In modo che può dirsi
esplosivo, queste elezioni hanno confermato la tendenza emergente negli ultimi
anni: quasi 12 milioni di cittadini si sono rifiutati di baciare la mano che li
ha bastonati e che continuerà a farlo, se infine non sarà fermata.
Sulle politiche del 2008
gli astenuti sono aumentati di oltre un milione e mezzo. Ciò corrisponde a un
aumento di sei punti di percentuale, un balzo enorme: i precedenti scatti
dell’astensionismo, nel 1979 dopo il fallimento del berlingueriano «compromesso
storico» e nel 1996 dopo il primo governo Prodi, furono di tre punti di
percentuale.
Con le schede bianche e
nulle il totale dei non-votanti dovrebbe salire a oltre 13 milioni, quasi un
terzo dell’intero corpo elettorale.
Il minimo storico di partecipazione alle elezioni
politiche
Quello del 2013 è il
minimo storico di partecipazione alle elezioni politiche della Repubblica
italiana: e se qualche decennio fa forse avrei potuto considerare questo dato
ambiguo oggi, invece, in pieno regime postdemocratico, ritengo di dover gioire,
come dovrebbe gioire chiunque abbia in odio il capitalismo e le sue
istituzioni.
Astenendosi, una parte crescente della cittadinanza italiana ha consapevolmente rifiutato di partecipare al rito di legittimazione della casta partitico-statale. Questi cittadini hanno almeno intuito la natura postdemocratica del regime e ne hanno tratto la logica conseguenza: lo boicottano. Hanno rifiutato l’inganno della società dello spettacolo e del marketing politico, non si sono prestati a consolidare un determinato assetto del governo oligarchico dello Stato.
Astenendosi, una parte crescente della cittadinanza italiana ha consapevolmente rifiutato di partecipare al rito di legittimazione della casta partitico-statale. Questi cittadini hanno almeno intuito la natura postdemocratica del regime e ne hanno tratto la logica conseguenza: lo boicottano. Hanno rifiutato l’inganno della società dello spettacolo e del marketing politico, non si sono prestati a consolidare un determinato assetto del governo oligarchico dello Stato.
Astenersi è stato un atto minimo di dignità e di
consapevolezza politica; ed è un passo avanti per riaffermare, contro la casta
politica e l’istituzione che la rappresenta, che le vie per l’espansione della
democrazia e per la difesa e l’allargamento dei diritti sociali non solo passa
fuori del Parlamento ma, oramai, gli si contrappone.
Inoltre, sia pur in minor
misura, anche nel voto per il Movimento 5 stelle si esprime il rifiuto netto
della casta, se non anche dell’istituto parlamentare (in regime
postdemocratico).
Ebbene, se all’astensione
sommiamo il voto per il Movimento 5 stelle, si deve dire che quasi metà dei cittadini italiani si sono
espressi in modo inequivocabile contro l’insieme dei partiti di governo o che
hanno governato (inclusi verdi, sinistra post-Pci e ultimi arrivati della
pseudo «società civile»).
La crisi di rappresentatività del sistema dei partiti
Occorre comprendere bene
le implicazioni di questo fatto enorme: sulla base di queste elezioni la crisi
di rappresentatività del sistema dei partiti, l’autentico sovrano politico, ha
fatto un salto di qualità. Forse neanche ai tempi di Tangentopoli, che pure
portò al crollo della Democrazia cristiana e del vecchio centrosinistra, la
crisi di rappresentatività fu tanto grave. Allora lo sbocco della crisi di
rappresentatività furono i referendum per modificare il sistema elettorale, che
vinsero con percentuali del 95% e dell’82% dei voti validi. Venti anni fa la
maggioranza dei cittadini cadde in una trappola: per come venne presentata, la
(contro)riforma avrebbe dovuto «avvicinare» la politica ai cittadini, portare a
un sistema bipartitico e più stabile, rafforzare la governabilità del paese. In
realtà lo smantellamento del sistema elettorale proporzionale fu l’attacco più
grave mai portato ai diritti politici in Italia: e la responsabilità del suo
successo è da attribuirsi al Partito democratico della sinistra, erede del Pci
e progenitore dell’attuale Pd.
Questa volta, invece, i
cittadini si sono pronunciati non tanto contro questo o quel partito ma contro
l’insieme dei partiti e delle politiche da essi perseguite da due decenni.
Il non-voto ha quindi obiettivamente acquisito una valenza
progressista contro il conservatorismo politico, il cinismo e
l’opera di distruzione dei diritti sociali portata avanti da due decenni sia
dal centrodestra sia dal centrosinistra, quest’ultimo con l’aiuto di
Rifondazione comunista, del Pdci e dei Verdi.
Utopia Rossa: dalla critica ai Forchettoni
all’Antiparlamento dei movimenti
Come Utopia Rossa fummo in sintonia con quella maggioranza di elettori che nel 2008 punirono i «comunisti» che, fino all’ultimo, avevano sostenuto con tutte le loro forze il governo imperialista e «social-liberista» di Prodi. Allora, prima delle nuove elezioni, pubblicammo I Forchettoni rossi, un libro in cui spiegavamo, in modo pacato ma rigoroso, in termini storici, sociologici e linguistici, le ragioni dell’opportunismo congenito di Rifondazione comunista, Pdci e Verdi. Con le nostre debolissime forze cercammo di rendere più solide e quindi più costruttive le ragioni della giusta disillusione.
Come Utopia Rossa fummo in sintonia con quella maggioranza di elettori che nel 2008 punirono i «comunisti» che, fino all’ultimo, avevano sostenuto con tutte le loro forze il governo imperialista e «social-liberista» di Prodi. Allora, prima delle nuove elezioni, pubblicammo I Forchettoni rossi, un libro in cui spiegavamo, in modo pacato ma rigoroso, in termini storici, sociologici e linguistici, le ragioni dell’opportunismo congenito di Rifondazione comunista, Pdci e Verdi. Con le nostre debolissime forze cercammo di rendere più solide e quindi più costruttive le ragioni della giusta disillusione.
Nel 2013 possiamo dire di
essere in sintonia con i milioni di elettori che si sono astenuti. Abbiamo
spiegato e continueremo a spiegare razionalmente i motivi del degrado politico
e ideale dei partiti e dell’obsolescenza del parlamentarismo. E abbiamo
proposto un obiettivo, quello dell’Antiparlamento dei movimenti sociali, che per quanto non realizzabile nell’immediato
costituisce pur sempre un ponte tra l’indignazione e il disgusto nel presente e
una prassi anticapitalistica e antistituzionale nel futuro. Ma la prospettiva
strategica dell’Antiparlamento comporta immediatamente conseguenze
nell’atteggiamento verso i partiti e lo Stato. Su questo tornerò in
conclusione. Intanto, posso dire che la nostra microscopica e orgogliosamente
nullatenente associazione si è conquistata un ideale posto d’onore in un
fenomeno di massa denso di potenzialità liberatrici. Come minimo, siamo insieme
a chi ha fatto una scelta di libertà e di dignità.
I lavoratori che hanno
votato per il centrosinistra o per il centrodestra sono profondamente alienati,
sul piano politico, dai propri interessi minimi di classe. I comunisti e i
pacifisti che hanno votato per Rivoluzione civile sono rimasti ancora una volta
vittime delle illusioni elettoralistiche inculcate da decenni di togliattismo e
ingraismo (con Bertinotti ultimo interprete e Ferrero come becchino). Anch’essi
sono in preda a una condizione di alienazione soggettiva, intrappolati da una
retorica sinistrorsa sempre più vuota e dal mito della rappresentanza di una
sinistra sempre più generica e smidollata, diretta da una sottocasta di
professionisti della politica la cui ragione d’esistenza è lo scranno
istituzionale e il finanziamento statale al partito. Infine, chi ha votato per
il Pcl o il Pdac dimostra di non aver compreso la sostanza della lezione di
Lenin sull’uso tattico della partecipazione alle elezioni, da valutare volta
per volta secondo il quadro politico complessivo e, specialmente, in funzione
del contributo della propaganda elettorale alla radicalizzazione politica di
settori di lavoratori.
I lavoratori e le
lavoratrici che si sono astenuti sono invece alieni nei confronti del sistema
dei partiti dello Stato imperialista italiano ma padroni di se stessi. È questo
fenomeno progressivo, che obiettivamente ha una potenzialità anti-istituzionale
e di radicalizzazione politica, il bacino «elettorale» di Utopia Rossa.
Superiorità morale e politica dell’astensionismo
Come, si obietterà,
l’astensionismo non è qualunquismo? Non è un modo per fare il gioco della
destra? Non è rassegnazione? E l’elettore di Ingroia o di Ferrando non è
politicamente più evoluto dell’astensionista?
No, non è così, o non
più. L’equazione fra astensione e «qualunquismo», ammesso che nella sua
genericità sia mai stata valida, e non lo è stata, risulta obsoleta e inutile
quando i partiti diventano organi dello Stato e il Parlamento cessa di essere
cassa di risonanza, per quanto imperfetta, del conflitto sociale. Per motivi
strutturali l’organo legislativo ora non è altro che la cassa di registrazione
di decisioni prese al vertice dei partiti e del governo.
Al contrario, a fronte
dell’oligarchia bipartitica, del trasformismo dilagante, dell’ipocrita e ignobile
ricatto del «votare il meno peggio», l’astensionismo è oggi un’elementare
misura di difesa della propria autonomia di giudizio etico e politico. È una
sana e progressiva reazione alla reale antipolitica, questa sì
«qualunquistica», della politica parlamentare e istituzionale.