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sabato 17 dicembre 2011

LE LEZIONI DELLA CRISI, di Michele Nobile

(intervento letto al Convegno-dibattito "Dentro la crisi del capitale", organizzato dalla Confederazione Cobas Firenze il 15 dic. 2011  e al quale hanno partecipato anche Guglielmo Carchedi, Domenico Moro e Roberto Massari)

Lezione 1.

Nell’autunno 2008 molti commentatori e politici di sinistra annunziarono la fine del cosiddetto neoliberismo. Si facevano così due errori, tra loro connessi. Il primo errore concerneva proprio la caratterizzazione dell’epoca, la stessa nozione di neoliberismo. Il secondo errore concerneva il rapporto tra crisi economica, sbocchi politici e radicalizzazione sociale.
Ora siamo nella fase in cui governi e padronato intendono effettivamente far pagare alla classe dei salariati i costi della crisi capitalistica e del salvataggio delle banche private. Con l’eccezione parziale della Grecia, questo accade senza che al momento si profili una risposta delle classi dominate europee all’altezza dell’attacco che ad esse viene portato.
La prima lezione è che non esiste alcun nesso meccanico tra crisi, anche crisi grave, e fuoriuscita dalla cosiddetta globalizzazione neoliberista; e non esiste neanche nessun nesso meccanico tra crisi e rilancio della lotta di classe.
Bisogna chiedersi perché.

Lezione 2.
La risposta alla prima questione è che la nozione di globalizzazione neoliberista è analiticamente errata e politicamente fuorviante. Non è vero che i poteri d’intervento economico degli Stati dei paesi a capitalismo avanzato siano in via d’obsolescenza o di drastico ridimensionamento. Gli Stati capitalistici hanno effettivamente dei limiti d’azione: ma non è vero che essi siano impotenti di fronte alla cosiddetta globalizzazione dei mercati finanziari e delle merci, o che ne siano vittime. Questa non è altro che l’idea liberale secondo la quale a «più mercato» corrisponde «meno Stato».
Al contrario, nonostante la marcata instabilità finanziaria, l’epoca cosiddetta «neoliberista» ha oramai una durata maggiore della cosiddetta «età d’oro» interventista e «keynesiana». Se le banche centrali e i governi dei paesi a capitalismo avanzato fossero stati impotenti a fronte dei «mercati globali», allora la «grande recessione» o una depressione sarebbe iniziata nel 1982, oppure nel 1987, o nel 1990, o nel 1992, oppure nel 1997 o nel 1998 o nel 2001.

Il fatto è che i rapporti strutturali tra la sfera economica e quella statale non sono più gli stessi dei primi anni Trenta del secolo scorso. È per questo che nel 2008 le economie dei maggiori paesi a capitalismo avanzato non sono entrate in una spirale depressiva simile a quella degli anni 1929-1933. Ed è per questa stessa ragione che non c’è nulla di simile a un New deal e che, al contrario, vengono rilanciate le ricette di politica economica e anti-sociale etichettabili come neoliberali.
Affermare che i poteri d’intervento degli Stati a capitalismo avanzato non siano affatto in via d’obsolescenza non significa dire che attuando una «saggia politica» la crisi non avrebbe avuto luogo. Non significa neanche escludere che essa non possa, infine, sfuggire ad ogni controllo e precipitare in una fase depressiva acuta e prolungata.

Quel che è cambiato rispetto alla «età d’oro» detta keynesiana sono gli obiettivi e gli strumenti dell’intervento economico degli Stati, non la loro capacità assoluta d’intervenire.
La seconda lezione è dunque che i poteri d’intervento economico e sociale degli Stati capitalistici non sono affatto ridotti ma, nel corso degli ultimi trenta anni, sono stati ridefiniti i termini e le priorità della politica economica e monetaria.
Le politiche statali sono state ridefinite in funzione della crescente concorrenza internazionale e degli squilibri mondiali tra un polo importatore, gli Stati Uniti, e i poli esportatori della Germania e del Giappone.
Le regole dei sistemi finanziari sono state ridefinite in modo da permettere il flusso finanziario dal resto del mondo in direzione degli Stati Uniti, indispensabile per mantenere l’attuale configurazione dell’economia mondiale.
I sistemi pensionistici nazionali e le normative regolanti le istituzioni finanziarie sono state riformulate in modo da massimizzare il drenaggio del risparmio dei lavoratori verso il mercato dei capitali.
In Europa le politiche di bilancio e la politica monetaria sono state sottoposte a nuove regole al fine di promuovere l’euro come moneta di riserva internazionale, a fianco ma ancora in posizione subordinata al dollaro. Sull’onda della crisi del debito estero dei cosiddetti «paesi in via di sviluppo» sono state abbattute le barriere all’esportazione di capitale e di merci in questi paesi, e poi realizzati investimenti dall’estero in occasione della privatizzazione di industrie e servizi statali.
Tutto questo sarebbe inconcepibile in assenza di un forte intervento degli Stati dominanti. Le istituzioni finanziarie private e l’innovazione endogena ai mercati finanziari certamente svolgono un grande ruolo. Ma sono le decisioni delle più importanti Banche centrali e gli accordi tra gli Stati dominanti che hanno scandito le grandi linee dell’internazionalizzazione del capitale monetario. L’unificazione monetaria di gran parte dei paesi europei ne è la dimostrazione macroscopica.

Lezione 3.
Guardando all’insieme delle politiche degli Stati a capitalismo avanzato, più che di neoliberismo sarebbe meglio parlare di neomercantilismo: cioè di un insieme di pratiche volte ad affermare la competitività delle esportazioni di merci e a rafforzare la capacità di penetrazione dei mercati esteri attraverso l’investimento diretto delle società multinazionali o transnazionali. Tutto ciò richiede, ovviamente, che i lavoratori siano del tutto sottomessi alla logica della competizione internazionale.
La terza lezione che bisognerebbe trarre dalla crisi è che le diverse politiche economiche di tipo neomercantilistico non sono semplicemente il frutto di un’egemonia politica e culturale della destra. Il neomercantilismo è, invece, l’espressione politica di una determinata evoluzione strutturale dell’economia mondiale capitalistica e dei rapporti di forza tra le classi su scala mondiale, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato. Con una metafora si potrebbe dire che il neomercantilismo praticato dai più potenti tra i paesi a capitalismo avanzato non sia altro che l’insieme dei processi fisiologici necessari alla sopravvivenza di un determinato organismo: l’economia mondiale capitalistica così come si è configurata dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
È questo che ne spiega la persistenza e il rilancio, pur durante la crisi.

Lezione 4.
Se quanto sopra è vero, allora bisogna anche abbandonare la nozione di globalizzazione. La tesi globalista secondo cui i prezzi e i livelli di sviluppo socioeconomico tenderebbero a convergere in unico mercato globale non è che la proiezione su scala planetaria dell’assunto liberistico di un mercato perfettamente concorrenziale in uno spazio economico omogeneo. Ovviamente, gli apologeti liberali della globalizzazione sostengono che in questo modo si fa l’interesse dei paesi più poveri, grazie a una migliore allocazione del capitale e ai trasferimenti di tecnologia; i critici del neoliberismo sosterranno, al contrario, che la convergenza sia al ribasso. Valutazioni opposte, visione del mondo simile.

Nella maggior parte dei casi la nozione di globalizzazione è impiegata presupponendo un’epoca nella quale l’economia mondiale capitalistica non era altro che la sommatoria di economie nazionali. Si tratta di una visione errata. L’economia mondiale capitalistica è da sempre qualcosa di più della semplice sommatoria delle economie nazionali: la dinamica dell’economia mondiale capitalistica è il risultato dell’insieme dei rapporti tra i diversi capitalismi in uno spazio socio-economico strutturalmente eterogeneo.
La quarta lezione da trarre dalla crisi è che occorre tornare a discutere in termini di sviluppo ineguale e combinato del capitalismo come rapporto sociale contraddittorio e come realtà mondiale di capitalismi in competizione. Il concetto di sviluppo ineguale e combinato comporta la trasformazione ma anche la riproduzione dei dislivelli nello sviluppo capitalistico, della produttività e delle condizioni di vita; comporta la trasformazione ma anche la riproduzione della struttura gerarchica del potere economico e della potenza politica e militare su scala mondiale.
In altri termini: occorre continuare a ragionare in termini di imperialismo (o tornare a farlo per chi avesse smesso).

Pensare che il capitalismo possa creare un’autentica società globale e un’umanità unita, significa fargli il più grande regalo ideale. Se così fosse, il capitalismo non avrebbe affatto esaurito la sua «missione storica» progressiva. 
Il neomercantilismo caratterizza anche i rapporti interni all’eurozona. Scomparse le valute nazionali e la possibilità di svalutare, il capitalismo tedesco è partito con un ovvio vantaggio in termini di competitività, rafforzato dalla stagnazione quasi ventennale dei salari dei lavoratori tedeschi. Ma anche i capitalismi e le caste politiche dei paesi oggi in crisi debitoria hanno tratto i loro vantaggi dai più bassi tassi d’interesse e dalla maggiore disponibilità di prestiti dall’estero. Il capitalismo non è in grado neanche di unificare realmente l’Europa. È però in grado di far pagare ai lavoratori europei il tentativo di fare dell’euro una moneta di riserva internazionale e il salvataggio delle banche private.

Lezione 5.
Lo spazio sociale costruito dall’espansione mondiale del capitalismo non è statico, dato una volta per tutte, come nelle prime teorie della dipendenza degli anni Sessanta. È strutturalmente eterogeneo e contraddittorio, ed è proprio questa eterogeneità che costituisce una delle fonti dei sovrapprofitti capitalistici e del dinamismo del capitalismo come sistema mondiale. Ma le ragioni del successo sono le stesse che creano nuove contraddizioni e crisi.

Nel periodo 1950-1973 i ritmi sostenuti dell’accumulazione di capitale nei paesi a capitalismo avanzato, specialmente in Europa e in Giappone, generarono la cosiddetta «età d’oro» dello sviluppo capitalistico. Vi contribuirono l’ampia disponibilità di forza lavoro, qualificata ma a basso costo; la diffusione delle innovazioni tecniche messe a punto durante la guerra; determinati rapporti tra banca e industria; le nuove forme d’intervento statale nell’economia che si erano delineate durante la depressione e la guerra. Per i capitalismi della Germania, del Giappone e anche dell’Italia, furono però le esportazioni a svolgere una funzione trainante, consentendo la forte crescita dell'investimento e delle economie di scala, che altrimenti sarebbero state limitate dal mercato interno.
In termini marxiani fu un periodo di alti profitti grazie ad una serie di circostanze concomitanti: alti tassi di plusvalore, dovuti alla sconfitta subìta dai lavoratori nell’immediato dopoguerra e non a un qualche «compromesso socialdemocratico»; la crescita del valore dell’investimento in capitale fisso era bilanciata dal basso prezzo delle materie prime e dell’energia, e compensata dalle economie di scala e dall’innovazione nella produzione di mezzi di produzione e di beni di consumo.
Fu un grande successo, ma fu proprio il successo che erose il predominio senza precedenti degli Stati Uniti. In effetti, perché il capitalismo mondiale potesse prosperare, il capitalismo statunitense doveva ridimensionare la propria posizione di assoluta preminenza; per motivi sia politici che economici, un’Europa e un Giappone prosperi erano necessari allo stesso capitalismo statunitense. Ma alla lunga questo portò al crollo del sistema monetario internazionale di Bretton Woods, al sistema dei cambi flessibili, al proliferare dell’innovazione finanziaria, innanzitutto per compensare il rischio di cambio. Lo sviluppo sempre più combinato, risultante dagli scambi commerciali e dall’esportazione di capitale, e la riduzione dell’iniziale forte diseguaglianza tra gli Stati Uniti e gli altri maggiori capitalismi, determinarono una condizione di sovrapproduzione e quindi l’intensificazione della concorrenza.

Se si guarda a quel barometro dello stato di salute del capitalismo che è il tasso di profitto, la maggior parte degli studiosi marxisti è concorde, fra altre discordie, sul fatto che il tasso di profitto à la Marx è tornato a crescere nel corso degli anni Ottanta fino a riprendere, nella seconda metà degli anni Novanta, il livello pre-crisi degli anni Settanta, pur rimanendo ben al disotto del picco massimo, che è il 1965 nel caso degli Usa e il 1960 o il 1970 per il Giappone. Il punto è che se il tasso di profitto è tornato a crescere, non è così per il tasso di accumulazione, specialmente in Europa e anche in Giappone, dove il tasso di profitto è crollato a partire dal 1990. I tassi medi di disoccupazione si sono raddoppiati, specialmente in Europa restando a lungo su livelli elevati. 
La nuova configurazione dell’economia mondiale emersa all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso è, in definitiva, una sorta di adattamento alla condizione di sovrapproduzione palesatasi sul finire degli anni Sessanta. È una condizione persistente perchè, a differenza degli anni Trenta, non ha avuto luogo una massiccia svalutazione o distruzione di capitale.
Questa configurazione del capitalismo mondiale non è il mero risultato di una presunta egemonia della finanza. Essa si radica nella contraddittorietà dei rapporti di produzione. Essa è stata voluta anche dal capitale produttivo, sia per la possibilità di intensificare lo sfruttamento dei lavoratori sul territorio nazionale, sia per la possibilità di penetrare i mercati esteri con le esportazioni di merci e di capitale. L’esportazione di capitale nella forma dell’investimento produttivo nei paesi a capitalismo avanzato, pari a circa l’80% degli investimenti diretti all’estero mondiali, ha per obiettivo la domanda interna nazionale e regionale; l'esportazione di capitale nei «paesi in via di sviluppo» o «emergenti» ha come obiettivi sia la domanda interna sia, e prevalentemente, l’utilizzo di forza lavoro a basso prezzo per le fasi meno qualificate del processo di lavoro a fini di esportazione, prevalentemente nei paesi a capitalismo avanzato.
Il cambiamento della gestione delle corporations del capitale produttivo in direzione della partecipazione a operazioni speculative, del riacquisto di azioni proprie e della gratificazione degli azionisti attraverso la crescita della quota dei dividendi sul profitto, certamente riduce la parte del profitto destinabile all’accumulazione. Ma questo può essere interpretato come un effetto delle limitate aspettative circa il rendimento dell’investimento produttivo. Quanto alle grandi banche, la riduzione della quota del reddito da interesse sui prestiti al capitale produttivo sul reddito totale e, viceversa, la quota crescente del reddito derivante dal credito al consumo, dai mutui, da commissioni per operazioni e consulenze finanziarie, sono fenomeni complementari al conseguimento dell’autofinanziamento delle corporations e possono pure avere la stessa radice. 

Il succo di questo ragionamento è che la crisi attuale non è solo e soprattutto la crisi di un tipo di politica economica ma è crisi derivante da una determinata configurazione strutturale del capitalismo. Nella crisi, che ha dimensioni mondiali e carattere generale, non siamo entrati solo a causa di una politica economica o monetaria errata o solo a causa dell’evoluzione delle pratiche speculative del settore finanziario. Queste sono cause prossime della crisi, il detonatore che l’hanno fatta esplodere.

In altri termini: una prima discriminante teorica e, implicitamente, politica, corre tra queste alternative: o s’interpreta la crisi come espressione di contraddizioni strutturali del capitalismo contemporaneo, oppure la s’interpreta come conseguenza di una determinata egemonia politica e ideologica «neoliberista».

Se questo è vero, allora la quinta lezione è che dalla crisi non si esce in forza della sola politica economica.

Lezione 6.
Direttamente conseguente da quanto prima e dalle più recenti decisioni di politica economica è la sesta lezione: una crisi capitalistica è sempre occasione per un nuovo assalto padronale e statale contro la classe dominata.
La soluzione capitalistica della crisi comporta la ristrutturazione del capitale, e fenomeni di centralizzazione dello stesso.
Ciò comporta necessariamente anche la svalorizzazione della forza lavoro, ovvero un tasso di disoccupazione che metta in ginocchio i lavoratori.
Sulla base della svalorizzarezione del capitale e della forza lavoro potrebbe essere possibile aumentare il tasso di sfruttamento (o di plusvalore) e il tasso di profitto. 
Non è però detto che tutto ciò sia anche condizione sufficiente per un periodo di lunga e sostenuta crescita economica (ovvero di alti tassi di accumulazione del capitale).

Lezione 7.
Se la crisi economica è sempre occasione di un attacco capitalistico ai lavoratori, non è vero l’inverso. Non è vero che dalla crisi economica scaturisca la radicalizzazione politica o uno sbocco politico a qualche titolo definibile «di sinistra».
Questo è tanto più vero nell’epoca attuale.
La settima lezione da trarre dalla storia di questi ultimi venti o trent’anni e dalle posizioni espresse in questa fase è che si è veramente conclusa, e conclusa nel peggiore dei modi, la vicenda dei partiti politici le cui radici un tempo risalivano al movimento operaio, fossero essi di matrice socialdemocratica oppure di matrice terzinternazionalistica o staliniana.
Se è vero che nei primissimi anni Ottanta l’iniziativa era in mano alla «nuova destra» thatcheriana e reaganiana, è anche vero che i partiti di matrice socialdemocratica non hanno semplicemente subìto il cosiddetto «neoliberismo». Essi lo hanno fatto proprio, differenziandosi solo marginalmente, tatticamente, per stile e retorica, e per il tipo di organizzazioni di supporto, dai partiti e dalle coalizioni di destra. La differenza maggiore risiede nella capacità dei partiti di centrosinistra o di «terza via» di neutralizzare i sindacati maggiori e di realizzare accordi neocorporativi concedendo solo briciole.
Personalmente ritengo che questa sia l’autentica e radicale discontinuità occorsa a cavallo degli anni Ottanta e Novanta rispetto ai decenni precedenti. È importante rendersi conto che questo non vale solo per i partiti socialdemocratici, che hanno reciso gli ultimi fili che li legavano alla tradizione del movimento operaio, ma anche per i partiti cosiddetti «comunisti» e le loro dirette derivazioni. L’Italia è il caso esemplare della degenerazione non solo politica, ma anche ideale ed etico-politica dei partiti di sinistra. E non è un caso, perché in Italia si trovavano il più grande e attrezzato partito comunista e la più grande e articolata estrema sinistra dell’«occidente» capitalistico. È da non credersi che formazioni politiche che continuano a dirsi «comuniste» (Prc, Pdci e ramificazioni varie…) dopo l’esperienza dell’ultimo governo Prodi possano essere ancora dirette da personaggi che sono stati ministri di un governo imperialistico oppure da un suo governatore regionale. Ed è francamente patetico, sintomo di un’ingenuità che è difficile capire in termini di razionalità politica, che ci si possa ancora stupire delle giravolte di questi personaggi.

Conclusione
In conclusione, vorrei svolgere alcune riflessioni sulla questione del metodo di elaborazione degli obiettivi con cui contrastare gli effetti della crisi dal punto di vista dei lavoratori e non della borghesia italiana.
Innanzitutto, il valore anticapitalistico di un obiettivo non è una sua qualità intrinseca. Qualsiasi conquista dei lavoratori può essere assorbita nella riproduzione del sistema, o neutralizzata o deformata o, infine, rovesciata al momento opportuno. Qualsiasi conquista dei lavoratori diversa dal rovesciamento del potere statale e padronale costituisce una riforma del sistema. La nazionalizzazione, ad esempio delle banche (anche senza indennizzo), può danneggiare gravemente una frazione della classe dominante, ma non costituisce certamente l’abbattimento del potere di questa classe nel suo insieme. Ovviamente, noi dobbiamo batterci per conquiste parziali e settoriali, ma senza elevare alcun obiettivo a feticcio anticapitalistico.

A fronte delle grandi questioni sociali e dei movimenti di massa, il criterio con il quale gli anticapitalisti dovrebbero formulare e valutare un obiettivo di lotta è quello della capacità dello stesso di rispondere ai bisogni da cui scaturiscono i movimenti e di  favorirne nello stesso tempo la crescita della coscienza politica in senso anticapitalistico. Se ci si ferma alla difesa degli interessi immediati di classe avremo un onesto sindacalismo e un onesto riformismo politico, quest’ultimo pressoché inesistente nei sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato. Ma se si prescinde dagli interessi immediati di classe allora non si avrà null’altro che la velleitaria rivendicazione propagandistica della rivoluzione o, peggio, la rivendicazione di un governo di sinistra od operaio in un’epoca in cui i partiti operai sono estinti. A mio parere, nei paesi a capitalismo avanzato i partiti operai novecenteschi non possono più risorgere: l’avanguardia politica deve trovare strade diverse da quelle postulate dal leninismo, dal tardoleninismo, dal trotskismo, dalla varia gruppettistica gerarchizzata.

L’effettivo valore anticapitalistico di un obiettivo risiede nel suo essere motivo di contrapposizione tra le classi, nella sua capacità di acutizzare tale contrasto: cioè nella dinamica di lotta e di autorganizzazione che esso mette in moto.

Non è difficile elaborare a tavolino una lista di obiettivi settoriali e parziali anticapitalistici. Questo, però, è solo un esercizio formale e di mera propaganda che vi risparmio.
I grandi movimenti sociali, come quelli che occorrerebbero in questo momento, esplodono, se esplodono, non per decisione dell’avanguardia politica ma in seguito a processi spontanei di radicalizzazione che si trasformano in lotta. Non a caso parlo di movimenti sociali e non di manifestazioni/corteo nazionali simboliche o dimostrative o più o meno spettacolari, che possono essere promosse e organizzate da partiti, associazioni o sindacati. Di queste manifestazioni ne vediamo periodicamente da anni e a volte con dimensioni enormi, ma non hanno portato ad alcun risultato concreto.
I grandi movimenti sociali in genere elaborano autonomamente le proprie parole d’ordine, i propri obiettivi parziali. Il compito dell’avanguardia politica e sindacale è radicalizzarli, chiarire la dinamica dello scontro, dissipare le illusioni. Tra questi compiti c’è anche quello di spiegare le sconfitte, di sedimentare l’esperienza, di creare le condizioni per cui non si ripetano gli stessi errori.

Tra le illusioni correnti c’è quella che si debba formulare un programma di politica economica alternativa, o sottoporre ad esame il debito sovrano per decidere cosa si debba pagare e cosa no, o addirittura uscire dall’eurosistema o, più modestamente, puntare su un qualche improbabile referendum.
Questo significa mettere il carro davanti ai buoi. Per operazioni del genere occorre avere già il potere politico oppure contare su un «governo amico» di triste memoria. Per inciso, noto che proposte di politica economica «alternativa» su scala nazionale sono in contraddizione con la tesi della «globalizzazione» e dell’obsolescenza delle capacità d’intervento economico degli Stati.
Mettersi poi a dare consigli alla borghesia su come risolvere la propria crisi e smussare le contraddizioni del sistema, o anche volerle imporre un qualche compromesso progressista, sociale ed ecologico tra capitale e lavoro è esattamente quel che non bisogna fare.

Non abbiamo bisogno di campagne d’opinione e neanche di manifestazioni-spettacolo. Non abbiamo bisogno di velleitarismi politicistici. Dobbiamo rifuggire dai surrogati referendari e istituzionali.
Tutto ciò costituisce un diversivo rispetto al compito prioritario e una sostituzione di ciò che non si può inventare ma che è il solo mezzo per iniziare ad aprire delle possibilità: lotte di massa su obiettivi determinati e specifici con l’obiettivo di non cessare il conflitto finché non si conseguono concretamente, in tutto o in parte.
Che possano confluire insieme in un movimento antigovernativo e antipadronale che concretizzi, settore per settore, situazione per situazione, l’indicazione politica centrale del momento:
NOI NON PAGHIAMO I COSTI SOCIALI DELLA CRISI E DEL DEBITO CONTRATTO DA PADRONI, BANCHE E GOVERNI.
E NON VOGLIAMO NEMMENO CHE PER NOI LO PAGHINO I LAVORATORI DI ALTRI PAESI.


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