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martedì 12 febbraio 2013

ANTIPARLAMENTARISMO: LA TRADIZIONE STORICA, di Pier Francesco Zarcone

Il presente scritto fu preparato in occasione dell'appello astensionista lanciato poco prima delle precedenti elezioni politiche, con lo scopo di fare una messa a punto comunista libertaria "con piedi per terra". Lo riproduciamo ritenendo che sia ancora valido.
(12-02-2013)

Sull’antiparlamentarismo, che in termini consequenziali implica la propaganda e la pratica dell’astensionismo elettorale, a sinistra ci sono stati precedenti illustri, tra i quali spiccano quelli anarchici e, per il versante marxista, quello di Amadeo Bordiga. L’astensionismo è diventato una specie di dogma aprioristico per la maggior parte dell’ancora esistente galassia anarchica.
Oggi, se differenziano solo alcuni gruppi comunisti-anarchici, di matrice “piattaformista”, che partecipano alle campagne referendarie il cui oggetto siano fondamentali “regole del gioco” della convivenza pubblica, ovvero importanti diritti civili, oppure questioni dalla cui soluzione dipende l’adozione linee strategiche dello sviluppo capitalista nazionale.
La posizione maggioritaria del mondo anarchico è stata ben espressa da un articolo di Umanità Nova, organo della Federazione Anarchica Italiana (Fai), pubblicato nel 2006. In esso si sostiene che  
«Accusati di non essere "politici", essi rispondono che, poiché sono totalmente avversi all'organizzazione gerarchica e centralizzatrice della società, rigettano la "politica" intesa come pratica di governo. La "politica" si prefigge il compito di stabilire l'ordine tramite una delega di potere, in realtà essa codifica il disordine nel momento stesso in cui definisce una gerarchia tramite la quale esercitare il governo. E la gerarchia è nemica di qualsiasi forma di libertà perché, con la sua stessa esistenza, impone doveri grazie al suo diritto di governo. Non solo. Gli anarchici sono contro ogni sistema di governo, compreso quello che si definisce democratico, che si basa sulla delega delle libertà individuali e collettive ad una esigua minoranza che eserciterà il suo potere in nome della maggioranza dopo averne carpito la delega in nome di programmi fumosi, di promesse e di principi; dopo averne manipolato emozioni ed immaginario. Un sistema che si configura come un astuto sistema di scelta eterodiretta dei capi, assolutamente lontano da un reale processo di gestione orizzontale della società, basato su partecipazione e controllo. Gli anarchici non sfuggono, non negano la realtà politica, ma sono contro la politica. L'organizzazione sociale, l'organizzazione della collettività umana, l'esercizio delle libertà individuali e collettive, il rispetto dei diritti naturali di ogni essere vivente, sono troppo importanti per essere delegati ad un pugno di individui, qualunque siano le loro qualità. Nel loro antipoliticismo gli anarchici propongono una diversa organizzazione sociale che fa a meno dello Stato e che si basa sul principio della gestione diretta della produzione e della distribuzione egualitaria delle risorse sociali. Conseguentemente a questa impostazione gli anarchici sono dichiaratamente contro ogni delega di potere che, se praticata, rappresenta un'erosione delle capacità e delle possibilità di edificazione di una società di liberi ed eguali. E nel contempo vogliono indicare la necessità di rompere con il meccanismo della partecipazione elettorale, che vuol dire essenzialmente subordinazione ai meccanismi di gestione borghese del potere. In questa ottica l'astensionismo anarchico è una chiara dichiarazione d'intenti nei confronti della truffa rappresentata dal sistema elettorale e si distingue nettamente dalle proposte di astensionismo tattico avanzate, a fasi alterne, da settori della sinistra antagonista che continuano a mantenere un atteggiamento opportunistico nei confronti del parlamento, proprio perché "politici", proprio perché sostanzialmente statalisti. (…) Sfuggire dai meccanismi della democrazia rappresentativa significa entrare nel concreto della critica stessa del concetto di maggioranza e minoranza, significa rifiutare la riproduzione, pura e semplice, dei rituali parlamentari negli stessi organismi rappresentativi di base per dare invece prevalenza all'autorganizzazione, alla lotta, al libero confronto delle idee e delle proposte. I rapporti di forza si sono sempre modificati con la lotta diretta e la via politica ha sempre rappresentato il disarmo della conflittualità sociale. Con questa consapevolezza ci tiriamo fuori dai ricatti agitati dai partiti di sinistra alle prese con le pulsioni egemoniche di ceti politici trasformisti, opportunisti ed affaristi, incapaci di produrre politiche realmente alternative a quelle di destra, sul terreno economico, del degrado urbano ed ambientale, dell'occupazione, della sanità, della scuola, ecc. In realtà la violenza della crisi mondiale e delle politiche di guerra non lasciano più tempo, né margini ad una politica di moderato e "razionale" riformismo di cui, per altro, non si riesce ad individuare i possibili esecutori in ambito parlamentare. A fronte di una politica che fa del parlamento il suo centro di interesse occorre contrapporre un pensiero ed un'azione che abbiano il loro punto di riferimento nella capacità di autorganizzazione popolare. A fronte di una visione che fa del parlamento il luogo della rappresentanza politica e sociale del paese occorre contrapporre la proposta e la pratica del comunalismo, libertario e federativo, articolato sul territorio, dal semplice al complesso, affermando nel contempo la propria volontà a non essere governati, a non rendersi corresponsabili di un sistema basato sullo sfruttamento e sull'oppressione. Astenersi, non cadere nelle trappole delle false alternative e del meno peggio, rafforzare le armi della critica intransigente, dell'organizzazione, del protagonismo sociale, dell'azione tra le classi sfruttate ed oppresse, vuol dire attrezzarsi per una futura possibile crisi rivoluzionaria, alimentata dalla crescente instabilità mondiale e dall'accumularsi delle contraddizioni sociali ed economiche, in grado di indicare e praticare una via d'uscita autogestionaria che impedisca la ricaduta in un sistema di potere gerarchico»[1]. 
Il  mondo anarchico non ha però prodotto solo facitori e/o cultori di dogmi intoccabili, pena l’eresia, ma anche personalità dal lucido intelletto critico, che non temono l’eresia e ben sanno che o principi devono svolgere una funzione di guida, di indirizzo, di chiarimento della rotta, e non già di predeterminazione vincolistica dell’agire politico. Un po’ sulla linea di quel famoso rabbi Nazareno sostenitore dello Shabbath al servizio dell’uomo e non viceversa. È grazie a simili personalità che la teoresi anarchica presenta ancora profili di validità. A questo genere di militanti e pensatori libertari apparteneva Camillo Berneri, ucciso nel 1937 a Barcelona dagli stalinisti i quali, con questo crimine, non eliminarono solo un loro duro avversario nel contesto della rivoluzione spagnola, ma silenziarono una testa pensante dell’anarchismo al cui livello possono considerarsi solo due libertari francesi: Georges Fontenis e Daniel Guérin.  
Un lucido testo di  Berneri sul problema venne pubblicato nell’aprile del 1936, e vale la pena riprodurlo quasi per intero:
 «In una sua lettera al Gambuzzi (Locarno, 16 novembre 1870), Michele Bakunin scriveva di essere lieto che egli fosse tornato a Napoli per cercare di essere eletto deputato e soggiungeva: “Forse ti meraviglierai di vedere che io, astensionista deciso ed appassionato, spinga ora i miei amici a farsi eleggere deputati. Gli è che le circostanze e i tempi sono mutati. Anzitutto i miei amici, cominciando da te, si sono talmente agguerriti nelle nostre idee, nei nostri principi, che non c'è più pericolo che possono dimenticarli, mortificarli, sacrificarli, e ricadere nelle loro antiche abitudini politiche. E poi, i tempi sono diventati talmente seri, il pericolo che minaccia la libertà di tutti i paesi talmente formidabile, che bisogna che ovunque gli uomini di buona volontà siano sulla breccia, e che i nostri amici soprattutto siano in una tale posizione che la loro influenza diventi quanto più efficace è possibile. Cristoforo (Fanelli) mi ha promesso di scrivermi e di tenermi al corrente delle vostre lotte elettorali che m’interessano al massimo grado”.  Fanelli fu eletto deputato di Torchiara nel dicembre 1870 e Friscia fu rieletto in Sicilia.  Bakunin vedeva nell'elezione a deputati dei più attivi organizzatori della I.a Internazionale un potenziamento di questa, per le agevolazioni materiali (viaggi gratuiti), per la possibilità di relazioni più estese, per una maggiore influenza sulle masse nonché una maggiore libertà di propaganda. Di fronte all'istituzione parlamentare egli rimaneva antiparlamentarista ed astensionista ed il suo atteggiamento del 1870 non è affatto da avvicinare a quello di Andrea Costa e nemmeno a quello di F.S. Merlino. Per Bakunin il problema era di strategia e non di tattica. Il non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista.  Quale differenza corre tra la strategia e la tattica? Mi servirò di un esempio semplicissimo, al quale non va attribuito un significato che non vada oltre a quello dimostrativo.  Mi trovo asserragliato in casa, assediato da una turba di fascisti che gridano: “A morte!”.  Accorrono i carabinieri che cercano di impedire agli assedianti di sfondare la porta di casa mia. Sarebbe idiota e pazzesco che mi mettessi, dalla finestra, a sparare su quei carabinieri. Se agissi così compire un enorme errore strategico. Mi trovo in una manifestazione di piazza. I carabinieri sparano sui manifestanti. Prendo la parola e spiego alla folla che i carabinieri rappresentano il potere repressivo dello Stato, che come tali dovrebbero trovare di fronte a loro manifestanti armati e decisi, ecc. ecc.. Se parlassi, invece, dei carabinieri che arrestano i pazzi, che salvano la gente nelle inondazioni, ecc. cadrei in un errore tattico. Chiarita la differenza sopraccennata, si pone il problema: se è evidente che il parlamentarismo non può essere conciliabile con l’anarchismo, l’astensionismo è per gli anarchici una questione tattica o una questione strategica?  Nel 1921 mi sono, per la prima volta, posto questo problema, in seguito a questa piccola avventura. Il mio portalettere era un socialista. Vedendo che ricevevo giornali di sinistra, mi trattava con una certa familiarità, benché non avessimo mai scambiato che dei saluti o dei rapidi commenti sulla situazione politica, e mi mostrava la sua simpatia (…). Non lontano da casa mia vi era una casa operaia abitata da socialisti e da comunisti e quando vi passavo davanti, le sere di primavera o di estate, gl’inquilini che stavano godendo la freschezza vespertina mi salutavano cordialmente, benché non avessi mai avvicinato che uno di loro. Il calzolaio, davanti alla botteguccia del quale passavo ogni giorno, mi salutava anch’egli benché non fossi suo cliente. Le perquisizioni, gli arresti, il vedermi di frequente in compagnia di operai mi avevano cattivato la simpatia del “popolo” del quartiere. Ma ecco che un pomeriggio vedo entrare nel mio studio il portalettere e altri giovanotti a me sconosciuti. Si era in giorni di elezioni politiche e venivano a prelevarmi come elettore. “Abbiamo l'automobile!” mi dicevano. Ed io: “Se volessi votare andrei a votare a piedi o in tramvai; non è per pigrizia che non vado le urne”. E... qui tenni loro una lezione di anarchismo, della quale, certamente per colpa mia ma anche un po’ perché erano caldi della «battaglia elettorale, capirono così poco che se ne andarono con dei: “Ce ne ricorderemo!” da sanculotti del 1789. Lo stesso giorno mi accorsi che il “popolo” del quartiere mi aveva giudicato “disertore” e che la mia... popolarità era compromessa.  Il guaio è che, per la prima volta, mi sono chiesto se l’astensionismo è sempre opportuno. Chi sa che cosa siano state le elezioni politiche del 1921 mi scomunicherà, forse, ma certamente non mi fucilerà se dirò che mi sono astenuto dal fare propaganda astensionista e che mi sono messo contro i vestali dell'anarchismo per difendere quei pochi compagni dell'Unione Anarchica Fiorentina (due o tre) dall'ostracismo al quale erano stati condannati per essere andati alle urne. Dicevo, allora come oggi: l'errore è di strategia e non di tattica, è peccato veniale e non peccato mortale.  (…).  Il richiamo ai principi a me non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni di uomini e non di dei, delle opinioni che hanno avuto fortuna per due o tre anni, per decenni, per secoli anche, ma che, poi, sono finite per sembrare barocche a tutti. Le eresie di Malatesta sono, oggi, dei principi sacrosanti per tutti i malatestiani. Ora è un fatto che Malatesta, non essendo né prete né megalomane, ha esposto delle idee come opinioni e non come principi. I principi sono legittimi soltanto nelle scienze sperimentali e, allora, non sono che formulazioni di leggi, formulazioni approssimative.  Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo.  Ma questo è un argomento che richiederebbe particolare sviluppo e ritorno a bomba: ossia all’astensionismo. Come constato l’assoluta deficienza della critica antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima, così non sono astensionista nel senso che non credo, e non ho mai creduto, all'utilità della propaganda astensionista in periodo di elezioni e mi sono sempre astenuto dal farla se non occasionalmente e a tu per tu con qualche individuo passibile, secondo me, di passare dalla scheda al revolver.  Il cretinismo astensionista è quella superstizione politica che considera l'atto di votare come una menomazione della dignità umana o che valuta una situazione politica-sociale dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina l'uno e l'altro infantilismo. Del primo ha fatto giustizia Malatesta, che scrivendo a Fabbri nel maggio 1931, osservava che molti compagni danno un'estrema importanza all'atto di votare e non capiscono la vera natura della questione delle elezioni. Malatesta citava dei tipici esempi. Una volta, a Londra, una sezione municipale distribuì dei bollettini per domandare agli abitanti del quartiere se volessero o no la creazione di una biblioteca pubblica. Vi furono degli anarchici che, pur desiderando una biblioteca, non vollero rispondere al referendum perché credevano che rispondere sì fosse votare. A Parigi e a Londra, degli anarchici non alzavano la mano in un comizio per approvare un ordine del giorno rispondente alle loro idee e presentato da un oratore che avevano calorosamente applaudito... per non votare.  Se domani si presentasse il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata, autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie, ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che crederebbero doveroso astenersi.  Questo cretinismo astensionista e così estremo che non vale la pena di soffermarvisi. Vi è, invece, ragione di esaminare il semplicismo astensionista. Nella lettera sopra citata, Malatesta ricordava che quando Cipriani fu eletto deputato a Milano dei compagni furono scandalizzati perché, dopo aver propagandata l'astensione, egli, Malatesta, si compiacesse del risultato dell'elezione: “Dicevo, e lo direi ancora, che poiché vi sono coloro che, sordi alla nostra propaganda, vanno a votare, è consolante vedere che votano per un Cipriani piuttosto che per un monarchico od un clericale - non per gli effetti pratici che la cosa può avere, ma per i sentimenti che essa rivela”. Ora, vorrei poter proporre a Malatesta questo quesito: se un trionfo elettorale dei partiti di sinistra fosse un tonico rialzante il morale abbattuto della classe operaia, se quel trionfo permettesse il discredito degli esponenti di quei partiti e avvilisse al tempo stesso le forze fasciste, se quel trionfo fosse una conditio sine qua non degli sviluppi possibili di una rivoluzione sociale, come un anarchico dovrebbe comportarsi?  Si risponderà che tutte queste ipotesi non sono che fantastiche, ma questa risposta non elude il problema: se un anarchico valuta una data situazione politica come richiedente eccezionalmente la partecipazione degli anarchici alle elezioni, cessa costui di essere anarchico e rivoluzionario se pur non svolgendo una propaganda che alimenti le illusioni elettorali e parlamentariste, se pur non cercando di rompere la tradizione teorica e tattica dell'astensionismo, va a votare senza illudersi sui programmi e sugli uomini dei partiti in lista, ma, anzi, volendo contribuire ad ottenere che svaniscano le illusioni che le masse nutrono nei riguardi di un governo popolare, volendo contribuire ad ottenere che le masse vadano oltre loro pastori?  Che quell’anarchico possa errare nella valutazione del momento politico è possibile, ma il problema è: se giudicando così un momento politico ed agendo di conseguenza egli cessa di essere anarchico. Il problema, insomma, è questo: l'astensionismo è un dogma tattico che esclude qualsiasi eccezione strategica?  (…)»[2].
Questo è un esempio di intelligenza anarchica (dall’etimo intus legere); e il fatto di non trovare sovrabbondanza di continuatori costituisce un mero problema dell’anarchismo contemporaneo, oltre a contribuire a spiegarne le condizioni attuali. Pensare criticamente è meno facile del ripetere litanie preconfezionate.
Berneri (ideatore della categoria del “cretinismo anarchico”, di cui quello astensionista è solo una componente) aveva ben capito che il passaggio alla rigida dogmatica astensionista – oltre a non tenere conto che alle origini si era trattato di uno strumento tattico e di agitazione in una fase della storia politica europea caratterizzata dalla mancanza del diritto di voto per la maggioranza della popolazione -  era diventato un mezzo per difendere la fragilità di un movimento anarchico che (Spagna a parte) non riusciva a difendere la sua posizione tra le masse lavoratrici, anche per il fatto di non essere riuscito a definire e organizzare la sua identità rivoluzionaria dopo la vittoria bolscevica in Russia. Un tentativo in tale senso, e si un certo peso teorico, in realtà c’era stato alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: si tratta dell’iniziativa organizzativo/programmatica del gruppo di esuli russi Delo Truda (Nestor Makhno, Pjotr Arshinov, Ida Mett, etc.), noto come Piattaforma organizzativa dei comunisti anarchici. Progetto. Esso fu disinvoltamente rifiutato dalla maggior parte dell’anarchismo come infettato da “anarco-bolscevismo”; e così il movimento libertario si è per lo più racchiuso in un appagato autismo politico e ideologico, rinunciando a riflettere sulle ragioni della propria perdurante sconfitta.
Non si dimentichi però che nella Spagna del 1936 l’allora potente movimento anarchico per finalità rivoluzionarie non praticò il tradizionale astensionismo elettorale, e votarono in massa, determinando la vittoria del Frente Popular.
In tanti manuali di storia del pensiero di Bordiga, primo segretario del Partito Comunista d’Italia (Pcdi), generalmente si evidenzia l’astensionismo da lui propugnato tra il 1919 e il 1920. Riduttivismo a parte, si tratta di una posizione che va attentamente considerata, perché non può essere certo inquadrata nella categoria del cretinismo marxista, che spesso ha rivaleggiato con quello anarchico.
In primo luogo va recuperata la fase storica in cui si è sviluppata questa posizione astensionista. Era l’epoca in cui il Partito Socialista Italiano (Psi) era in bilico tra l’espulsione dell’ala riformista e l'unità del partito, costasse quel che costasse. Il Congresso di Bologna del 1919 si era concluso in favore dell'unità che lasciava inalterata l’autonomia con il gruppo parlamentare si muoveva rispetto al partito in senso tutt’altro che radicale. Anche il quella fase della storia politica italiana il parlamento era con tutta evidenza  strumento di dominio di una borghesia sempre più ottusa e reazionaria, centro di compromesso e corruzione che tutti coinvolgeva. Bordiga non era fautore dell'astensionismo fine a sé stesso, bensì lo assumeva in collegamento con due fattori, la separazione dai riformisti e lo sviluppo del processo rivoluzionario in Russia, di modo che veniva a essere uno strumento di selezione dei rivoluzionari, e non già (come si potrebbe ingenuamente credere) di preparazione rivoluzionaria.
Bordiga ben conosceva la teoria di Lenin circa l’andare in parlamento per distruggerlo dall’interno, ma riteneva che questa impostazione non potesse trovare applicazione nell’Europa occidentale, e in specie in Italia, dove era diventato una trappola per i rivoluzionari, capace di metabolizzare tutte le opposizioni. In fondo per Bordiga la dimostrata incapacità – per dirla alla moderna – di utilizzare in parlamento la presenza di uno schieramento di rivoluzionari come sponda istituzionale per i movimenti di lotta, nasceva dalla realtà del parlamento italiano fin dalla sua istituzione. Questo parlamento era semplicemente il teatro in cui maggioranze predeterminate in favore di questioni già decise dalle vigenti oligarchie dell’industria, della finanza e terriere, consentivano a minoranze inoffensive esibizioni tribunizie tanto roboanti quanto sterili.  
Molto dura e chiara fu l’esposizione delle ragioni astensioniste effettuata da Bordiga nell’agosto del 1920 al II Congresso della III Internazionale:
«A base della nostra concezione sta l’idea di un processo storico nel quale la lotta di classe termina, dopo una violenta battaglia per la dittatura proletaria, con la liberazione del proletariato. (…) Il movimento marxista è degenerato in movimento socialdemocratico, creando un terreno di azione comune ai piccoli interessi corporativi di singoli gruppi operai e alla democrazia borghese. (…) Il primo meccanismo borghese che deve essere distrutto prima di passare all’edificazione economica del comunismo, prima ancora di sostituire al vecchio apparato di governo lo Stato proletario, è proprio il parlamento. La democrazia borghese agisce fra le masse come un mezzo di difesa indiretta, mentre l’apparato esecutivo dello Stato è pronto a far uso dei mezzi della violenza diretta non appena gli ultimi tentativi di attirare il proletariato sul terreno della legalità democratica siano falliti. È quindi di capitale importanza smascherare questo gioco della borghesia e mostrare alle masse tutta la doppiezza del parlamentarismo borghese. (…) noi proponiamo che, nei paesi in cui il regime democratico è da lungo tempo sviluppato, l’agitazione per la dittatura del proletariato si basi sul boicottaggio delle elezioni e degli organi democratici borghesi. La grande importanza che si dà in pratica all’attività elettorale comporta un doppio pericolo: da un lato, dà l’impressione che sia questa l’azione essenziale; dall’altro, assorbe tutte le energie e le risorse del partito, portando all’abbandono quasi completo del lavoro negli altri settori del movimento. (…) Ora l’organizzazione del partito che esercita l’attività elettorale riveste un carattere tecnico del tutto particolare e nettamente contrastante con il carattere dell’organizzazione che conduce la lotta rivoluzionaria legale ed illegale. Il partito diviene un ingranaggio di comitati elettorali che si occupano esclusivamente della preparazione e della mobilitazione degli elettori. (…) Vi si dice che la I Internazionale si serviva del parlamentarismo a fini di agitazione, critica e propaganda. In seguito, nella II Internazionale, si manifestò l’azione corruttrice del parlamentarismo, che portò al riformismo e alla collaborazione di classe. L’introduzione ne conclude che la III Internazionale deve tornare alla tattica parlamentare della I per distruggere il parlamento dall’interno. Ma la III Internazionale, se accetta la stessa dottrina della I, deve, tenuto conto della grande diversità delle condizioni storiche, servirsi di tutt’altra tattica, e non partecipare alla democrazia borghese. (…) Noi non respingiamo il parlamentarismo perché si tratta di un mezzo legale. Ma non si può proporne l’impiego allo stesso titolo della stampa, della libertà di riunione, ecc. Qui, si tratta di mezzi di azione; là, di un istituto borghese che deve essere sostituito dagli istituti proletari dei Consigli operai. Noi non pensiamo affatto di privarci, dopo la rivoluzione, della stampa, della propaganda ecc., ma contiamo invece d’infrangere l’apparato democratico e di sostituirlo con la dittatura del proletariato. (…) Ci si dice: anche dalla tribuna parlamentare si può fare della propaganda. A questo risponderò con un argomento un po’… infantile: Ciò che si dice dalla tribuna parlamentare è ripetuto nella stampa; se si tratta della stampa borghese, tutto è presentato in una falsa luce; se si tratta della nostra, allora è inutile passare dalla tribuna parlamentare per poi stampare ciò che si è detto. (…) Non si riuscirà mai ad organizzare un’attività parlamentare che contraddica ai principi stessi del parlamentarismo ed esca dai limiti del regolamento parlamentare»[3].
Pur tuttavia – e proprio perché non si trattava di un astensionismo dogmatico fine a sé stesso, bensì era collegato al perseguimento di finalità rivoluzionarie – quando la III Internazionale ordinò al Pcdi di partecipare alle elezioni politiche del 1921, Bordiga si impegnò al massimo, anche espellendo sezioni refrattarie. Ma la posizione bordighista fu antiparlamentare anche con la partecipazione alle elezioni, giacché si mantenne la contrarietà a fare prevalere i tatticismi parlamentari sull’azione del partito nel quadro della lotta di classe esterna al parlamento. Come ebbe a ribadire a novembre del 1924 il deputato Repossi, della Sinistra comunista, di fronte alla maggioranza fascista:
«Il centro della nostra azione è fuori di quest'aula, fra le masse lavoratrici».
In buona sostanza, quindi, nei rispettivi ambiti politici, per motivi diversi, non c’è stata ricezione né delle ragioni (e del metodo) dell’astensionismo di Bordiga né della posizione di riflessione critica espressa da Berberi. Entrambe originate da un’ottica rivoluzionaria seppure con differenze di prospettiva.
Gli approcci all’antiparlamentarismo sopra delineati nascono da esigenze e dottrine specificamente rivoluzionarie e quindi rispondono a una forte ideologizzazione. Tuttavia è possibile affrontare questa tematica in modo apparentemente meno “impegnato”, ma senza che per questo vi sia pregiudizio alla comprensione della realtà parlamentare affrontata in termini critici.
 Le dottrine costituzionaliste vigenti presentano il parlamento come istituzione principe, asse portante delle “moderne democrazie”, ovvero come il luogo in cui operano e legiferano i “rappresentanti del popolo”. Ciò in conformità alla “formula politica” liberal/borghese. In relazione a tale impostazione si pongono subito due questioni:
- i “rappresentanti del popolo” rappresentano?
- chi sono costoro?
Infatti, una prima mistificazione riguarda proprio il concetto di rappresentanza, tant’è che i testi di diritto costituzionale devono immediatamente specificare che di rappresentanza “politica” si tratta, e non di rappresentanza ordinaria, ovvero nel senso civilistico della parola. E a ben guardare è solo quest’ultima a corrispondere al concetto pieno di rappresentanza. Senza addentrarci nel gioco della categorizzazioni che fanno la gioia dei giuristi, basti dire che la rappresentanza in senso proprio rientra nel quadro dell’interposizione di un soggetto a un altro (singolo o collettivo) nella gestione di affari riguardanti quest’ultimo. In breve: un atto, o una questione riguardante Tizio trova compimento o gestione da parte di Caio, ma nell’interesse di Tizio, in capo al quale vanno gli effetti. E questo – salvo casi particolari ed eccezionali, che però confermano la regola – avviene in conformità alle direttive e indicazioni fornite dal diretto interessato al suo rappresentante. Inoltre il rappresentante in  via normale può essere revocato.
L’anomalia della rappresentanza politica discende dal fatto che il c.d. “rappresentato”, perde del tutto il potere di intervento nel suo presunto “rappresentante”, e la motivazione giuridico/ideologica è presto detta: il parlamentare, una volta eletto, diviene rappresentante prima di tutto del “popolo” nel suo complesso, o della “nazione”, e non solo di quanti l’hanno eletto; tant’è che non gli possono essere imposti vincoli da “mandato imperativo”. In più, egli non è nemmeno revocabile (né dagli elettori del suo collegio, né dall’intero corpo elettorale) per tutta la durata della legislatura.
Nella realtà delle cose il parlamentare svolge una funzione di rappresentante, e con mandato imperativo, ma in favore del suo partito e/o dei finanziatori delle sue costose campagne elettorali. L’eletto, quindi, può tranquillamente svolgere un’azione politico/legislativa assolutamente difforme dagli interessi di quanti l’hanno votato e dalle promesse propagandistiche fatte a costoro. Inoltre è “pacifico” che farà il possibile per recuperare quanto speso per l’elezione e per arricchirsi in sovrappiù. Situazioni del genere non sono affatto tipiche dei  devastati e oppressi paesi del “terzo mondo”, ma anche di quei paesi del “primo mondo” in cui – per contingenze storiche, caratteristiche culturali, religiose etc. – la figura del suddito prevalga su quella del cittadino.
Chiedersi “chi siano” i rappresentanti del popolo è chiaramente provocatorio, e investe una questione ulteriore: quella della funzionalità, e quindi della competenza, dei parlamentari a svolgere i propri compiti, parlamentari e/o governativi. Spesso e volentieri sono dei poveracci incolti, dei “signor nessuno”, ai quali il titolo di “onorevole” o di “senatore” non riesce a far recuperare carenze e impreparazioni personali. L’argomento può essere delicato, per cui va subito detto che non implica apologia del governo dei tecnocrati, che spesso operano peggio dei politici (o politicanti) “puri”. La tecnocrazia dovrebbe avere un suo ruolo ma subordinata strumentalmente alla politica. Qui vogliamo prendere le mosse dal fatto notorio dell’assenza di competenze (e quindi di “autorità”, come disse Bakunin) nelle materie specifiche delle quali i parlamentari si occupano, volendo sia di rimarcare un’ulteriore differenza rispetto alla rappresentanza civile (poiché solo i fessi nelle questioni tecniche si affidano a rappresentanti incompetenti), sia sottolineare che si tratta di persone comunissime chiamate a gestire una cosa pubblica che il più delle volte sfugge loro, per porre una questione che in genere viene trascurata.
La “democrazia”, per quello che il suo etimo vuole esprimere, come è noto storicamente ha trovato la sua forma quasi “archetipica” nell’antica Atene, come “democrazia diretta”. Ma con un’ulteriore particolarità: era dotata di un sistema di nomina alle cariche pubbliche idoneo a evitare le degenerazioni della rappresentanza politica borghese e gli sperperi a monte e a valle, in quanto basato sul sorteggio tra i cittadini. Potrebbe fare sorridere, ma a torto. In Atene la gestione della cosa pubblica non degenerò affatto nel caos dell’incompetenza, e non già per una maggiore “semplicità” delle incombenze di allora rispetto alla situazione attuale. Ciò che appare semplice oggi non lo era per nulla all’epoca; e in più oggi si dispone di tanti e tali strumenti, anche tecnologici, che potrebbero essere proficuamente utilizzati anche da eventuali sorteggiati. E comunque le competenze tecniche si trovano mediante un’accorta scelta dei collaboratori, o si conquistano con dovuto sforzo, come fece Ernesto Guevara quando fu chiamato a posti delicati per la gestione dell’economia cubana (lui, medico con studi umanisti alle spalle).  Inoltre, nell’antica Atene gli incarichi avevano il ferreo risvolto della responsabilità per il loro svolgimento, con l’aggravante che perfino il bene operare non eliminava il pericolo, sempre incombente, di incappare nell’ostracismo popolare (con quel che seguiva).
Si è detto all’inizio del rifiuto anarchico delle elezioni; esso, per i libertari seri e con i piedi per terra, si incentra sul rifiuto della delega irrevocabile; ma va anche considerato il non indifferente correttivo derivabile dalla delega imperativa, a tempo o ad acta, e comunque revocabile. Ma questo da solo non basterebbe. Un mandato così concepito può collocarsi in un contesto davvero democratico se non opera solipsisticamente. Diciamolo meglio: si tratterebbe di un sicuro miglioramento rispetto alla situazione attuale; anzi, per taluni sarebbe addirittura un’innovazione rivoluzionaria. Ma il miglioramento sarebbe assoluto solo se i cittadini non venissero chiamati a nominare i propri mandatari esclusivamente con periodicità affini alle attuali, bensì disponessero della possibilità di partecipare decisionalmente, e con continuità e maggiore frequenza, alle decisioni pubbliche. Si avrebbe un sistema di deleghe del tipo predetto inserito in un assetto decisionale che muove dal basso verso l’alto, più che viceversa.
Al riguardo Isaac Puente Amestoy (autore nel 1933  di El comunismo libertario, programma adottato nel 1936 dalla Cnt spagnola al congresso di Zaragoza) prevedeva infatti un sistema di rappresentanze ben articolato promananti dalla base collettiva – vera detentrice dell’autorità diretta (popolo, congressi, assemblee municipi) – fino ai settori, esecutivi, delle federazioni, dei plenum e dei comitati (come risulta dallo schema a p. 37 dell’edizione spagnola del 2003).
Nel quadro istituzionale liberaldemocratico il sistema parlamentare si è rivelato incapace su due versanti che dovrebbero avere un valore fisiologico già per quel sistema stesso: il rispecchiamento dei reali umori politici e sociali della popolazione; l’idoneità a essere strumento di cambiamento e rinnovamento della classe politica e della politica tout court. In teoria questo non dovrebbe accadere, trattandosi di voto libero; ma la realtà è stata diversa. Tralasciamo pure il deficit democratico di quei sistemi elettorali (uninominali in primis) che privano gli elettori della possibilità di scegliere il candidato; resta il fatto che anche in situazioni generali di forte contestazione sociale spesso e volentieri dalle urne escono risultati confortanti per i partiti borghesi e negativi per gli altri. Non si può negare che qui entrino in gioco anche fattori psico/sociologici.
Il meccanismo elettorale capitalista si presenta in via primaria con un carattere/finalità “viziante”: tende alla determinazione di chi governerà; cioè di chi comanderà entro gli ambiti che i veri interessi strutturali egemonici nella società gli consentono. Questo è gravido di conseguenze. Scegliere chi comanderà fa scattare meccanismi utilitaristici e opportunisti, questioni di utilità del voto, influenze confessionali, culturali e familiari, campanilismi, rancori indotti, non dimenticando che la dominanza della cultura delle classi dominanti è di maggior pregnanza quando è basso il livello della sinergia fra lotte di classe e coscienza di classe (che non si riduce alla mera partecipazione alle lotte sociali). A tali fini un ruolo potente lo svolgono i sindacati e la pratica azione politica dei partiti di sinistra radicati nelle istituzioni, nel senso di diffondere una mentalità di adattamento alla “democrazia” capitalista e ai suoi meccanismi gerarchici, facendo apparire il “sistema” senza alternative reali. Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, non si può negare il devastante influsso psicologico della svolta berlingueriana del 1974 sul “compromesso storico” tra Pci e Dc: essa equivaleva alla rinuncia alla trasformazione socio/economica del paese, col corollario della collaborazione col capitalismo. Se così stavano le cose … allora bastano alcuni leggeri correttivi al sistema dominante. L’affossamento delle ragioni storiche che avevano presieduto alla fondazione del Pcd’i – da tempo già avvenuto – riceveva una certificazione notarile.
D’altro canto, nessuna radicale svolta politico/sociale si è mai affermata solo per via elettorale, in quanto nel sistema capitalista i poteri reali (economici e militari) stanno fuori dal parlamento, e controllare quest’ultimo non è sinonimo di controllo di essi. La vittoria elettorale di Hitler non è citabile come controargomento, giacché il nazismo era appoggiato proprio dai poteri reali del sistema.
A certe condizioni (e finché durano) c’è solo la possibilità di sviluppare un certo riformismo, purché compatibile con le esigenze del capitalismo. E questo è già un limite non indifferente. Va inoltre valutato un ulteriore aspetto. Sviluppi politici e socio/economici di qualche rilievo (ferme restando le considerazioni dianzi formulate) si sono sempre ottenuti quando partecipano alla dialettica istituzionale schieramenti politici che non sono fotocopia gli uni degli altri, né facce della stessa medaglia; oppure quando il sistema politico non è bloccato a motivo dell’essere considerata l’opposizione “antisistema” –  e quindi da combattere come nemica e non già come avversaria - da parte dei poteri forti, nazionali ed esteri.
Quando mancano siffatti elementi produttivi di stallo, è però necessario, in aggiunta, che l’esercizio del potere istituzionale non miri al mero perseguimento di fini utilitaristici di parte (con prevalenza di quelli economici e finanziari; come accadde al Psi ancor prima dell’avvento di Craxi), bensì anche e soprattutto a obiettivi di interesse generale in vario modo collegabili al programma e all’essere ideologico della parti in causa. Fino a quando permanga una tale situazione è più facile che, sia pure in presenza di blocchi sociali compositi a sostegno dei  vari partiti, almeno in taluni di essi non abbia a prevalere l’interclassismo più funzionale agli interessi della borghesia, di  modo che i ceti popolari e le forze a difesa dei diritti civili abbiano degli effettivi punti di riferimento istituzionale per una certa tutela dei propri interessi. 
Che un tale scenario riformista appaia roseo rispetto alla situazione odierna è facilmente comprensibile; ma restano comunque immutati i rilievi critici che esso suscita in quanti vogliono porsi su un versante rivoluzionario, indipendentemente dall’apprezzamento che ha riscosso nei ceti popolari, in quanto le prospettive tangibili di migliorie nell’immediato non fanno schifo a nessuno. I rilievi critici riguardano: a) il fatto che il riformismo sociale e politico è possibile solo in determinate fasi di sviluppo della vita del capitale, e quindi dei rapporti di produzione; b) gli sbocchi politici, legislativi ed economici delle lotte sociali (spesso limitati dai compromessi) non costituiscono risultati intangibili, ma richiedono vigilanza e ulteriori lotte per lo loro costante applicazione; c) tuttavia, una volta che si effettui il passaggio a un’ulteriore fase del ciclo capitalista, i predetti risultati soggiacciono al pesante attacco dei poteri forti non convenendo più alle classi dominanti; d) infine le stesse teoriche sponde istituzionali delle lotte sociali, al di là delle parole, tendono a disinteressarsene.
Quest’ultimo aspetto è l’espressione del livello elevato raggiunto dalla perdita di antagonismo. Si tratta di una mutazione originabile da varie cause, ma fra queste vi è sempre il progressivo incentrarsi dell’orizzonte politico sulle pratiche parlamentari e istituzionali, in tal modo ponendosi come schieramento che vuole essere parte del sistema ed essere riconosciuto come “non alieno” dalle altre forze politiche. Un tale processo è normalmente accompagnato dal coinvolgimento nelle peggiori pratiche di compromesso e di corruttela esistenti. Quand’anche ciò avvenga a livello di “briciole”, si tratta di una via all’omologazione.
Assumere un tale fine comporta ulteriori conseguenze: se ci si vuole omologare e si ha l’occhio attento alle aritmetiche elettorali, la “marcia verso il centro” diventa prima o poi ineludibile, e allora non sarà certo possibile organizzarsi e operare per la mobilitazione e le lotte dei ceti più oppressi al fine di una trasformazione strutturale della società. Da questo derivano: l’incapacità – al di là delle ricorrenti verbosità demagogiche – di formulare alternative, anche praticabili nell’ambito del contesto dato ma non compatibili con gli interessi borghesi, e di organizzare lotte di massa a loro rivendicazione; la sostanziale difficoltà anche a concepire alternative che non siano meri correttivi, essendosi abbandonata la pratica dello studio critico dei fenomeni, delle dinamiche e delle prospettive nell’ambito socio/economico/politico, in quanto non proficuo ai fini della lunga marcia conformista nelle istituzioni: Salvo poi trovarsi di fronte allo sfarinamento della “propria base” sociale, che in questo modo diventa preda degli ex nemici di classe (in seguito avversari e infine solo competitori).
Finché uno scenario siffatto non si sia ancora realizzato, un certo riformismo sociale rimanga possibile, e ci si trovi quindi nelle situazioni di cui ai precedenti punti a) e b), per quanto ci si trovi del tutto al di fuori da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria e in definitiva si tratti di lotte migliorative di difesa sociale, e fermo restando il rilievo critico che faremo circa il riformismo, vanno considerati due aspetti:
- i lavoratori e i cittadini in genere sono molto sensibili al c.d. “uovo oggi”;
- le forze politiche interessate a migliorarne le condizioni, a questo punto si trovano di fronte a una necessaria interlocuzione con lo Stato e i suoi organismi decisionali formali (governo e parlamento), suscettibile di creare problemi all’astensionismo tattico e strategico.
Infatti, i risultati ottenuti con le lotte sociali devono diventare contenuto di provvedimenti legislativi. È inutile dire, riguardo a una situazione lontana dalla rivoluzione che una legge in realtà non fa altro che recepire conquiste effettuate sul campo dai lavoratori e dai cittadini; perché se queste conquiste non pervengono a esistenza giuridica, cioè non sono integrate nell’ordinamento statale, esse esistono solo in un ambito fattuale estremamente precario, in quanto richiede il continuo mantenimento dei livelli di lotta che hanno prodotto i risultati in questioni. E questi livelli non possono essere mantenuti a tempo indeterminato, con il risultato di rendere inesistente quanto ottenuto. L’assunzione a livello di legge delle conquiste serve sia a conferire loro una coattività legale indispensabile (quand’anche sovente  possa risultare precaria) sia, tante volte, a renderle concretizzabili. Si pensi (ma la serie degli esempi potrebbe essere enorme) allo Statuto dei Lavoratori, a provvedimenti di indicizzazione dei salari o delle pensioni.
Il fatto è che si può detestare ideologicamente lo Stato quanto si vuole e puntare al suo abbattimento rivoluzionario, ma non ci si può comportare dando per raggiunto l’obiettivo sol perché desiderato. D’altro canto, se si facesse un’indagine statistica sul pagamento delle tasse o delle multe da parte dei rivoluzionari antistatalisti – e si tratta di azioni implicanti de facto (seppur coattivamente) il riconoscimento dell’autorità statale – si vedrebbe che alla fin fine nel quotidiano spicciolo questo Stato viene ovviamente riconosciuto almeno come esistente. Lo stesso Errico Malatesta con una lucida metafora scrisse che in caso di rapina anche un anarchico chiama la polizia. Il guaio è che per affermare cose di mero buon senso in ambiente libertario è sempre utile ricorrere a un precedente ricavato dai classici; e spesso nemmeno basta e, notoriamente, dimostrare l’evidente è di somma difficoltà.
Nell’attuale situazione è un dato oggettivo l’essersi atteggiato lo Stato a monopolista della forza e del diritto (le stesse norme giuridiche di enti locali sono possibili in virtù di una legittimante norma statale a monte) ed ha progressivamente realizzato una fitta trama di norme che investono la totalità dell’esistenza umana. Ai nostri fini basterà ricordare che in un sistema giuridico moderno sono individuabili due sfere: quella privata e quella pubblica. Nella prima si può fare, pattuire (e quindi dare e avere) tutto ciò che non sia vietato da leggi; nella seconda, invece, si può fare e avere solo quanto sia permesso e stabilito da leggi. Qui sta il punto.
Da esso, e dall’eventualità che per via elettorale forze antisociali e antidemocratiche arrivino al potere pubblico, discende l’esigenza di riflettere sulla congruità di un assoluto antiparlamentarismo con l’esito di un assoluto astensionismo elettorale. Infatti, i casi in cui sia opportuno esprimere un voto di “legittima difesa” (quanto meno) possono essere tutt’altro che teorici.
Esiste però un rovescio della medaglia, in quanto le situazioni in cui è possibile conseguire miglioramenti di vita più o meno generalizzati, comporta un rischio sempre incombente: che l’interesse e la pratica della politica si concentrino eccessivamente sull’azione riformista (che, peraltro, solo rare volte perviene a essere riformatrice), trascurando di mantenere alto il livello di sensibilizzazione delle masse sui sottostanti problemi strutturali. È un dato di fatto che in assenza di un alto grado di ideologizzazione delle masse  (del genere della Spagna dei primi trenta anni del secolo scorso) una posizione egemone della pratica riformista diventa un potente canale di inserimento delle masse stesse nel sistema vigente, immutata restando la loro posizione subordinata e sfruttata, e rafforzandosi i meccanismi di quella che Etienne de la Boétie già nel sec. XVIII definì “servitù volontaria”. Infatti, da quanto tempo le sinistre europee hanno abbandonato l’opera finalizzata allo sviluppo della coscienza di classe degli sfruttati, di consapevolezza della realtà soggiacente al sistema del salario e dello Stato? Anzi in relazione allo Stato si è arrivato da lungo tempo ad abbandonare ogni analisi di classe in virtù del mero fatto dell’ottenimento del suffragio universale.
Una piccola digressione storico/ideologica. Dal sacrario dogmatico della maggioranza dell’attuale movimento anarchico (povero Bakunin!) fa parte l’indignato orrore per il concetto di avanguardia, che viene assunto solo nell’accezione più esasperatamente bolscevica possibile. A parte che “avanguardia” può essere intesa in senso etimologicamente corretto, qui non si può sfuggire al confronto con l’esperienza storica del movimento dei lavoratori. Ed essa rivela una sorta di costante: la necessità dell’azione di un’avanguardia cosciente affinché le masse sfruttate si allontanino da una prospettiva riformista a corto raggio. Questo anche e soprattutto se non sia l’avanguardia a suscitare i movimenti di protesta e rivendicazione. Quando il ruolo dell’avanguardia venga abbandonato, o sia rivendicato solo da gruppuscoli litigiosi e settari, con poca credibilità, non c’è da stupirsi se il trittico “lavorare/consumare/crepare” finisca con l’esercitare un fascino diffuso, amplificato dai meccanismi della società dello spettacolo.
Di modo che il compimento del processo di omologazione da parte degli ex antagonisti, e la conseguente deriva delle masse, porta con sé il crearsi di situazioni incancrenite che, riflesse sul parlamento, lo rendono un organismo del tutto alieno, e fanno della pratica elettorale un vuoto rituale a cui ben si attagliano le amare parole di Eduardo Galeano:
 «Se le elezioni cambiassero le cose sarebbero illegali».
Stando così i fatti, l’elemento prioritario torna a essere, con maggiore drammaticità di prima, quello basilare: la lenta e faticosa ricostruzione di uno schieramento il cui antagonismo sia effettivamente rivoluzionario, nel senso di puntare alle lotte sociali per costruire attraverso di esse strumenti organizzativi orientati a porre fine allo sfruttamento di classe, impegnando il nemico su tutti i fronti possibili. Non è casuale che la lotta di classe – oltre a sviluppare la coscienza di classe – richieda a monte che ci sia un minimo di tale coscienza; e neppure desta meraviglia che da tempo la lotta di classe sia praticata dalla borghesia, che la sua coscienza di classe l’ha mantenuta eccome.
Certo è che oggi la situazione è peggiore di quando sorse il primo movimento dei lavoratori, a motivo della mancanza, a livello diffuso, di quel fattore “speranza” che all’epoca fu un potente motore. Ma da sempre el camino se hace andando. A questo si deve aggiungere una duplice consapevolezza: che da un lato la rivoluzione non è frutto di una costruzione volontarista, ma nasce da un’occasione propizia; e che, da un altro lato, le occasioni non cadono al cielo come la biblica manna. 




[1] Contro la delega per l'azione diretta. Le ragioni dell'astensionismo anarchico, in “Umanità Nova”, n. 7 del 26 febbraio 2006.
[2] C. Berberi, Astensionismo e Anarchismo, in “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y., 25.4.1936
[3] Analogo, ma con maggiore ricchezza di dettagli, il contenuto in 12 punti delle Tesi della frazione comunista astensionista sul parlamentarismo
Il parlamento è la forma di rappresentanza politica propria del regime capitalista. La critica di principio dei comunisti marxisti nei riguardi del parlamentarismo e della democrazia borghese in genere dimostra che il diritto di voto accordato a tutti i cittadini di tutte le classi sociali nelle elezioni degli organi rappresentativi statali, non può impedire né che tutto l’apparato di governo dello Stato costituisca il comitato di difesa degli interessi della classe dominante capitalistica, né che lo Stato si organizzi come lo strumento storico della lotta della borghesia contro la rivoluzione proletaria. 2. I comunisti respingono categoricamente la possibilità che la classe lavoratrice giunga al potere attraverso la maggioranza dei mandati parlamentari, invece di giungervi mediante la lotta rivoluzionaria armata. La conquista del potere politico da parte del proletariato, che costituisce il punto di partenza dell’opera di costruzione economica comunista, implica la soppressione violenta ed immediata degli organi democratici, e la loro sostituzione con gli organi del potere proletario: i Consigli operai. La classe degli sfruttatori essendo così privata di ogni diritto politico, si realizzerà la dittatura del proletariato, ossia un sistema di governo e di rappresentanza di classe. La soppressione del parlamentarismo è dunque un fine storico del movimento comunista: di più, la prima forma della società borghese che deve essere rovesciata, prima ancora della proprietà capitalistica, prima ancora della stessa macchina burocratica e governativa dello Stato, è proprio la democrazia rappresentativa. 3. Lo stesso vale per le istituzioni municipali o comunali borghesi, che è teoricamente errato contrapporre agli organi governativi. Infatti, il loro apparato è identico al meccanismo statale borghese: esse devono parimenti essere distrutte dal proletariato rivoluzionario e sostituite dai soviet locali dei deputati operai. 4. Mentre l’apparato esecutivo, militare e poliziesco dello Stato borghese organizza l’azione diretta contro la rivoluzione proletaria, la democrazia rappresentativa costituisce un mezzo di difesa indiretta, che agisce diffondendo fra le masse l’illusione che la loro emancipazione possa realizzarsi mediante un pacifico processo e che la forma dello Stato proletario possa anche essere a base parlamentare, con diritto di rappresentanza alla minoranza borghese. Il risultato di questa influenza democratica sulle masse socialiste è stato la corruzione, nel campo della teoria come in quello dell’azione, del movimento socialista della II Internazionale. 5. Nel momento attuale il compito dei comunisti, nella loro opera di preparazione ideale e materiale della rivoluzione, è prima di tutto di liberare il proletariato da queste illusioni e da questi pregiudizi, diffusi nelle sue file grazie alla complicità degli antichi capi socialdemocratici, per distoglierlo dalla sua storica via. Nei paesi in cui il regime democratico esiste già da lungo tempo, e si è profondamente radicato nelle abitudini delle masse e nella loro mentalità, come anche in quella dei partiti socialisti tradizionali, questo compito ha un’importanza molto rilevante e occupa un posto di primo piano fra i problemi della preparazione rivoluzionaria. 6. La partecipazione alle elezioni e all’attività parlamentare, nel periodo in cui nel movimento internazionale del proletariato la conquista del potere non si presentava ancora come una possibilità vicina, e non poteva ancora parlarsi di preparazione diretta alla realizzazione della dittatura proletaria, poteva ancora offrire alcune possibilità di propaganda, di agitazione e di critica. D’altro lato, nei paesi in cui una rivoluzione borghese è tuttora in corso e crea nuove istituzioni, l’intervento dei comunisti in questi organi rappresentativi in formazione può offrire la possibilità di influire sullo sviluppo degli avvenimenti per far sì che la rivoluzione sbocchi nella vittoria del proletariato. 7. Nel periodo storico attuale, aperto dalla fine della guerra mondiale con tutte le sue conseguenze sull’organizzazione sociale borghese, dalla rivoluzione russa come prima realizzazione della conquista del potere da parte del proletariato, e dalla costituzione della nuova Internazionale in antitesi al socialdemocratismo dei traditori — e in quei paesi in cui il regime democratico ha da tempo completato il processo della sua formazione — non esiste invece alcuna possibilità di utilizzare per l’opera rivoluzionaria dei comunisti la tribuna parlamentare, e la chiarezza della propaganda non meno che l’efficacia della preparazione alla lotta finale per la dittatura esige che i comunisti conducano un’agitazione per il boicottaggio delle elezioni da parte dei lavoratori. 8. In queste condizioni storiche, il problema centrale del movimento essendo divenuto la conquista rivoluzionaria del potere, tutta l’attività politica del partito di classe deve essere consacrata a questo scopo diretto. È necessario spezzare la menzogna borghese secondo cui ogni scontro fra partiti politici avversari, ogni lotta per il potere, deve necessariamente svolgersi nel quadro del meccanismo democratico, attraverso elezioni e dibattiti parlamentari; e non vi si potrà riuscire senza rompere col metodo tradizionale di chiamare gli operai alle elezioni — alle quali essi sono ammessi a fianco coi membri della classe borghese — e senza smetterla con lo spettacolo di delegati del proletariato che agiscono sullo stesso terreno parlamentare con i delegati dei suoi sfruttatori. 9. La pratica ultraparlamentare dei partiti socialisti tradizionali ha già troppo diffusa la pericolosa concezione che ogni azione politica consista nella azione elettorale e parlamentare. D’altra parte, il disgusto del proletariato per questa pratica di tradimento ha preparato un terreno favorevole agli errori sindacalisti e anarchici, che negano ogni valore all’azione politica e alla funzione del partito. È perciò che i Partiti Comunisti non otterranno mai un largo successo nella propaganda del metodo rivoluzionario marxista, se non baseranno il loro lavoro diretto per la dittatura del proletariato e per i Consigli operai sull’abbandono di ogni contatto con l’ingranaggio della democrazia borghese.  10. L’enorme importanza che si attribuisce in pratica alla campagna elettorale e ai suoi risultati, il fatto che, per un periodo abbastanza lungo, il partito le consacri tutte le sue forze e le sue risorse in uomini, in stampa, perfino in mezzi economici, concorre da un lato, malgrado ogni discorso da comizio e ogni dichiarazione teorica, a rafforzare l’impressione che si tratti della vera azione centrale per gli scopi del comunismo, dall’altro conduce all’abbandono quasi completo del lavoro di organizzazione e di preparazione rivoluzionaria, dando all’organizzazione del partito un carattere tecnico affatto contrastante con le esigenze del lavoro rivoluzionario sia legale, che illegale. 11. In quei partiti che per delibera della loro maggioranza hanno aderito alla III Internazionale, il fatto di continuare a svolgere l’azione elettorale impedisce la necessaria selezione dagli elementi socialdemocratici, senza l’eliminazione dei quali l’Internazionale Comunista fallirebbe al suo compito storico e non sarebbe più l’esercito disciplinato ed omogeneo della rivoluzione mondiale. 12. La natura stessa dei dibattiti che hanno per teatro il parlamento e gli altri organi democratici esclude ogni possibilità di passare dalla critica della politica dei partiti avversari ad una propaganda contro il principio stesso del parlamentarismo, ad una azione che oltrepassi i limiti del regolamento parlamentare; allo stesso modo che non sarebbe possibile ottenere il mandato che dà diritto alla parola se ci si rifiutasse di sottomettersi a tutte le formalità prescritte dalla procedura elettorale. Il successo nelle schermaglie parlamentari sarà sempre e soltanto in ragione dell’abilità nel maneggio dell’arma comune dei principii sui quali l’istituzione stessa si fonda e dei cavilli del regolamento; così come il successo nella lotta elettorale si giudicherà sempre e soltanto dal numero dei voti o dei seggi ottenuti. Ogni sforzo dei partiti comunisti per dare un carattere completamente diverso alla pratica del parlamentarismo non potrà non condurre al fallimento le energie che si dovranno spendere in questa fatica di Sisifo, e che la causa della rivoluzione comunista chiama senza indugio sul terreno dell’attacco diretto al regime dello sfruttamento capitalista

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