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mercoledì 23 novembre 2011

A PROPOSITO DELL’ARTICOLO DI PIERO BERNOCCHI "SULLA CRISI", di Michele Nobile

(21/11/2011)

Sia pur di misura, la casta politica italiana è infine giunta al giudizio da tempo condiviso dalla stampa e dai governi esteri, nonché dal capitale internazionale: quella di Berlusconi non è la «squadra» di governo né la coalizione politica più adatta a far pagare la crisi ai lavoratori italiani. È questo certamente il significato dell’allargarsi del differenziale dei tassi d’interesse tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi. Ma non si tratta di un’imposizione «dello straniero»: a ben vedere a questa conclusione era giunto anche il padronato italiano. Con ciò dovrebbero andare a farsi benedire le farneticazioni subìte per anni circa l’esistenza di uno specifico «regime berlusconiano». Dovrebbe, ma non sarà così, perché se i militanti della sinistra italiana accettano di farsi dirigere da ex ministri di governi imperialistici o da governatori regionali, figurarsi se sono in grado di chiedere conto delle bufale con cui sono stati nutriti e illusi per anni e anni.
Mentre la crisi si estendeva dall’economia al campo della gestione politico-istituzionale, la sinistra «antagonista» o d’opposizione italiana ha dato libero corso alla propria fantasia per elaborare «soluzioni alternative», già discusse criticamente in questo blog. Un elemento comune, espressione dello stato pietoso, non solo politico ma anche intellettuale di questa sinistra, è la mancanza di autocritica su categorie e nozioni ambigue o fuorvianti, ampiamente impiegate per circa venti anni, e la persistenza del metodo dell’invenzione di frasi ad effetto in sostituzione di un’analisi seria delle tendenze dell’economia mondiale e, specialmente, dei rapporti tra politica, Stati ed economia.
Aspetti decisamente nefasti di questa situazione sono l’esplicitarsi di pulsioni nazionalistiche e «antieuropeistiche» e di atteggiamenti ambigui, possibilisti, di «aspettativa» o di «delusione» nei confronti del governo Monti, come se fosse possibile avere anche il più piccolo dubbio sulla natura dell’operazione iniziata con questo tecnocrate. Il tutto accompagnato dal rullare di tamburi che annuncia il «colpo di Stato», l’atto «contro la Costituzione», la «presa del potere delle banche» e cose simili.
In questo quadro di povertà politica e intellettuale spicca positivamente un recente articolo diPiero Bernocchi, storico dirigente dei Cobas, apparso sul giornale omonimo («Sulla crisi», nel  n. 49, ott./nov. 2011). In obiettiva convergenza con le posizioni da noi esposte nel blog di Utopia rossa, nell’articolo di Bernocchi si discutono gli errori analitici e politici prevalenti nella sinistra che si vuole anticapitalistica.
Ne ripercorro lo svolgimento.


1) Innanzitutto, Bernocchi contesta il «mito dell’esaurimento degli Stati», ovvero il mito del venir meno delle capacità d’intervento politico ed economico anche degli Stati meglio armati e dei capitalismi più avanzati. Com’è noto, questa è nozione assai comune nel movimento no-global ed è un pilastro dei discorsi che impiegano coerentemente la nozione di «globalizzazione».
Giustamente nell’articolo si critica l’utilizzo di dati totali circa il valore dei titoli finanziari e derivati a confronto della «massa monetaria» controllata dagli Stati (direi da intendersi come riserve delle banche centrali e/o come volume della spesa pubblica) per dimostrare l’esaurirsi delle loro capacità d’intervento.
In effetti, in forza della loro istantanea mobilità, il volume delle transazioni dei titoli finanziari a breve termine e dei prodotti derivati si presta a «provare» la «globalizzazione dei mercati». Ma questa nozione non è altro che l’estensione su scala planetaria del modello teorico ortodosso del mercato perfettamente concorrenziale, nel quale l’immobilizzo del capitale produttivo in sostanza non esiste, lo spazio è omogeneo e aperto, i prezzi convergenti (così come i livelli di sviluppo socioeconomico). Tutto il discorso sulla «globalizzazione» va però a rotoli se si guarda anche ad altri indicatori finanziari ed economici: ai rapporti tra l’investimento e il risparmio interno; alla persistenza di differenziali tra i tassi d’interesse reali; al ruolo decisivo degli accordi tra i governi degli Stati a capitalismo avanzato, e agli effetti delle decisioni (e delle non-decisioni) delle loro autorità monetarie, nell’orientare l’evoluzione delle istituzioni e delle pratiche finanziarie private; oppure se si guarda a come si distribuiscono gli investimenti diretti all’estero (gli ide, effettuati dalle società transnazionali non-finanziarie, comportano l’immobilizzo del capitale) tra i paesi a capitalismo avanzato e quelli «in via di sviluppo», e quale sia la distribuzione degli ide interna a quest’ultimo gruppo.
Bernocchi mette a nudo il significato politico del «mito dell’esaurimento degli Stati». Dicendo:
esso «induce un senso di frustrazione a livello popolare, lasciando capire (malgrado l’Argentina e la Russia ieri e l’Islanda oggi ci abbiano dimostrato abbondantemente il contrario) che nel confronto-scontro con tali mega-capitali la sconfitta è assicurata, chiunque gestisca lo Stato: e che dunque non vale manco la pena di porsi il problema di toglierlo di mano  alla borghesia di Stato e privata».
Ricordiamo che alcuni anni fa, in Italia, le direzioni di Rifondazione e soci, mentre ululavano contro la «globalizzazione neoliberista» (dittico due volte sbagliato) e si atteggiavano a portavoce istituzionali del movimento no-global, preparavano l’accordo col centrosinistra e il ritorno sulle poltrone e sui predellini dello Stato imperialistico italiano.
Infine, noto che:

a) le proposte di «politica economica alternativa», in particolare quelle che presuppongono di «uscire dall’euro», sono in contraddizione con la tesi della «globalizzazione» e dell’esaurimento, più o meno tendenziale, delle capacità d’intervento economico degli Stati;

b) che è precisamente l’intervento economico degli Stati che ha impedito il precipitare della più grave recessione del dopoguerra in una depressione del tipo degli anni Trenta. S’intende che con questo non si vuole affatto dire che una depressione sia divenuta impossibile: semplicemente, l’articolazione tra Stati ed economia mondiale e il «peso» degli Stati nelle economie «nazionali» sono ora molto diversi che all’inizio degli anni Trenta, abbastanza da rendere più difficile il ripetersi della catastrofe.

2) Bernocchi contesta, ancora una volta a ragione, l’idea del «”governo unico delle banche” che richiama alla mente il Sim, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, su cui erano fissate le Brigate Rosse, ma anche quel “governo unico delle multinazionali”, organizzato tramite Fmi, Wto e Banca Mondiale, che per tanti nostri amici no-global (prima della guerra all’Afghanistan e poi all’Iraq) sarebbe andato cancellando i poteri degli Stati e dei governi, costruendo un surreale Impero pacificato che avrebbe posto fine a guerre e conflitti interstatali di marca ottocentesca e novecentesca».
Egli nota che i funzionari del Fmi, della Banca mondiale, della Banca centrale europea, ecc., sono nominati dagli Stati e che «non solo per l’Italia, va messo in discussione il vero carattere privato delle banche principali, nel senso di istituzioni davvero indipendenti e addirittura alternative e dominanti rispetto al potere statale dei gestori del capitale nazionale “pubblico”».
Aggiungo che questa trovata del «governo unico delle banche»:

a) rimanda a una visione complottistica della Storia che, per anni e coerentemente con l’idea dell’obsolescenza delle capacità d’intervento dei governi, si è espressa con l’enfasi eccessiva posta su Davos, la Trilaterale, think tanks della «nuova destra» ecc.;

b) comporta un’estrema semplificazione dei rapporti tra capitale produttivo di plusvalore (in termini marxiani; ma più generalmente si può intendere l’intero settore privato non-finanziario) e le istituzioni che gestiscono il finanziamento del capitale e il capitale monetario.
Il risultato politico può essere la contrapposizione tra il «buon» capitale produttivo e il «cattivo» capitale «bancario». Naturalmente la sinistra progressista e nazionale sta con il «buon» capitale produttivo, specialmente se quello «cattivo» è pure «collaborazionista dell’invasore».

c) Il «governo unico delle banche» sembra alludere a un qualche capitale «unico»: e quale sarebbe? In quali meandri telematici o in quali segreti corridoi si nasconde questo capitale «unico»? Le discordie tra i membri dell’eurosistema e tra questi e gli Stati Uniti dovrebbero chiarire che non esiste un «capitale unico», né su scala mondiale né su scala europea né un Impero unificato. Tra le classi dominanti e i governi esistono convergenze d’interessi e preoccupazioni comuni, ma anche contrasti e difesa del proprio «particolare» capitalismo. Tutti allegri avventurieri «globalisti» i capitalisti, quando il vento è in poppa, e tutti che tornano a piangere dalla mamma statal-nazionale quando la crisi esplode!
Sulla visione complottistica della storia si rimanda alle schede di psicopatologia politica elaborate da Utopia rossa nel corso degli anni.

3) Un punto di notevole interesse politico dell’articolo, in opposizione all’idea che il personale politico nazionale non sia altro che un «passacarte delle banche e dei gruppi finanziari internazionali», è la tesi secondo cui «il tessuto politico-istituzionale in realtà pervade tutto il paese come un fittissimo reticolo che non lascia scampo o libertà quasi ad alcuna struttura sociale pubblica». Secondo Bernocchi sarebbero 2,5-3 milioni gli individui che traggono reddito dall’attività politica a tutti i livelli, fino a imprese «municipalizzate, aziende pubbliche o semipubbliche, o private con presenza statale, comunale, regionale o provinciale». Il che, tradotto in membri di nuclei famigliari, significa che al contributo economico derivante dall’attività politica sarebbero interessati circa 10 milioni di persone. Un’insieme che sostanzia l’osmosi tra capitale pubblico e privato e, specialmente, può essere una delle cause della «quasi incredibile passività di massa degli ultimi tre anni in Italia, a parte limitate e lodevoli lotte».

Nell’articolo di Bernocchi non ci sono note né riferimenti alle fonti, per cui i dati non sono immediatamente controllabili. Non ci sono dubbi però sul carattere di massa della rete istituzionale: basi pensare ai 200-300 membri delle circoscrizioni per ciascuna grande città.
A questo aggiungo che il mito della «partecipazione» istituzionale ha avuto effetti particolarmente devastanti sulla sinistra italiana, sia di estrazione Pci che «gruppettara», sia in termini di distorsione elettoralistica e statalistica della prospettiva politica sia in termini di corruzione personale. Di questo mito continuano ad alimentarsi Rifondazione, Pdci, Verdi e gruppetti e grupponi vari che gli fanno da contorno. Il mito «partecipazionistico» si esprime ora nella forma più alta nella «difesa della Costituzione»: che non è la difesa dei diritti democratici costituzionalizzati (e con ciò anche limitati entro il quadro del parlamentarismo liberale che presuppone un’economia capitalistica), ma proprio la difesa della Costituzione borghese di uno Stato imperialistico (che viene calpestata ad ogni piè sospinto dalle stesse istituzioni preposte alla difesa di quella Costituzione: un serpente che si mangia la coda…).
Un aspetto importante di questo punto dell’articolo di Bernocchi è la stretta connessione segnalata tra capitalismo privato e Stato, su tutte le scale.

4) Il punto debole dell’articolo è, a mio parere, la parte dedicata alla spiegazione della crisi economica. Bernocchi riconduce la crisi all’esaurirsi della possibilità da parte dei capitalismi più avanzati di poter «saccheggiare le ricchezze del restante mondo senza trovare ostacoli», il cui reciproco sarebbe, nell’ultimo decennio, un «processo inarrestabile di autonomizzazione, recupero delle proprie ricchezze e della gestione del capitale “pubblico” statale da parte di un numero rilevante di paesi»: indica la Cina, l’India, il Sudafrica, la Russia, i due terzi dell’America Latina. Il boom del debito privato e la bolla speculativa negli Usa e in altri paesi a capitalismo avanzato sarebbero stati reazioni compensative a questo processo, finite come sappiamo. 
Discutere decentemente questo punto richiederebbe troppo spazio ed esula dall’interesse principale dell’articolo, che è essenzialmente politico. Noto, ma proprio en passant, che:

a) la spiegazione della crisi attuale deve rendere conto non solo delle sue cause congiunturali o sulla base della specifica dinamica speculativa del sistema finanziario statunitense e di altri paesi a partire dal 2001, ma anche e specialmente dell’evoluzione della macroeconomia mondiale a partire dal crollo del sistema di Bretton Woods. Tra il modo in cui si spiega la crisi e l’orizzonte temporale entro cui ci si colloca esiste una relazione: più il secondo è stretto, più la spiegazione verterà sulla speculazione finanziaria.

b) Una spiegazione basata sul saccheggio delle risorse dei paesi «periferici» o neocoloniali presuppone una visione stagnazionista del capitalismo. Questo è sempre pericoloso, ma è lo è specialmente in un’epoca in cui il capitalismo ha riconquistato l’intera Europa centrale e orientale, la parte più dinamica dell’economia cinese (ma per molti, forse i più, l’intera Cina) e del Vietnam, si appresta a riconquistare Cuba, se sarà portata fino in fondo la linea emersa recentemente. Questo ovviamente implica anche la penetrazione, più o meno importante, da parte del capitale dei paesi imperialistici.

c) Il ruolo della Cina è certamente un fenomeno di grande rilievo ma, forse proprio in forza della sua novità, sovente è ingigantito oltre misura, come già accadde per il Giappone negli anni Ottanta. A maggior ragione ciò vale anche per gli altri paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina). «A buon intenditor poche parole», o una singola serie parziale di dati significativi: nel 2009 la somma del valore degli stock degli investimenti diretti all’estero (ide) di tutti i citati paesi Bric (circa 711 milioni di dollari) era inferiore allo stock della sola Olanda (circa 850 milioni di dollari), era meno della metà dello stock della Francia, poco più della metà dello stock del capitale tedesco, un sesto dello stock degli Usa. Lo stock degli ide provenienti dalla Cina è la metà di quello dell’Italia, 1/19° di quello Usa; viceversa, lo stock degli ide dall’estero in Cina è il doppio dello stock degli ide in uscita dalla Cina, a loro volta concentrati in paesi sottosviluppati. Nello stesso 2009 l’89% dello stock degli ide si collocava entro i paesi a capitalismo avanzato: alla faccia della «globalizzazione» (tutti i dati sugli ide sono tratti dal World Investment Report 2010, Unctad, annesso statistico, table 2, FDI stock, by region and economy, 1990, 2000, 2009).
Bernocchi cerca una causa della crisi nella configurazione strutturale dell’economia mondiale, e questo è metodologicamente giusto. Ritengo però che la causa vada cercata innanzitutto nella storia delle trasformazioni dei rapporti interni (politiche economiche e sociali incluse) e dei rapporti competitivi dei capitalismi avanzati (Stati Uniti, Giappone, Germania), una storia che non è affatto spiegabile in termini di «neoliberismo» (e su questo mi pare che si torni a concordare); ciò vale anche per le contraddizioni generate dal «neomercantilismo» del capitalismo tedesco nel quadro dei vincoli conseguenti dall’unione monetaria.

d) L’America latina è in questo momento il continente dove più importanti e vive sono le reazioni al capitalismo. È però molto dubbio che su scala mondiale il «saccheggio» delle risorse sia stato sostanzialmente ridotto; ci sono, piuttosto, segni che indicano il contrario. Inoltre, se le esportazioni dai paesi di nuova industrializzazione creano problemi in determinati settori e aree, non bisogna dimenticare né che il capitalismo di questi paesi dipende dalle esportazioni nei paesi a capitalismo avanzato; né che una gran parte di queste esportazioni sono effettuate da società a capitale estero o per conto di esse (e comportano previe importazioni di componenti, macchine e know how dall’estero); né, infine, che il ruolo dei paesi «emergenti» nella congiuntura attuale è piuttosto stabilizzante che destabilizzante.

5) Il centro politico dell’articolo di Piero Bernocchi è il paragrafo «La lotta tra penultimi e ultimi e le divisioni “in seno al popolo”».
Il problema di partenza è la risposta totalmente inadeguata dei lavoratori italiani (e non solo italiani) alla crisi e al tentativo in corso di fargliela pagare. Si tratta di una constatazione ovvia, si direbbe, ma a fronte delle religiose attese di rinascita della lotta di classe come effetto della «morte» del «neoliberismo», di irrealistiche pretese di imporre i propri buoni consigli alla borghesia o di conquistare il governo con un moto popolare di «salvezza nazionale», si tratta di un punto di partenza prezioso. Dietro questa religiosa attesa palingenetica c’è un rozzo meccanicismo. La verità è tutt’altra: durante una crisi economica di norma la disoccupazione è il principale fattore che indebolisce la forza contrattuale dei lavoratori e rafforza quella del padronato. Nella congiuntura politica e ideologica di questi anni non ci si poteva attendere effetto diverso, anche grazie ai sindacati neocorporativi, al centrosinistra, alla fissazione ossessiva dell’antiberlusconismo. 
Il concetto impiegato da Bernocchi è quello della «sindrome da Impero romano in decadenza» che comporta l’identificazione «dei settori sociali più tartassati e disagiati» con i destini dell’economia «nazionale».

Direi che questo è uno dei modi tradizionali e «spontanei», obiettivamente conseguenti dalla divisione del capitalismo in imprese private in competizione e in distinti Stati (più o meno) nazionali, con i quali il sistema riesce a dividere i lavoratori e a neutralizzare la lotta contro il dominio capitalistico.

Ma nel nostro caso, osserva giustamente Bernocchi, il fenomeno non è affatto solo spontaneo, né imputabile al solo centrodestra e alla Confindustria. Ad esso hanno invece contribuito, proprio per i lavoratori e i settori sociali più colpiti dalla crisi, e in modo molto più efficace e convincente di quanto possano mai fare il centrodestra e la Confindustria, i partiti di centrosinistra e i sindacati confederali. Posto che occorre «coesione nazionale» e difendere il «sistema paese», affermare la «comunanza di interessi tra patrizi e plebei di ogni nazione nella spietata concorrenza internazionale e nella difesa di alcuni benefici da civis» ha come logica conseguenza che si alimenti la xenofobia e si ostacoli la solidarietà internazionale tra i lavoratori.
Una situazione già difficilissima è aggravata da proposte circolanti nella sinistra ex «estrema» circa confuse proposte di «non pagamento del debito» o l’uscita dall’euro, a volte condite da un abbondante salsa nazionalistica del tipo «salviamo l’Italia!». Prospettive del genere fanno leva proprio su quel senso di decadenza imperiale e di difesa xenofoba dai «barbari» del Sud e dell’Est alimentata dai discorsi sulla «coesione nazionale». Bernocchi critica in modo articolato le proposte correnti, in termini convergenti con le posizioni già espresse in vari articoli di Utopia rossa, più o meno recenti. Alla moratoria o al non-rimborso parziale del debito, che comporterebbero l’uscita dall’eurosistema gestita da un governo borghese, di centrosinistra o centrodestra, oppone il principio «noi la crisi non la paghiamo», da intendersi come lotta alle misure governative e padronali, che mi trova completamente concorde.

Sono invece perplesso su un aspetto «propositivo» della posizione di Bernocchi: quando scrive che «la crisi va pagata da chi l’ha provocata», Bernocchi indica una serie di obiettivi di politica fiscale e di spesa pubblica (patrimoniale incisiva, tassazione progressiva sui redditi, tassazione delle transazioni finanziarie, drastica riduzione delle spese della politica istituzionale, recupero dell’evasione fiscale, abbattimento delle spese militari, riassorbimento dei capitali dei Fondi pensione nel sistema previdenziale pubblico). Non è che queste misure siano sbagliate, anzi. Se ne potrebbero aggiungere altre. Ma, in questo come in altri casi, il rischio è confondere la politica economica e la critica della politica economica con la definizione degli obiettivi di lotta di un movimento di massa.
Per trasformare in pratica la critica della politica economica occorre prima conquistare il potere: altrimenti piani più o meno elaborati o restano solo sulla carta o risultano come consigli rivolti a «governi amici»: ma questo non è certo nelle intenzioni di Bernocchi.  La critica della politica economica, svolta anche «internamente» mostrando quali potrebbero essere misure e linee alternative, è utile sul piano formativo e propagandistico, ma non coincide con il processo di formazione e radicalizzazione degli obiettivi di un movimento di massa, la cui natura sociale lo radica intorno a obiettivi settoriali e parziali determinati, non di interesse macroeconomico generale. È a partire dalla lotta intorno agli obiettivi specifici che il movimento può sviluppare una dinamica di scontro politico complessivo, anche contro il governo.

Torno a concordare con Bernocchi sul fatto che la convergenza e la radicalizzazione politica di movimenti di massa che, finalmente, dovessero sorgere in Italia, presuppongono un processo di conquista dell’indipendenza «rispetto a tutte le caste dominanti nei Parlamenti e nelle istituzioni europee». Aggiungo che nella casta politica rientra anche la sottocasta «marginale» dei «forchettoni rossi» della ex estrema sinistra o della sinistra post-Pci. E che questa indipendenza da conquistare con la lotta – in netto contrasto con le esigenze inglobatici della società dello spettacolo - è la forma in cui oggi possiamo costruire la democrazia reale, non solo fuori dai Parlamenti ma anche contro i Parlamenti nei quali regna la casta partitico-statale, l’autentico sovrano politico negli Stati capitalistici.
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