché di recente Erdoğan ha avviato un processo volto a contenere all’interno delle caserme il potere delle Forze Armate, cercando di evitare il bis di quanto accadde al partito precedessore dell'Akp – cioè il Refah, sciolto nel 1995 per il carattere eccessivamente marcato in senso islamico.
Ad ogni buon conto dietro l’espressione “modello turco” si cela in Turchia una netta spaccatura fra società islamica e società laica (forte soprattutto nelle grandi città, a cominciare da Istanbul e Izmir), visibile anche esteriormente appena si metta piede in Turchia. Mustafa Kemal inorridirebbe al vedere tante donne col fazzoletto islamico attorno alla testa (il volto resta scoperto), ma sorriderebbe beffardo per le ragazze che, pur fasciandosi la testa, indossano – a mo’ di seconda pelle – jeans strettissimi dall'innegabile effetto sexy.
Pur non amandosi più di tanto – laici e militari, da un lato, e islamici, dall’altro – per il momento abitano gli uni accanto agli altri, e la cosa è innegabilmente agevolata da una particolare coesistenza, nella componente islamica, fra Corano e business con l’Occidente, idonea a dare luogo a convergenze ben materiali. Che in Turchia esista un equilibrio forse altrove non ripetibile lo dimostrano due situazioni emblematiche: una è il persistere del controllo statale, attraverso il Dipartimento per gli Affari Religiosi, su quello che avviene nelle moschee e sulle attività degli Imām; l’altra è data dall'espulsione dalle scuole statali di insegnanti colpevoli di aver esposto la teoria dell’evoluzionismo.

Impossibile un cambiamento in sostanza della religione islamica?
In astratto si deve rispondere di “no”. Il problema riguarda, però, l’oggi per il tipo di sedimento storico realizzatosi per quanto concerne l’ambito culturale islamico. Ci spieghiamo meglio.
Le grandiose conquiste culturali delle società musulmane durante il nostro Medioevo non si spiegano se non alla luce del fatto che almeno fino ai secoli XI-XII della nostra era c’era stata una prevalenza delle interpretazioni coraniche meno restrittive. Poi, col determinante appoggio del potere politico, ci fu un netto cambio di rotta, emblematizzabile nella vittoria del teologo Abu Hamid al-Ghazali, assurto a “fonte autorevole” dell'Islam. La sua vittoria – con quel che vi era dietro – segna anche la fine della filosofia arabo-islamica nel mondo sunnita (in quello sciita il filosofare continuò, ma in stretta simbiosi con la religione e in dimensioni sempre più esoteriche). Talché, alla fin fine, un ibn Rūshd (Averroè) ha influenzato più il pensiero europeo che non la cultura delle società islamiche. I successivi avvenimenti storici hanno poi consolidato questa svolta.
A dire il vero nei paesi arabi più avanzati era in atto, fino ai primi degli anni ’50 del secolo scorso, un promettente processo di formazione di una classe media colta che avrebbe potuto fungere da punto di riferimento per una storica svolta culturale, attirando anche gli strati più popolari della società. Non sappiamo come sarebbe andata a finire poiché il processo è stato poi bloccato e invertito dagli eventi politici. E oggi questa classe media colta è solo un ricordo del passato. Senza di essa la cultura islamica resterà avvitata su se stessa. Tra il mondo dei ricchissimi, tanto orientati essenzialmente al profitto parassitario quanto incolti e privi d’interesse per le dinamiche culturali, e il mondo dei poverissimi, ovviamente concentrati sulla sopravvivenza quotidiana, c’è il deserto; c’è la mancanza di una classe che attraverso la cultura punti alla costruzione di un futuro diverso.
Quel che accade nei paesi islamici più ricchi (per pochi) dimostra che il “brodo di coltura” per gli estremisti non è dovuto solo alle situazioni socio/politico/economiche dei ceti “inferiori”: una parte importante la svolge la dimensione culturale che ingabbia le società musulmane. Se si tiene conto della grande forza di condizionamento/controllo esistente all'interno di queste società, allora tante cose si comprendono. E in primo luogo come e perché siano proprio le componenti religiose musulmane a non avere vita facile. Si pensi alla fazione degli Ahmadiya, portatrice di una posizione abbastanza aperta, bandita in molti Stati musulmani. E lasciamo stare i veri e propri eterodossi usciti dall'alveo islamico come i Baha’i, illegali nel luogo di origine, l’Iran. Né va dimenticata la sorte del teologo sudanese Mahmud Taha che, per non aver considerato di essere nato dopo il sec. XII, nel 1985 è stato giustiziato come apostata e i suoi seguaci sono stati perseguitati.

I partiti islamici: moderati in quanto
… in quanto non propugnano il ricorso diretto alla violenza. Questo è l’unico dato certo, al momento. Ne dà una conferma autorevole l’ex ministro dell’Istruzione della Tunisia Mohammed Charfi, il quale a chiare lettere ha detto: «Gli osservatori definiscono oggi moderato l’islamista che innanzi agli occidentali usa un linguaggio ragionevole e che non sceglie apertamente l’azione violenta».
In Egitto il partito della Fratellanza Musulmana ha sempre come motto il versetto 60 della sura VIII del Corano che dice: «E preparate contro di loro forze e cavalli quanto potete, per terrorizzare il nemico di Dio e vostro, e altri ancora, che voi non conoscete ma Dio conosce, e qualsiasi cosa avrete speso sulla via di Dio vi sarà ripagata e non vi sarà fatto torto».
Ai perplessi si potrebbe obiettare che il partito di Togliatti continuava a chiamarsi “comunista” anche quando ormai era socialdemocratico di destra: comunque fra non molto i fatti ci diranno come stanno veramente le cose.
Sta di fatto che dopo la vittoria islamica alle elezioni tunisine il quotidiano internazionale al-Hayat si è preoccupato. E in un editoriale dal significativo titolo “L’Occidente confisca le rivoluzioni a vantaggio degli islamisti” ha lanciato un atto di accusa: «Mentre l’Occidente parla della necessità di accettare il risultato del processo democratico che ha portato gli islamisti al potere nella regione araba, aumentano i dubbi circa le intenzioni dell’Occidente stesso che ha avviato una nuova politica volta a favorire lo sviluppo della corrente islamica indebolendo le correnti moderniste, laiche e liberali».
Ogni dubbio è fondato alla luce del democratismo europeo, se si guarda alle più recenti elaborazioni teoriche del tunisino Rachid Ghannouchi, vincitore delle citate elezioni, che illuminano su come il partito Nahda intende il suo Stato “democratico”. Il rischio della teocrazia non appare, però… resta il ruolo base della sharī'ah, con quel che ne consegue.

Il particolare “moderatismo” di Ghannouchi
Ghannouchi è un altro che si richiama al “modello turco”, ma il suo programma in Turchia porterebbe dritti dritti alla guerra civile: secondo lui «Lo Stato islamico è uno stato di diritto per eccellenza ovvero l’autorità della sharī'ah prevale su quella dello Stato»! Il quadro si completa attraverso un suo precedente libro del 1993 (Al-hurriyat al-‘amma fi al-dawla al-islamiyya, ovvero Le libertà generali nello Stato islamico) poiché, pur trattandosi di opera del passato estremista dell’autore, le sue posizioni attuali non sono antitetiche. E infatti, circa il ruolo del capo dello Stato si dice chiaramente che egli deve sviluppare la politica statale nei limiti dell’Islam, educare la nazione islamica secondo i precetti della religione, essere la guida nella preghiera e un esempio da imitare. Il che vuol dire che deve essere un buon musulmano praticante e si stretta osservanza.
Inoltre, quale spazio possa avere nella concezione di Ghannouchi la libertà di pensiero – senza la quale non si ha democrazia, nemmeno in senso borghese – lo rivela la sua posizione (che non risulta mutata) sull'apostasia, ovvero sull'abbandono dell'Islam da parte di un cittadino. Qui il nostro “candidamente” prende atto che una tale libera scelta è sanzionata dal Corano col castigo senza però stabilire le pene terrene; tuttavia egli si rifà alla tradizione islamica (quindi a un mero dato storico) che sceglie la pena di morte!

Le manovre dell'imperialismo statunitense
Equivale a sfondare una porta aperta il rimarcare il ruolo negativo dell’immischiarsi della politica estera degli Stati Uniti comunque e dovunque, al pari di quella di Londra negli anni d’oro dell’imperialismo britannico. Vale però la pena di soffermarsi su una caratteristica pressoché costante di questa vasta serie di interferenze: le azioni scarsamente logiche se viste nell'ottica del “buon padre di famiglia” sia pure familisticamente amorale, o dell’accorto stratega che mira a risultati stabili, se non necessariamente stabilizzanti. Il mondo arabo – ieri come oggi – ne è un esempio. La pertinente osservazione del giornale al-Hayat, già citata, coglie il punto finale di una politica di interferenze che ha portato all'avvento di una serie di dittature filo-occidentali, la cui durata peraltro non poteva che avere una scadenza, quand'anche aprioristicamente non determinabile. In vigenza di tali dittature nulla è stato fatto dall'esterno per rafforzare le componenti laiche in previsione degli inevitabili cambi di regime, giacché - e qui calza appieno l’osservazione del generale turco Büyükanit - solo se staccata dalle strutture di potere, o priva di esse, la religione è socialmente innocua.
Conclusione ovvia; eppure…
Quando poi dalle urne, dopo sommosse di segno laico, esce fuori – quasi facendo cucù – la vittoria dei partiti islamici (fino a poco prima fuorilegge per i despoti locali amici dell’Occidente) ecco che lo stesso imperialismo dà per buona la loro moderazione ed è pronto a fare lucrosi affari con essi. Allora la conclusione non può che essere una, molto “logica”, seppure di una logica perversa, e comunque in linea con la dinamica dello “spirito” capitalistico: non si tratta di interferire per stabilizzare, sia pure a proprio vantaggio, bensì – e in continuazione – di creare, o permettere, situazioni instabili, conflittuali, esplosive non solo potenzialmente, che consentano la riproduzione di processi, sempre lucrosi per l'economia e la finanza (innanzitutto statunitense), di intervento esterno/distruzione/ricostruzione. E così continuando.
Tutto il resto non può contare. In questo scenario, le componenti laiche delle società musulmane restano una nicchia innocua, a volte utilizzabile per la propaganda. Oggi come oggi i laici da soli non ce la fanno a motivo delle condizioni difficilissime in cui operano. Sono soli e soli restano. Per esempio è interessante (oltre che deprimente) constatare la rilevante entità di voti ricevuti dal partito di Ghannouchi tra gli immigrati tunisini in Francia: è il segno del persistere di mentalità non facilmente sradicabili. C'è solo da vedere se un minimo di “vaccinazione” non verrà proprio dai governi degli islamici vincitori, così come il regime iraniano ha involontariamente vaccinato tanti giovani. È pochissimo, ma che c'è di altro sullo scenario arabo?

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