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sabato 12 novembre 2011

ELEZIONI TUNISINE: «PRIMAVERA» ADDIO, di Pier Francesco Zarcone (Mondo Arabo in rivolta XXIV)

Dopo tanti articoli a commento della cosiddetta “primavera araba” è quasi obbligatorio scrivere sull’esito delle elezioni tunisine che avrebbero dovuto sancire l’ingresso di quel paese nell’area liberal/democratica, come sempre ci hanno detto i mass-media occidentali, contando sul fatto che la Tunisia in linea di massima è il paese arabo con maggiore tasso di laicità. Il risultato elettorale, tuttavia, ha dato al partito islamista en-Nahda una maggioranza relativa superiore al 40%! Figuriamoci cosa accadrà con le elezioni egiziane dove gli islamisti sono più forti che in Tunisia.

Cambia il vento
Dopo una massiccia rivolta popolare in Tunisia, con parole d’ordine totalmente laiche, ecco che un partito islamista (promosso alla qualificazione di “moderato” dai media) sostanzialmente vince le prime elezioni libere. Il primo segnale della mutata direzione del vento politico è dato dall’aumento in pubblico di teste femminili coperte.
Delusione nei più, qui da noi, e risolini a carico dei commentatori che troppo presto avevano proclamato un cambiamento oggi smentito dai fatti.  Ne esce meno pregiudicato chi aveva presentato i suoi commenti nell’ottica condizionante del “a parità di condizioni”.
Il risultato elettorale tunisino – è bene dirlo – non è necessariamente una sorpresa, almeno se si considerano le dinamiche dei “processi rivoluzionari” (in senso lato, poiché in Tunisia c’è stato solo un cambio di regime). Il fatto è che i soggetti attivi di questi processi sono sempre minoranze che hanno preliminarmente effettuato un certo e debito cambio di mentalità. Nelle maggioranze che restano a casa essi possono trovare gradi maggiori o minori di simpatia e/o solidarietà, o quanto meno indifferenza; ma – cosa importantissima – si tratta generalmente di maggioranze rimaste estranee al mutamento di mentalità avvenuto nei soggetti attivi dell’intervenuto processo rivoluzionario.

Criticità delle elezioni
Non è la prima volta (anche in aree non islamiche) che l’elettorato, dopo la caduta del vecchio regime, premi posizioni o più arretrate o addirittura conservatrici; magari non identificantesi pienamente con il vecchio regime, ma comunque espressive di orientamenti antitetici a quelli animatori di quanti si erano rivoltati.
Il rapporto fra rivolta vittoriosa e svolgimento del classico elettoralismo liberal/democratico è complesso e delicato. Partiamo dal fatto che sia il mero cambio violento di regime sia l’effettiva rivoluzione politico/sociale sono nell’immediato realtà deboli, ancora lungi dall’essere consolidate. Esse, quindi, si devono autoproteggere. Il problema sta nel “come”.
Senza addentrarci nell’arduo campo teorico/pratico della difesa delle rivoluzioni (in senso lato) tuttavia uno spunto è ricavabile proprio dagli assetti costituzionali borghesi: come qui esistono principî e norme non modificabili nemmeno con referendum – il farlo vorrebbe dire rompere con l’assetto costituzionale vigente – così dopo un cambio di regime, ovvero una rivoluzione, si dovrebbero porre all’elettorato dei “paletti programmatici” non valicabili. Naturalmente se si è in grado di farlo, Comunque una rivoluzione messa ai voti è inevitabilmente una rivoluzione perduta (ne sanno qualcosa i sandinisti del Nicaragua).
In Tunisia non è stato chiesto ai partiti presentatisi alle elezioni nessun impegno programmatico conforme allo spirito della rivolta popolare da cui gli islamisti era rimasti assenti. Ragion per cui resta forte il rischio dell’azione autoritario/dittatoriale da parte dei vincitori nelle urne; cioè la cosiddetta “democrazia totalitaria”.
Oggi la società tunisina appare spaccata a metà, fra due parti che culturalmente e ideologicamente hanno assai poco in comune. La vittoria degli islamisti è la vittoria di una forte componente della società tunisina non toccata dalla modernizzazione laicizzante, più subita che assimilata. D’altro canto in Europa la laicizzazione delle società e delle coscienze non solo è stata il frutto di vari secoli, ma durante quel lungo periodo di tempo sono intervenuti (e hanno vinto) fenomeni di trasformazione economica, sociale, politica, culturale e religiosa, in buona sostanza caratterizzata da una rilevante perdita di potere per le religioni organizzate e dalla riduzione del fatto religioso alla mera sfera privata. Nel mondo arabo (e musulmano in genere) fenomeni del genere non si sono ancora manifestati dal suo interno.
Per inciso, non va trascurato he altresì in Occidente sarebbe azzardato dare per acquisiti in eterno certi punti di arrivo: si pensi al fondamentalismo cristiano sviluppatosi nell’ambiente protestante degli Stati Uniti, i cui tratti morfologici sono senz’altro affini al fondamentalismo islamista. Inoltre, l’esperienza storica relativa ai paesi dell’ex “socialismo reale” mostra come e quanto sia difficile sovvertire e rendere inattuali i retaggi  di un passato plurisecolare, i quali riemergono e si coniugano con i nuovi assetti. Ragion per cui niente di nuovo sotto il sole.

Quale Islam “moderato”?
Il “caso Tunisia” offre lo spunto per considerazioni di fondo sul mondo islamico, e arabo in particolare. Si tratta di considerazioni con tutta probabilità suscettibili di valere ancora per molto tempo.
Innanzi tutto, quando si parla e straparla di Islam “moderato” – in contrapposizione a Salafiti e affini e alle loro pratiche omicide – si dimentica un aspetto importante, idoneo a rendere fallace il predetto attributo. Quand’anche “moderati” e Salafiti non siano la stessa cosa.
Tuttavia ... tuttavia. Questi pretesi “moderati” puntano a un obiettivo che si differenzia da quello dei Salafiti solo per il metodo (l’uso della prassi elettorale in luogo della violenza); e l’obiettivo è l’islamizzazione della società. Non è rischioso scommettere che in Tunisia i “moderati” punteranno ad avere il Ministero dell’Istruzione.
Se gli islamisti riusciranno a mettere in atto un processo di egemonia islamica socialmente condizionante, ecco che le realtà laiche della Tunisia – se non facessero un efficace “muro contro muro” (con tutti i rischi del caso) molto probabilmente si troverebbero a poter solo rendere testimonianza di sè, invece di poter sviluppare battaglie di trasformazione. Quanto meno per tutta la durata di una tale egemonia.
Nell’ultimo ventennio del secolo XIX l’egiziano Muhāmmad ‘Abduh teorizzò non solo la compatibilità fra Islam e ragione umana, ma altresì che riguardo alle norme della sharía nella loro applicazione non si può non tenere conto dell’avvenuto mutamento delle circostanze oggettive, e che questo non contrasta con la loro origine sacra.
Ma quelli erano altri tempi, e c’era una diversa situazione oggettiva, tant’è che ‘Abduh operò tranquillamente come Muftī d’Egitto.
Oggi una tale presa di posizione (dalle profonde implicazioni pratiche) trova ben pochi audaci pronti a sostenerla. Se costoro – pressocché tutti di cultura occidentalizzata, che separa politico e religioso – ne facessero una bandiera per le inerenti (e necessarie) trasformazioni diverrebbero presto e tragicamente dei “profeti disarmati”.
Il concetto di “Islam-liberale” è a tutt’oggi un ossimoro.
Allora dobbiamo dichiarare “perduto e ostile” il mondo arabo nella sua generalità e chiuderci a fortezza contro di esso?
Il teorizzato conflitto di civiltà obiettivamente esiste, ma soffermarsi su di esso non ci porta a nulla di costruttivo. C’è però da fare un altro discorso, al di là dell’appoggio alle forze arabe laiche. Nella nostra complicata equazione politica esiste pur sempre un’incognita, generalmente non tenuta in gran conto: il nesso dialettico fra le pessime condizioni socio/economiche di quei paesi e l’incapacità – innanzi tutto culturale – di farvi fronte da parte de barbuti sostenitori che il Corano abbia la soluzione per tutto. Le contraddizioni inevitabilmente verranno fuori, oltre tutton in un ambiente tutt’altro che tagliato fuori dall’uso dei mezzi di comunicazione. Il processo sarà non breve e anche doloroso, ma non è detto che non abbiano più nulla da dire e fare quei giovani che, dopo la vittoria islamista, sono scesi in piazza a rivendicare la propria libertà.

E infine parliamo di democrazia e Islam
Ovviamente parliamo di democrazia borghese, cioè rappresentativa basata sulla ritualità di elezioni periodiche.
Vari commentatori osservano che, da un punto di vista teorico, la storia dell’originaria comunità islamica – oltre al Corano e alla tradizione profetica – rivela che forme di partecipazione popolare alla gestione pubblica non sono, in astratto, antitetiche alla religione musulmana. Vero, ma a ben vedere proprio questa valutazione – se ben letta – rivela un fatto fondamentale nelle società islamiche: essendo fortemente egemonizzate dal fattore religioso ogni “cosa” deve in qualche modo risultare conforme al Corano, o almeno non contraria a esso. Considerando un detto attribuito al Profeta in cui si condannano le innovazioni, ecco qui l’elemento che per secoli – dopo un periodo di grande sviluppo, che fa parte della storia dell’umanità - ha bloccato il mondo islamico nello sterile sforzo di perpetuazione del passato; quanto meno fino al traumatico incontro/scontro con l’Occidente determinato dalla conquista napoleonica dell’Egitto ottomano.
Il superficialismo dei “politologi” occidentali si appaga quando si tengono elezioni formalmente libere, convinti che attraverso le urne ogni società possa pervenire alla creazione di una democrazia borghese analoga (o similare) all’Occidente. Essi dimenticano (o fanno finta di dimenticare) un aspetto essenziale: la democrazia borghese (indipendentemente dall’indice di gradimento riscuotibile presso ciascuno) ai fini del suo corretto funzionamento in base ai parametri essenziali non si esaurisce (o non dovrebbe esaurirsi) nella mera dinamica elettorale periodica. Essa implica una ben determinata mentalità, la cui assenza implica anomalie: condivisione dei principî costituzionali, normalità dell’alternanza al governo per le forze politiche in campo senza che la vittoria dell’una o dell’altra implichi rottura dell’ordine costituzionale, consapevolezza del valore della libertà di pensiero ed espressione e del fatto che il cittadino sia portatore di dirittidi fronte allo Stato e agli altri cittadini. Naturale conseguenza di ciò sono il (teorico) ripiegamento della religione nella sfera del privato nonché l’assenza di giudizio pubblico “di verità” su ciascuna di esse.
La situazione nel mondo islamico – per il grande condizionamento esercitato dalla religione (o, per meglio dire, dalle interpretazioni di essa ormai consolidatesi autoritativamente) – è opposta. Pensiamo solo a due aspetti: diritti umani e libertà di pensiero/espressione. Se si rifiuta l’azione interpretativa volta ad argomentare che i diritti umani sono ricavabili anche dal Corano, allora per una coscienza religiosa islamica non necessariamente salafita ci si trova di fronte a un’innovazione di cui diffidare, se non addirittura blasfema (ma per i Salafiti lo è).
Circa la libertà di pensiero/espressione la situazione diffusa è ancora più tragica. Non è casuale nel mondo islamico l’assenza di studi sul Corano equiparabili alla critica biblica fiorita in Europa negli ultimi due secoli: infatti per i liberi pensatori l’accusa di blasfemia o (peggio) di apostasia equivale a farne bersaglio del primo fanatico di turno.
Su queste basi, che democrazia è possibile?

Sia concessa infine una considerazione personale, brutta ma forse cinicamente realista, e di cui ci si assume ogni responsabilità. C’è un pesante dato di fatto nelle società islamiche: la diffusa religiosità che spesso colpisce l’oservatore esterno si riduce a massicce adesioni alle pratiche rituali con l'altrettanto massiccia noncuranza per stili di vita opinabili alla luce dello stesso Corano, ed è facile che il fanatismo religioso porti a comportamenti deliranti tipici di chi ha portato il cervello all'ammasso. Su questa base – e senza con questo volere assolvere i dittatori arabi e le loro pratiche sanguinarie - non stupisce l’evidente ritrosia dei governanti non islamisti a dare mano libera a un'elettorato che è quanto meno "particolare". La situazione è tale che c’è da chiedersi se era davvero condannabile quell’intervento dell’esercito che in Algeria si oppose alla vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza.

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