No, basta. Il referendum sulle politiche del governo lo facciamo con la lotta di massa e l'antiparlamento dei movimenti sociali
La sinistra italiana ci ha da lungo tempo abituato a campagne per referendum suicidi, per lo più in funzione della costituzione di un bacino d’opinione per le prossime elezioni. C’è però qualcosa di comico nel fatto che, appena un abile rappresentante della borghesia come George Papandreou avanza in modo del tutto demagogico la possibilità di un referendum sulle misure di politica economica, subito l’idea venga rilanciata in Italia.
Che la demagogica ed effimera trovata di Papandreou abbia fatto traballare i «mercati» per un giorno non è affatto sufficiente a dimostrarne la valenza democratica: in questo momento d’incertezza basta lo starnuto di un potente per avere effetti simili o maggiori. Quel che Papandreou ha tentato è un estremo tentativo di salvare il proprio governo a fronte di una protesta massiccia e suscettibile di radicalizzazione, la cui acme è stata raggiunta proprio il 28 ottobre, anniversario dell’attacco fascista alla Grecia. Si è trattato di un gesto disperato per salvare quel che resta di una storia politica famigliare ultradecennale, un azzardo forse tentato nella speranza di poter portare a casa qualcosa dalla riunione di Cannes, l’estremo e debolissimo tentativo di far fronte alle accuse d’aver «svenduto» la Grecia.
Tutto questo considerato, è risibile che l’iniziativa del capo di un vasto e ultracorrotto apparato clientelare partitico e statale venga presentata come forma di lotta democratica e di difesa della sovranità nazionale. (Tra gli altri lo ha fatto Rossana Rossanda sul Manifesto.) Poco ci manca che, dopo aver simpatizzato per la guerriglia urbana contro il governo Papandreou, almeno per una giornata si passi a cantare le lodi dello stesso «compagno» Papandreou, ritrovato paladino della democrazia e della sovranità contro l’oligarchia finanziaria.
Ma quel che più conta è che, con una nutrita e combattiva schiera di scioperi generali, i lavoratori e il popolo greco hanno già urlato al mondo intero un NO! chiaro e tondo alle draconiane misure necessarie a ripagare il debito contratto dalla cleptocratica casta politica nazionale e a «nazionalizzare» il salvataggio delle banche estere. Il referendum non sarebbe stato altro che un furbo tentativo di incanalare le lotte su un percorso nel quale avrebbero perso mordente, neutralizzandone le potenzialità di radicalizzazione.
Quella che, astratta dal contesto, appare come un’iniziativa formalmente democratica era, nella situazione concreta, una mossa contro il progredire del movimento sociale.
Nella prima fase della crisi, contravvenendo alle vulgate ideologiche del sedicente «liberismo» e al suo complemento di sinistra del «pensiero unico» (secondo il quale i poteri d’intervento economico degli Stati sarebbero radicalmente ridotti dall’economia cosiddetta «globale»), i governi sono riusciti a fermare la spirale catastrofica dell’economia e a «socializzare» le perdite dei sistemi finanziari. Adesso è subentrata la seconda fase, nella quale i costi «socializzati» del salvataggio vanno fatti pagare ai lavoratori. Anche al prezzo di far cadere ulteriormente la domanda effettiva e di aggravare la crisi. A tavolino non appare cosa razionale; ma dove sta scritto che il capitalismo e lo sfruttamento di una classe su un’altra siano fatti razionali? La risoluzione capitalistica della crisi richiede la ristrutturazione produttiva e dello Stato: e questo comporta, sia come effetto conseguente sia come strumento di disciplina sociale, più elevati tassi di disoccupazione. Riproducendo e generando nuovi squilibri e contraddizioni: è così che il capitalismo si sviluppa ed estende e approfondisce il processo di mercificazione generale, a onta dei tentativi di regolarlo dall’alto e delle illusioni di modellargli sopra un «volto umano».
Da sempre, per il padronato e la casta politica, una crisi economica è innanzitutto occasione per portare un nuovo e durissimo attacco ai lavoratori, facendo leva sulla disoccupazione e la minaccia dei licenziamenti.
L’assetto delle istituzioni nazionali ed europee risultante in futuro dai ripetuti interventi economici potrà ben essere diverso da quello pre-crisi. Di questo si può discettare quanto si vuole, ma qualunque assetto futuro del capitalismo e degli Stati capitalistici, anche uno più esplicitamente «mercantilistico» di quello attuale, «deglobalizzato» più regolato, non può che passare attraverso un’intensificazione dello sfruttamento e l’approfondimento del disarmo politico e sindacale dei salariati. Ciò avviene innanzitutto sul terreno immediato dei rapporti di potere di classe e nei posti di lavoro.
Ciò di cui abbiamo necessità è un lavoro politico di ricostruzione della capacità d’azione combattiva, sindacale e politica dei salariati, e dei movimenti degli studenti, del movimento delle donne, degli ambientalisti. Abbiamo bisogno di lotte dure e determinate su obiettivi determinati e specifici. Abbiamo bisogno di vittorie parziali che restituiscano speranza e diano slancio ad altre lotte, che facciano maturare esperienze e coscienza, che da una situazione di mera difesa, per lo più disperata, possano portare a un cambiamento, se non a un ribaltamento dei rapporti di forza. Ma questo può darsi solo incidendo sui rapporti di forza effettivi nei luoghi di lavoro e di studio, attraverso la mobilitazione e lo scontro sociale capillare, non mediante campagne d’opinione, iniziative referendarie e manifestazioni-spettacolo.
Tra una campagna d’opinione o una scadenza elettorale, da una parte, e la lotta sociale, dall’altra, c’è una differenza qualitativa. Le prime non producono effetti concreti nei rapporti di potere. La scontro diretto tra forze sociali opposte, al contrario, modifica immediatamente i rapporti di potere, in un senso o nell’altro. Ma da molti anni a questa parte pare che la sinistra italiana tenda a scambiare le manifestazioni-spettacolo con la lotta sociale, a confondere il conteggio dei manifestanti - tranquillamente moltiplicato per un fattore minimo di cinque (ricordate la «manifestazione del milione», di pressione sul governo imperialista «amico» di Prodi, il 20 ottobre 2007, cui parteciparono realmente circa centocinquantamila persone?), con la valutazione dei rapporti di forza tra le classi sociali.
Un referendum su questioni direttamente pertinenti ai rapporti socioeconomici tra le classi è il terreno più favorevole al padronato e alla casta politica. Questo bisognerà che la ex sinistra e la ex estrema sinistra italiana lo capiscano prima o poi, smettendola di proporre referendum destinati a perdere o a restare privi di effetti pratici. È stato già dimostrato dall’esperienza ultrafallimentare dei referendum del 1985 (promosso dal Pci, aveva come obiettivo il recupero dei punti di contingenza della scala mobile) e del 2003 (per l’estensione a tutti i lavoratori del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati senza giusta causa), da noi definito «referendum a perdere» nel libro sui Forchettoni rossi perché tale doveva essere nei piani di Bertinotti che, infatti, a urne ancora aperte iniziò l’operazione di riavvicinamento al centrosinistra. Nel 1985 – dove in termini matematici ci si sarebbe dovuti attendere la vittoria - i voti contrari all’abrogazione della norma furono il 57% (sui voti validi), provocando una sconfitta epocale dei lavoratori italiani. Non solo: il no vinse in Piemonte, con la stessa media nazionale, e in Lombardia addirittura con il 61%. Il dato politico fu la sconfitta netta proprio nelle regioni che, presumibilmente, sarebbero dovute stare in testa alla «riscossa operaia». Nel 2003 andò a votare solo il 25% dei cittadini, una sconfitta annunciata, ma resta il fatto che per molti anni delle aziende con meno di 15 dipendenti non si è potuto nemmeno parlare. Ora se ne riparla, ma solo per peggiorare la loro situazione. Resta il fatto che i responsabili di quella sconfitta sono ancora tutti più o meno ai loro posti, tranne i 110 Forchettoni rossi parlamentari che furono rimandati a casa dal loro elettorato alla prima occasione utile.
Una campagna referendaria è ora l’esatto contrario di ciò di cui abbiamo bisogno. Sarebbe una distrazione, un diversivo rispetto alla costruzione paziente e faticosa di movimenti di lotta, anche se per ora solo di resistenza nei confronti dell’attacco del nemico di classe, che conseguano vittorie reali. Proporre un referendum sulle misure del governo è un surrogato, peggio che inutile, dannoso, rispetto al fine di costruire ciò che ancora non esiste e di cui c’è assoluta necessità: un’ampia mobilitazione sociale, capillare e non simbolica, non d’opinione, non di cortei spettacolari ed episodici, non di assemblee-tribuna come passerelle per i futuri candidati alle elezioni, ma che incida almeno parzialmente, anche un minimo, anche l’unghia di un minimo sui rapporti di potere tra le classi. Quell’unghia sarebbe un punto di partenza più utile del nulla attuale, per quanto spettacolare e “numeroso” esso sia. Non è una strada facile, né veloce, ma è l’unica che possiamo percorrere senza finire in un fondo cieco.
Il quadro è complicato:
a) dalla fine programmatica, ideale ed etico-politica, benché non necessariamente elettorale, dei partiti storici del movimento operaio. Questi partiti sono, compresi gli ex «comunisti» (ovvero gli ex stalinisti, ex togliattiani, ex gorbacioviani, ex ingraiani), completamente integrati nel sistema capitalistico. Essi non sono più suscettibili d’essere influenzati dalla mobilitazione di massa, neanche in direzione di misure riformatrici di redistribuzione del reddito o d’attacco alla rendita finanziaria. Non ha più senso parlare di «fronte unico» o di governo dei partiti operai o di sinistra, come se fossimo negli anni Trenta o Sessanta, neanche nei termini che, al tempo, erano quelli corretti cioè puramente tattici, volti a smascherare l’opportunistica ambiguità di quei partiti. In effetti, non ha neanche più senso partecipare alle elezioni, stante il livello raggiunto dalla spettacolarizzazione politica, dalla corruzione individuale e dallo svuotamento interno (non banalmente autoritario o «fascista», ma in persistenza di un quadro liberale – altro elemento importante che continua a non essere capito), dell’istituto parlamentare.
Anche i partiti post o neo «comunisti» o sopravvivono agendo in funzione delle elezioni e di un accordo con i partiti di centrosinistra o di «terza via», oppure sono residuati settari ancorati a una tradizione di nostalgismo stalinista. È il caso del Kke in Grecia che, negli anni cruciali durante i quali Papandreou-padre costruiva la sua duratura rete di potere clientelare, alternava schizofrenicamente l’appoggio agli scioperi a quello al governo, a seconda dell’atteggiamento di Papandreou-padre nei confronti dell’Unione Sovietica. Oggi il Kke è paragonabile al Pc francese nella sua veste più ortodossa e settaria, combinante «internazionalismo» stalinista e xenofobia antiamericana. In Italia è chiaro che i partiti ex-Pci (Sel, Prc, Pdci e spezzoni minori) non puntano ad altro che a rientrare in Parlamento e a stabilire un qualche accordo con il centrosinistra (Sel lo ha già fatto). Se quest’ambizione possa realizzarsi è da vedersi; quel che è sicuro è che il gioco dipende essenzialmente dalle resistenze interne al centrosinistra, certamente non dai desideri delle direzioni dei partiti ex-Pci e dalla loro ossatura di funzionari in cerca della sicurezza del proprio posto di lavoro...
b) L’altra complicazione è costituita dalla possibilità di contrapporre i lavoratori-cittadini di un paese a quelli di un altro, attraverso l’argomento dei costi fiscali sopportati dai paesi «virtuosi» per «salvare gli spendaccioni». La crisi europea richiederebbe un coordinamento continentale di lotte o almeno, per iniziare, dell’avanguardia politica di queste lotte, e questo manca, al di là delle manifestazioni in occasione dei summit o di scadenze che restano isolati momenti di propaganda.
Non ho la presunzione di presentare una lista di obiettivi rivendicativi e politici. Scrivere tale lista (in Utopia rossa la chiamiamo “lista della spesa”) in termini generali e stando comodamente seduti è facile. Opporre al taglio dei salari la scala mobile o ai licenziamenti la diminuzione dell’orario di lavoro è un’ovvietà, dal punto di vista di un movimento anticapitalistico. E si può continuare a lungo sulla stessa strada, prescrivendo al mondo quel che è giusto e radicale. C’è già, comunque, chi lo fa periodicamente e con il tono delle grandi scoperte.
Ma la questione cruciale è che obiettivi di lotta, effettivamente operativi, possono concretamente definirsi solo nel contesto di un movimento reale e specifico, in rapporto a quel che è possibile nei rapporti di forza dati e necessario per soddisfare determinate necessità sociali, favorire la presa di coscienza anticapitalistica e la convergenza dei movimenti sociali. Conta non l’ampiezza o la meticolosità nell’elaborazione della «lista della spesa», ma chiarire la logica nella quale ci si muove ed entro la quale si vanno poi a definire obiettivi di lotta.
Questi devono essere strumenti coerenti con il fine della liberazione sociale attraverso l’azione e l’autorganizzazione dei movimenti sociali. A questo proposito, ad esempio, nella prospettiva di un ribaltamento dei rapporti di forza reali tra le classi, è assolutamente negativo concepire un quadro di rivendicazioni consistenti in consigli alla borghesia su come amministrare nel modo «economicamente» più efficiente e più umano il sistema capitalistico: la stampa della ex estrema sinistra in questi giorni è piena di simili “consigli” da parte di “consiglieri” in buona o malafede che ragionano come se fossero loro a gestire l’economia dell’Italia o addirittura dell’Europa. Ma il piccolo dettaglio non trascurabile è che loro non contano niente, mentre la borghesia agisce come classe sia sua scala nazionale sia internazionale e che qualsiasi misura di ordine economico sarà presa da lei direttamente o con il suo consenso.
È quindi sbagliato e politicamente antisociale orientarsi verso la formulazione di un programma di politica economica alternativa o di misure d’ingegneria istituzionale e di gestione finanziaria nello stato attuale dei rapporti di forza. L’adozione di tali fantapolitiche misure presuppone, tra l’altro, che possa crearsi un governo che tali misure effettivamente implementi: insomma, mettendosi al posto della borghesia o di chi governa, si sragiona come se a breve o media scadenza fosse possibile strappare il potere alle caste politiche. Al momento si tratta di una pretesa assurda e fuorviante, per la quale non esistono i presupposti.
La nausea nei confronti della casta politica espressa recentemente dagli «indignati» è un sentimento più che legittimo sul quale e per il quale impegnarsi, ma che non si ripercuote immediatamente nei rapporti di forza reali o in una controffensiva dei salariati e delle altre categorie sociali. Non siamo in presenza di un’ondata di scioperi e di occupazioni, di movimenti che blocchino la produzione o l’amministrazione politica, che pongano la questione del potere reale nei diversi contesti. Non siamo neanche in presenza di una situazione in cui siano generalizzate lotte di categoria o locali capaci di reale resistenza ai processi di ristrutturazione. È a queste lotte, invece, che innanzitutto occorre puntare e solo dentro queste lotte si può sviluppare la coscienza anticapitalistica del mondo del lavoro mentale e materiale, dei giovani ribelli, delle donne in lotta per la loro liberazione, degli immigrati, delle comunità locali mobilitate in difesa del proprio territorio. Ancora una volta, un referendum non solo non è lo strumento adeguato a realizzare questo fine, ma ne rappresenta un ostacolo per il suo carattere diversivo, il rinvio nel tempo, il carattere istituzionalizzatore, il confronto necessariamente perdente con la società dello spettacolo. È un mezzo che allontana la mobilitazione dal basso, che provoca spreco di tempo ed energie, e porta con sé il rischio elevatissimo di giungere a una sconfitta senza nemmeno aver combattuto. Ma soprattutto, il connotato negativo decisivo e più importante è nel fatto che alimenta l’illusione che attraverso il meccanismo istituzionale (la mera conta dei voti anonimi e senza caratterizzazione sociale) si possano cambiare o influenzare i rapporti di potere nella società.
Resta l’esigenza di una qualche forma di concentrazione politica degli sforzi, per dare al poco che si muove un obiettivo politicamente unificante.
In parte questo già esiste: il rifiuto di pagare i costi sociali del debito contratto da governi, padroni e banche, intendendo con ciò la più dura opposizione alle misure d’austerità. Questo comporta l’opposizione ferma a qualsiasi governo, di centrodestra come di centrosinistra, ma anche la decisione di non partecipare più al gioco elettorale, vale a dire alla formazione di un parlamento in cui si possano ingabbiare le lotte sociali e i movimenti attraverso il meccanismo della corruzione delle loro rappresentanze.
Decidere di dare come sbocco politico delle lotte la caduta dei governi, di tutti i governi, non è cosa da poco. È dirimente all’interno della stessa ex estrema sinistra. Ma è anche l'obiettivo intorno al quale si possono costruire dei veri movimenti sociali, l’obiettivo che dà concreta espressione all’indignazione nei confronti della casta politica e che la radicalizza in senso anticapitalistico e antistituzionale. Se a qualcuno tale prospettiva pare eccessiva, rispondo che è ben più realistica dell’attesa di una qualche spontanea «fine del neoliberismo» in forza della crisi economica, o della speranza in un governo che nazionalizzi il sistema finanziario, si assuma il compito di datore di lavoro d’ultima istanza, redistribuisca il reddito a favore dei salariati.
Se si vuole essere coerentemente anticapitalisti, se si vuole esprimere fino in fondo lo sdegno e il disgusto per la casta politica e se la si vuol delegittimare in modo radicale e irrevocabile, se si vuol far pesare anche sul piano delle istituzioni il rigetto delle misure antisociali, allora occorre come minimo il rifiuto di votare per le complementari coalizioni di centrodestra e di centrosinistra dell’imperialismo italiano. Occorre rifiutarsi di partecipare alle elezioni politiche, visto lo svuotamento dell’istituto parlamentare e il degrado programmatico ed etico del sistema dei partiti.
Cosa di positivo si può contrapporre alle caste politiche? A un livello al momento ancora propagandistico - ma che pure è più realistico delle false prospettive istituzionali - si può pensare a un Antiparlamento dei movimenti, a una struttura fuori del Parlamento tradizionale che sia luogo di coordinamento, di discussione e di deliberazione dei movimenti sociali. Dove però siano discriminanti l'autonomia rispetto alle scelte del capitale italiano, il rifiuto di far pagare ai lavoratori di altri paesi il costo della crisi italiana , il rifiuto di partecipare alle elezioni per il Parlamento dello Stato capitalistico e il funzionamento sulla base della democrazia diretta fondata sull’auto-organizzazione dei movimenti.
Riguardo a quest'ultimo punto, il fatto che alcune componenti della ex estrema sinistra italiana (Rete dei comunisti, Rifondazione, Pdci e gruppetti vari) non abbiano fatto i conti con l'orrore dello stalinismo e rivendichino come «socialista» l'esperienza dell'Unione Sovietica e della Cina, deve renderci ultrapessimisti sulla possibilità di riuscire a praticare la democrazia diretta, perlomeno finché queste sigle continueranno a esistere, ad avere influenza e a inquinare il mondo dell’anticapitalismo. Sul terreno della democrazia diretta occorrerà mantenere una costante vigilanza e un atteggiamento intransigente e di principio (“il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi deve essere riflessa l’essenza del fine”). Si tenga conto, comunque, che questa sinistra tardostalinista che ci ritroviamo solo in Italia con dimensioni così grandi, non è un'invenzione recente, bensì l'eredità di un mezzo secolo di lotte fallimentari.
Ed è proprio per costoro che rientra nella normalità continuare a proporre referendum fallimentari pur di rafforzare l’apparato, a farsi carico dei problemi della propria borghesia, a far leva sul nazionalismo populistico per difendere la sovranità del «proprio Stato» imperialistico e la «propria economia» capitalistica, ad agitare bandiere nazionalistiche impedendo l’adozione di una visione internazionalistica dei problemi e la ricerca di comuni soluzioni internazionali, a violare sistematicamente i princìpi elementari della democrazia diretta.
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