MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO E DELLA SCIENZA, PRESUNTI “SANTI” E CANONIZZAZIONI AD HOC
Il tormentato rapporto fra Chiesa cattolica e società civile, fra clero dogmatico e libero sviluppo della cultura si è sempre svolto “a tutto campo”. Oggi - a motivo della considerevole perdita di potere del Cattolicesimo in contesti in cui aveva davvero dominato, e con durezza – non è mutata la qualità del rapporto, bensì giocoforza le inerenti forme e modalità. La sfera delle canonizzazioni ha sempre rispecchiato tale situazione ed è illuminante per smascherare l’aspetto “buonista” di cui questa Chiesa ama ammantarsi.
In questa sede vengono presi in esame due sintomatici casi di canonizzazioni fra loro uniti dall’essere stati il coronamento formale di altrettanti successi del clero nella sua lotta contro la libertà di pensiero e la libera ricerca scientifica. Premettiamo a ciò, per completezza descrittiva, una valutazione critica sulla classificabilità delle persone proclamate “Sante” in rapporto alla loro degnità.
Santi e santità: non sempre c’è coincidenza
Nell’universo delle religioni umane l’importanza della santità e delle figure dei Santi è generale, insieme al fiorire attorno alle loro figure di ambienti in cui la spiritualità si mescola alla superstizione e agli interessi economici e commerciali, sovente determinandosi un intreccio inestricabile. In un documento dell’8 marzo 2000 (“La Chiesa e le colpe del passato”, par. 3, 4) la Commissione Teologica redattrice ha scritto trionfalisticamente che
«La Chiesa si riconosce esistenzialmente santa nei suoi Santi».
È una frase dalla forma tanto assertiva quanto infondata, poiché a motivo della realtà delle cose sarebbe stato meglio esprimere solo un auspicio. Ma che sarebbe la propaganda cattolica senza un po’ di trionfalismo? D’altro canto per i “fedeli” ciò funziona grazie alla diffusa ignoranza storica unita alla tendenza a non pensare con la propria testa.
In concreto lo studio biografico delle liste di quanti sono stati elevati ai fasti degli altari smentisce la predetta asserzione e fornisce spunti di interesse antropologico e politico, e porta a concludere che i Cristiani con aureola sono raggruppabili in almeno quattro categorie:
a) i meritevoli, giacché le loro vite corrispondono al comune sentire della parola “santità”;
b) le figure eticamente abominevoli, spesso di notevole spessore criminale e sovente altresì prive di vera spiritualità, ma storicamente “preziose” per l’opera svolta in favore del potere - anche e soprattutto temporale - dell’apparato ecclesiastico;
c) i personaggi alquanto dubbi, ma comunque diventati oggetto di devozione popolare, e quindi di quelle pulsioni di massa che sono fonte di forti introiti per la Chiesa mediante pellegrinaggi, donativi, traffici di reliquie, ex-voto ecc.;
d) e infine i Santi inventati, cioè mai esistiti se non nelle leggende ciecamente assimilate dalla massa ignorante dei fedeli (come S. Giorgio o Santa Filomena) e il cui valore non esula dall’allegoria.
A parte i meritevoli, come dicevamo, le canonizzazioni sono rivelatrici degli interessi politici dell’alta gerarchia ecclesiastica per il “bene comune della Chiesa” - termine il più delle volte da intendersi come sinonimo della nomenklatura ecclesiastica. Una delle pietre angolari di questo “bene comune” consiste notoriamente nell’assicurarsi il controllo culturale sulle società “cristiane” e l’egemonia (possibilmente assoluta) di quella che per i cattolici è la “Chiesa docente”.
I nemici culturali delle Chiese: filosofia, storia, scienze
Con finalità di questo tipo, tra i bersagli obbligati non potevano mancare le dissidenze teologiche se considerate eresie, le altre religioni, il libero pensiero storico e filosofico e ovviamente gli studi scientifici se condotti al di fuori dei limiti e vincoli imposti dai dogmi ecclesiastici.
Ciascuno dei predetti àmbiti della cultura umana presenta le proprie pericolosità e tutti appartengono allo stessa “fascia” (range) negativa. Non si creda infatti che l’àmbito filosofico sia il meno pericoloso per il fatto di essere storicamente dominato dal soggettivismo speculativo, talché ciascun filosofo presenta le proprie “certezze” poi immancabilmente confutate da altri, che perpetuano a loro volta il gioco. Infatti la filosofia (da cui il pensiero umano non può prescindere sol che si ponga domande su ciò che lo circonda e su se stesso) ha, per il potere ecclesiastico, la spiacevole caratteristica di abituare a pensare con autonomia e di fornire gli opportuni metodi per farlo. In più crea atmosfere culturali in linea di massima poco controllabili dai custodi del dogma.
Storia e scienza posseggono invece una maggiore “oggettività”, basandosi rispettivamente sullo studio di documenti ed eventi, ovvero di dati materiali e fenomeni inerenti; e qui la lotta si fa più dura. Certo, per nessuno di questi saperi esistono risultati non “falsificabili” (per usare la terminologia di Karl Popper); ma resta il fatto del loro minor grado di opinabilità rispetto al sapere filosofico, e quindi la maggiore difficolà per il censore ecclesiastico; e anche di pericolo, giacché i risultati degli studi storici e scientifici hanno (ovvero possono avere) determinati collegamenti/effetti con aspetti cruciali della dogmatica (a parte il discorso sull’esistenza di Dio che, al pari della sua inesistenza, non è suscettibile di essere dimostrata more geometrico).
Riguardo a questa sfera del sapere l’atteggiamento ecclesiastico cattolico - prima ancora di arrivare a delinearsi come negativo - tende a caratterizzarsi per l’estrema sospettosità. Tanto da far pensare, spesso e volentieri, alla sottostante e costante paura che possano venir fuori elementi tali da colpire credenze basilari della Fede. Ciò fa apparire poco “credenti” proprio i custodi del dogma. Ma tant’è....
Per quanto riguarda i materiali necessari agli studi storici, soprattutto la Chiesa cattolica vanta un plurimillenario impegno nella distruzione o alterazione di reperti e nel loro occultamento. A questo genere appartiene lo “scandalo” dei manoscritti del Mar Morto, scoperti per caso da alcuni beduini a Wadi Qumrān. La Chiesa ci mise le mani sopra e ne tenne nascosti i risultati fino a quando non ebbe appurato che non contenevano nulla di idoneo a confutare la narrazione cattolica sulle origini del Cristianesimo.
La lotta contro i liberi pensatori e i liberi studi scientifici ha sempre comportato minori marchigegni, ricorrendosi - ogni qual volta ne ricorrano le possibilità – alla pura e semplice persecuzione, in vari casi conclusasi con la morte dell’incauto filosofo o scienziato, o con la loro riduzione al silenzio.
Paradigmatici di ciò sono gli esempi di Ipazia di Alessandria, di Giordano Bruno e di Galileo Galilei. Nel primo di essi c’è stato un esito cruentissimo; lo stesso dicasi per il secondo esempio, ma non per il terzo solo grazie all’istinto di conservazione di Galileo; in tutti e tre i casi, tuttavia, ha fatto seguito la canonizzazione del rispettivo grande persecutore ecclesiastico. Il Patriarca alessandrino Cirillo per Ipazia; e il Cardinale Roberto Bellarmino per Giordano Bruno e Galileo.
Persecuzione di due filosofi, di uno scenziato e canonizzazione dei loro persecutori
Cirillo di Alessandria
Di recente Ratzinger ha dedicato parole di vivo apprezzamento alla memoria dell’antico Patriarca di Alessandria d’Egitto, Cirillo (375-444, poi santificato). Il personaggio è noto tra le persone dotate di una certa cultura essenzialmente per il ruolo di mandante - quanto meno morale - del massacro della filosofa Ipazia (370-415), da tutti considerata la prima martire del libero pensiero. L’episodio di Ipazia tuttavia non basta a tracciare un quadro completo della natura di Cirillo. Ancora più illuminante è stato il suo modo di comportarsi verso i “confratelli” cristiani di diverso orientamento - per quanto rispettabili e autorevoli - nel corso delle controversie cristologiche.
A capo del potente Patriarcato di Alessandria d’Egitto (rivale di Costantinopoli e Antiochia; all’epoca Roma contava poco), Cirillo fu un personaggio con cui dovettero fare i conti gli ebrei, i pagani e i cristiani portatori di concezioni teologiche difformi dalle sue. Ricordiamo il contesto dell’epoca: sostanzialmente estintesi le comunità giudeo-cristiane, una Chiesa di cultura ellenistica era alle prese con i processi di definizione della cristologia - cioè dell’arduo problema relativo a “chi” fosse Gesù e quale “natura” avesse - dopo la vittoria dei “trinitari” ai Concili di Nicea (325) e di Costantinopoli I (381). Processi di definizione aggravati dalla mancanza di un adeguato lessico teologico, formatosi infatti proprio nel corso delle controversie cristologiche.
In quella fase si produsse un ulteriore tradimento del messaggio di Gesù a opera del Cristianesimo storico: sul piano religioso, a un messaggio spirituale si sovrappose egemonicamente l’obbligo dell’adesione a determinate definizioni e concezioni teologiche a scapito di altre, con la conseguenza del prevalere del credere rispetto al fare e all’essere. Il risultato fu che gli apparati di indottrinamento cessarono di operare come strumenti, per diventare dei veri e propri fini, accompagnati inevitabilmente da apparati di controllo coercitivo.
La figura di Cirillo è interessante per capire come abbia agito il Cristianesimo trionfante dando luogo a una persecuzione religiosa e culturale ad ampio raggio. Si colpì innanzi tutto la cultura greca precristiana, anche con immani distruzioni di libri . In specie Cirillo disponeva - e faceva abbondante uso - di bande di fanatici squadristi religiosi (i “Parabolani”) specialisti nella pratica della violenza più efferata contro i loro avversari: la ricerca di un parallelo con i nostri giorni porta subito ai famigerati Talibani.
Il più cupo lato interiore di questo “santo uomo” si rivelò nell’episodio di Ipazia e nella subdola e implacabile persecuzione contro Nestorio (ca. 381-ca. 451), Patriarca di Costantinopoli.
È ai Parabolani (diffusori della fede sulla punta del bastone) che si deve l’atroce uccisione - nel marzo del 415 - in Alessandria di Ipazia, famosa matematica, astronoma e filosofa ellenista pagana. Non è chiaro se sia stato lo stesso Cirillo a dare l’ordine di farla a pezzi, ma sta di fatto - ed è significativo - che i suoi assassini pensarono a buon diritto di fare un favore a Cirillo, tanto prodigatosi con le sue prediche a infiammare gli animi contro Ipazia, per la sua duplice posizione di filosofa non-cristiana e di donna-filosofa, oltre tutto molto bella. Un gruppo di seguaci di Cirillo la sorprese mentre ritornava a casa, la tirò giù dalla lettiga e la trascinò nella chiesa costruita sul Cesarion dove venne uccisa in maniera bestiale: fu scorticata fino alle ossa, secondo alcune fonti con l’utilizzo di ostrakis (che può voler dire gusci di ostriche oppure tegole o cocci), le furono strappati gli occhi ancora viva e poi fu fatta a pezzi. I suoi miseri resti vennero portati in un luogo detto Cinarion, dove vennero bruciati. Un avversario di meno per Cirillo.
Contro Nestorio, Patriarca di Costantinopoli e vero santo uomo, Cirillo fu altrettanto spregevolmente prevaricatore. L’accusa da lui rivolta a Nestorio - avere sostenuto la sola umanità di Cristo - era del tutto falsa e frutto di propaganda fraudolenta, ma assolutamente efficace. Poiché all’epoca le controversie cristologiche erano l’occasione per l’esplodere dello scontento popolare e di dissapori etnici, l’imperatore Teodosio II (402-450), al fine di far cessare i tumulti in atto e per evitarne di nuovi, convocò il Concilio ecumenico per dirimere la controversia.
Cirillo, prima ancora che il Concilio si riunisse, arbitrariamente scagliò una serie di anatemi contro Nestorio e la scuola teologica antiochena di cui costui era esponente. In questo clima ormai avvelenato il Concilio si riunì nel 431 a Efeso, presso Smirne (l’odierna Izmir), diventando subito cassa di risonanza delle reciproche animosità: Cirillo e i vescovi egiziani suoi sostenitori si impegnarono al massimo per dare il peggio di sé. Vi si presentarono con l’atteggiamento di chi era convinto che il Concilio avesse il solo compito di ratificare i loro anatemi. Con un colpo di mano - favorito da una corruzione sparsa a man bassa - Cirillo fece aprire e svolgere i lavori il 21 giugno, quando ancora non erano arrivati in città i 50 vescovi favorevoli a Nestorio, fra i quali lo stesso Patriarca di Antiochia. Non erano ancora presenti nemmeno i vescovi occidentali. Addirittura Cirillo organizzò un suo “servizio d’ordine” per intimidire gli avversari. Naturalmente Nestorio, benché presente a Efeso, rifiutò di presentarsi innanzi a quel consesso da burla, considerandolo un tribunale contro di lui. Infatti il Concilio non deluse Cirillo e condannó Nestorio quale eretico.
Il 22 giugno arrivarono i vescovi orientali, guidati da Giovanni di Antiochia. Preso atto del colpo di mano effettuato ai loro danni, a propria volta condannarono Cirillo e i suoi. Il 10 luglio giunsero i vescovi occidentali, favorevoli a Cirillo, che confermarono la condanna di Nestorio. Cominciò un balletto di reciroche scomuniche, causa di veri e propri tafferugli e scontri per le strade della capitale bizantina. L’Imperatore, che da tutta la vicenda uscì, per così dire, “sconcertato”, fece arrestare sia Cirillo sia Nestorio nella speranza, così facendo, di obbligarli al compromesso. Ma invano. Cirillo fu poi liberato, mentre Nestorio, inutilmente difesosi dalle false accuse rivoltegli, subì l’esilio in un’oasi del deserto libico, dove morì. Cirillo invece riparò nel suo Egitto, da tempo centro di forti nazionalismi politici e religiosi.
In fondo Nestorio era destinato a perdere, e il colpo di mano di Cirillo al Concilio facilitò solo le cose. Quand’anche i sostenitori di Nestorio fossero arrivati a tempo, o Cirillo li avesse aspettati, l’ultima parola l’avrebbe poi voluta l’Imperatore, che avrebbe certamente agito in termini di realpolitik, dando un peso realistico al fatto che Cirillo e la sua teologia erano l’espressione di un Egitto in fermento per le spinte nazionalistiche e per la contrapposizione nei confronti della parte greca dell’Impero e della sua egemonia. Un’eventuale sconfitta teologica di Cirillo avrebbe avuto conseguenze politiche troppo pericolose. Su queste basi, Nestorio poteva essere “tranquillamente” sacrificato, perché di gran lunga meno pericoloso di Cirillo. Per la Chiesa nestoriana, nata dalla scissione, Nestorio è santo, ma per le altre no, a differenza di Cirillo.
Roberto Bellarmino
Il cardinale Roberto Francesco Romolo Bellarmino (1542-1621) è santo solo per i cattolici, i quali poco lo conoscono e quindi non se ne vergognano più di tanto. Egli svolse il ruolo di persecutore intellettuale contro Giordano Bruno e Galileo Galilei. In quest’ultimo caso la mancanza spargimento di sangue non ne rende meno efferata e spregevole l’azione: basti pensare che il suo obiettivo (sia per Bruno sia per Galileo) fu d’ impedire il libero funzionamento del cervello della controparte. Così hanno sempre fatto e fanno i tiranni, ma l’operato di Bellarmino risulta ancora più negativo per il fatto che teologicamente egli aderiva alla tesi secondo cui risiede nelle facoltà intellettive il segno dell’immagine e somiglianza di Dio nell’essere umano e dell’umana superiorità rispetto al resto del creato.
Bellarmino può essere considerato un vero persecutore seppure non abbia eseguito gli incarichi con particolare cattiveria o acrimonia. Può anzi definirsi ancora più raggelante la sua freddezza da burocrate, che scava consapevolmente per accertare fino a che punto e dove sia stato varcato il confine dell’eterodossia, e con finta ma accattivante bonomia invita all’abiura ponendo come unica alternativa le estreme conseguenze di una condanna. Per questo in molte sue biografie il lettore disattento può ricavare la falsa impressione che egli non fosse in malafede. In realtà lo era eccome, in quanto strumento votato alla subordinazione del pensiero e della ricerca scientifica a un credo religioso particolare.
a) Contro Giordano Bruno
Nell’ambito della lunga istruttoria contro Bruno (iniziata nel 1593) Bellarmino intervenne solo nel 1597 quale Consultore del Santo Uffizio. Si potrebbe dire: verso la conclusione del procedimento; ma il suo ruolo fu determinante, seppure non partecipò alla seduta in cui Bruno venne sottoposto a tortura. Quale serio accusatore professionale (ruolo che svolse con estrema e implacabile puntigliosità) il suo tristo compito consisteva nell’individuare e/o mettere a punto le proposizioni filosofiche dell’inquisito suscettibili di eresia e su cui veniva richiesta l’abiura per evitare il rogo.
Un aspetto particolarmente perfido dell’incarico svolto da Bellarmino riguardava il fatto che le fondamentali tesi filosofiche di Bruno solo da poco erano ricadute nella sfera di dogmi di fede formulati in tempi recenti; di modo che egli avrebbe potuto giustificarle allegando la mancanza di norme di ortodossia nel momento in cui furono scritte (cioè a dire, se Bruno era eretico lo era solo ex post).
Ma questa scappatoia non fu consentita: da Bruno si voleva (e Bellarmino in particolare lo voleva) una resa totale mediante un’abiura ex nunc, chiestagli il 15 febbraio del 1599.
Nei suoi colloqui col filosofo Bellarmino fece di tutto per farlo abiurare, con la motivazione di fargli così evitare le “intuibili” conseguenze di un’ostinazione teoretica (conseguenze contro le quali Bellarmino nulla aveva da obiettare). L’attegiamento può anche sembrare molto umano, ma la realtà è diversa: Bellarmino, non avendo specifici rancori personali verso Bruno, conosceva bene quale sarebbe stata la portata di una sua eventuale vittoria concretizzatasi in un’abiura totale, e ben sapeva che a quel punto Bruno ne sarebbe uscito disttrutto, talché gli si sarebbe potuto anche risparmiare una vita ormai intellettualmente paralizzata.
Ma le cose andarono diversamente: su alcune proposizioni Bruno finì col cedere, ma su altre due non espresse una posizione chiara, tanto che Bellarmino rappresentò al Santo Uffizio l’opportunità di un’approfondimento. Tutto finì perché Bruno a un certo punto ritirò ogni sua precedente abiura e venne bruciato vivo in Campo de’ Fiori.
b) Contro Galileo
Sul problema astronomico dell’eliocentrismo Galileo Galilei subì due processi da parte del tribunale ecclesiastico: nel 1616 e nel 1633. Ovviamente Bellarmino fu estraneo al secondo processo.
Prima dell’inizio della controversia giudiziale Galilei e Bellarmino erano in ottimi rapporti personali, anche se potrebbe essere esagerato parlare di amicizia. Difatti già nel 1611 il nostro cardinale aveva interpellato i professori di matematica del Collegio Romano circa i recenti studi atronomici riguardanti la superficie scabra della luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove, la forma di Saturno e la composizione della Via Lattea. La risposta era stata favorevole a Galileo, ma la cosa non finì lì. Nello stesso anno il Santo Uffizio, in una seduta a cui era presente Bellarmino, deliberò di accertare se nel processo intentato a Cesare Cremonini (1550-1631), filosofo dello Studio di Padova, fosse implicato anche Galileo, che ne era amico e collega. Bellarmino fu favorevole, poiché lo impensierivano le implicazioni filosofiche e teologiche degli studi galileiani. Reduce dal processo a Bruno, la scoperta di un numero infinito di stelle non poteva che rievocargli la tesi bruniana degli infiniti mondi.
Qualche anno dopo Bellarmino si sarebbe in teressato ancora di più - e non per diletto personale - al “pericolo atronomico”: nel 1616 fu protagonista del procedimento che decretò la sospensione del De revolutionibus (1543) di Copernico (1473-1543) e un’ammonizione di Galileo. Infatti, l’anno precedente padre Antonio Foscarini (1580-1616) aveva inviato la galileiana Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico della mobilità della terra e stabilità del sole e del nuovo pittagorico sistema del mondo in copia a Bellarmino per un parere. Egli fu risoluto nel sostenere che l’opinione di Copernico potesse essere considerata solo come pura ipotesi matematica, ma laddove la si fosse voluta considerare “vera in natura”, avrebbe potuto
«nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante»[1].
Sempre nel 1616, su richiesta del Papa, aveva incontrato Galileo per ammonirlo a non insistere sulle sue tesi, e svolse esemplarmente l’incarico senza aiutare nel merito lo scienziato al di lá del suggerire di presentare come ipotesi teorica l’eliocentrismo. Ma la minaccia delle conseguenze cruente era sempre sullo sfondo. Così l’“amico” Bellarmino ebbe a scrivere intimidatoriamente
«Pertanto invitiamo l’uomo Galilei Galileo ad abbandonare l’opinione che [...] il sole sia nel centro del mondo e immobile e la terra si muova e di non tenerla, insegnarla o difenderla con parola o con gli scritti, in qualsiasi modo, d’ora in poi; in caso contrario si procederà contro di lui nel Sant’Uffizio».
[1] Così egli scrisse al Foscarini:
«mi par che vostra paternità et il signor Galileo facciano prudentemente contentarsi di parlare ex supositione e non assolutamente come io ho sempre creduto che abbia fatto il Copernico. Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole stia fermo, si salvano tutte le apparenze meglio che comporre eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno e questo basta al matematico: ma voler affermare che realmente il Sole stia al centro del mondo, e non si rivolti in se stesso senza correre dell’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e teologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante».