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sabato 2 febbraio 2013

OBAMA: APPRENDISTA STREGONE ALLE PRESE COL MONDO ISLAMICO, di Pier Francesco Zarcone

In linea generale gli imperialisti non hanno mai avuto cura di conoscere davvero le realtà umane che vanno a disturbare e sfruttare, e in particolare quelli statunitensi hanno sempre “brillato” per un’assenza pressoché totale di conoscenza e sensibilità, in tal modo agendo come il classico elefante nel negozio di cristalli e collezionando una serie di tragici pasticci planetari.
Anche il loro grande predecessore anglosassone, la Gran Bretagna, nella sua fase imperiale e imperialista ha fatto pasticci e danni immensi con l’uso cinico e puramente opportunista del divide et impera, ma con una differenza: la sua attività lesiva colpiva essenzialmente gli altri, mentre quella statunitense è stata ed è anche autolesionista.
Questa premessa vale appieno per la politica mediorientale di Obama e dei suo trust di “cervelli”. Non che quella di Bush jr fosse di levatura superiore, tuttavia quella dell’attuale Amministrazione statunitense è ancora più pericolosa e autolesionista – per le scelte e per le alleanze che le supportano, sempre più foriere di guai. Certo, di alleanze innaturali (e mortifere), realizzate o tentate, la storia offre una miriade di casi, come ad esempio il tentativo del Papato e di altre potenze cattoliche del Medioevo per allearsi con i Mongoli in funzione antislamica, o il patto tedesco-sovietico che aprì la via alla Seconda guerra mondiale (con successiva invasione nazista dell’Urss).

La svolta di Obama nella politica musulmana
L’annuncio di questa svolta – forse non percepito appieno quando fu fatto – è avvenuto con il famoso discorso tenuto da Obama il 4 giugno 2009 all’Università cairota di al-Azhar, nel quale fu sottolineato l’avvio di «un nuovo inizio tra Stati Uniti e musulmani». La concretizzazione si è vista negli anni successivi e ancora continua.
Questo discorso aveva a monte il pensiero del brain trust della Casa Bianca, che aveva elaborato una nuova dottrina riguardo al mondo islamico muovendo a modo suo da certi dati di fatto. L’era di Bush aveva impegnato gli Stati Uniti in dispendiose aggressioni militari all’Afghanistan e all’Iraq, rivelatesi disastrose proprio per l’aggressore (oltre che per le popolazioni vittime) e a seguito delle quali nel mondo musulmano l’immagine degli Usa (già non delle migliori) era di gran lunga peggiorata.
Quando gli studiosi di politica internazionale non politicamente condizionati affrontano il problema che qui trattiamo, il punto di partenza è sempre e solo uno: gli Stati Uniti, ritiratisi militarmente dall’Iraq, e in procinto di farlo anche dall’Afghanistan, non possono fare a meno di imporre un nuovo assetto all’area islamica, a cominciare dal Vicino Oriente. La carta geografica – integrata da vari dati economici e politici - mostra subito quali sono le due esigenze dell’imperialismo statunitense, in un XXI secolo che non si sa se sarà “americano” al pari del secolo XX: il contenimento di Cina e Russia e la disgregazione del pericoloso asse sciita collegato all’Iran, formatosi nella cosiddetta “Mezzaluna fertile” (Siria, Libano, Iraq). Infatti qui – proprio grazie all’abbattimento del regime di Saddam (sunnita) a seguito della quale la maggioranza sciita dell’Iraq è andata al governo – la convergenza fra la Siria con gli Alawiti (gruppo di derivazione sciita) al potere, l’Hezbollāh libanese e il nuovo governo iracheno è stato un fatto naturale e automatico; come pure che questa convergenza gravitasse verso Teheran. Per di più è palese l’appoggio dato dalla Russia a questo asse sciita, su cui grava l’ombra del nucleare iraniano.
L’intento di ridisegnare un nuovo assetto dell’area musulmana veramente alternativo al nemico iraniano, che ha sostituito il comunismo nell’ossessività yankee, richiede che gli Stati Uniti dispongano di un blocco di nemici dell’Iran davvero ideologicamente motivati. Poiché né i musulmani sunniti laici né quelli più moderati sono stati e sono all’altezza del ruolo, necessariamente si deve ricorrere a quelle componenti islamiche che davvero odiano gli sciiti come eretici, in nome di uno scisma sancito dalla battaglia di Karbala del 680 d.C.
Chi sarebbero costoro? Con quelle caratteristiche il mercato offre solo il radicalismo sunnita, area non del tutto uniforme che va dai musulmani di stretta e un po’ ottusa osservanza ai salafiti collegati con i jihadisti armati.
La situazione creatasi all’inizio di questo secolo fu già commentata da un articolo di Khalil al-Anani pubblicato il 19 febbraio 2009 dal prestigioso giornale egiziano al-Ahram. In esso si rilevavano quattro caratteristiche distintive della nuova realtà: 1) uno spostamento dell’importanza dal centro (Egitto, Arabia Saudita e Iraq) verso la periferia (Iran e Turchia); 2) cambiamenti strategici nella sicurezza regionale, con accordi regionali arabi e l’alleanza siriana/iraniana, nonché accordi di sicurezza regionali/internazionali, come quelli tra Israele e gli Stati Uniti, suscettibili di minare la sicurezza araba da Bab al-Mandab al Mediterraneo, e accordi di sicurezza tra Israele e potenze europee, come la Francia e la Germania, per cercare di porre fine al contrabbando di armi da parte di Hamas; 3) slittamento da un modello in cui i paesi leader della regione erano paesi arabi a un modello in cui gli Stati leader non sono arabi, come l’Iran e la Turchia, sottolineandosi che l’ossessivo interesse di Washington verso l’Iran e la sua volontà di “ammansirlo” attesta con chiarezza l’esistenza di un’oggettiva capacità di influenza iraniana e della sua possibilità di assumere in prospettiva un ruolo non secondario nelle relazioni tra i paesi arabi; 4) cambiamento nella definizione del concetto di “nemico”, e nella conseguente affermazione di una politica imperniata su assi regionali in sostituzione del vecchio concetto arabo di “azione collettiva”.
Circa quest’ultimo aspetto, il giornalista osservava che attribuendosi l’appellativo di “nemico” – anche da parte araba – ad altra potenza regionale diversa da Israele si palesava una trasformazione nella coscienza di vari regimi arabi che, da un lato, rifletteva una volontà collettiva di nascondere la testa sotto la sabbia di fronte alla minaccia posta da Israele, ma da un altro lato altresì l’incapacità di contrapporsi all’Iran.
Ai fini del mantenimento dell’egemonia statunitense, appoggiarsi sui tradizionali partners non dava più garanzie, con Israele troppo piccolo e odiato per poter essere un partner più privilegiato di quanto non serva per assicurarsi i voti della lobby ebraica statunitense; e con i tradizionali alleati – di fatto fiancheggiati dall’imprevedibile ma antislamista Gheddafi – a cui mancava il reale appoggio delle masse islamiche e che essenzialmente si reggevano solo sulla forza.
Da qui il colpo di genio: sostituirli con Arabia Saudita, Qatar e Turchia, a ciascuno dei quali attribuire un compito specifico (nell’ottica degli Usa). Cioè a dire, l’Arabia Saudita avrebbe dovuto contenere gli estremisti salafiti (!), al Qatar sarebbe spettata l’incombenza di influenzare la rete transnazionale della Fratellanza Musulmana, al fine di farne il soggetto attivo per il traghettamento delle masse islamiche verso la democrazia all’occidentale e per portarle su posizioni non ostili agli Usa (figuriamoci, si potrebbe dire); infine alla Turchia il ruolo di propagare il suo modello di “Islam moderato” e inserito nei meccanismi del sistema liberal/democratico.
In termini di fatto dal 2011 in poi non c’erano più Ben Ali a Tunisi, Mubarak al Cairo e Gheddafi a Tripoli.

Gli opportuni dispiegamenti militari
L’importanza del contenimento dell’Iran e dell’asse sciita nel nuovo assetto è confermata dai recenti dispiegamenti militari statunitensi nell’area. Alla fine dei vari spostamenti (già centinaia di carri armati e mezzi di trasporto, prima in Iraq, sono stati trasferiti in Kuwait, e il Bahrein ospita la 5ª Flotta e il Quartier Generale della US Naval Forces Central Command), ci saranno in tutto: 23.000 soldati Usa in Kuwait, 3.000 negli Emirati Arabi Uniti, 7.000 in Qatar, 5.000 nel Bahrein, tra il Kuwait e la Giordania la 29ª Combat Aviation Brigade della Guardia Nazionale del Maryland. Negli Emirati Arabi Uniti gli Usa hanno le basi di Jabal ‘Ali e al-Dhafra, operative per gli aerei di rifornimento in volo e i ricognitori. Il Qatar dal canto suo ospita dal 2002 la grande base di al-Udaid, le basi di Assaliyah e di Doha, ed è punto avanzato del Centcom-US Central Command di Tampa in Florida e dell’Air Component Command. Parallelamente gli Stati Uniti vanno armando a dismisura gli alleati del Golfo Persico: batterie antimissile Thaad per gli Emirati e caccia F-15SA per l’Arabia Saudita oltre a missili Patriot.
In definitiva Obama sta raccogliendo nell’area una forza di pronto intervento verso l’Iran e punterebbe a realizzare una vera e propria struttura militare integrata (missilistica e aereo-navale) con gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), ossia Arabia Saudita, Bahrain, Emirati, Oman, Qatar e Kuwait. L’obiettivo Iran è quindi palese.
E non basta. Essendo il Golfo Persico uno snodo essenziale per i traffici energetici (per lo stretto di Ormuz transita il 40% del petrolio), diventa fondamentale ridurne l’importanza strategica, onde evitare un disastro vuoi per eventi bellici vuoi per un’eventuale reiterazione (e attuazione) della minaccia di chiusura dello stretto di Ormuz già fatta dall’Iran nel 2011. Si tratta quindi di cercare alternative affinché il petrolio dei paesi del Ccg proceda direttamente verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano.

Il “tallone d’Achille” della svolta di Obama
Abbattuti i tradizionali, la svolta sembrava ben avviata, e tutti a decantare la “primavera araba”. Poi però, come purtroppo in fondo era naturale, è arrivato subito l’inverno, islamico nella specie. Qualcuno ora definisce malata la politica di Obama & C. in quanto generatrice di un’epidemia che potrebbe consegnare il Vicino Oriente (e non solo) al radicalismo islamico. D’altro canto oggi nell’area araba del mondo musulmano i regimi laici rimasti sono solo quello siriano e (lottizzazione confessionale a parte, o forse proprio grazie a essa) quello libanese. Tutto il Nordafrica è nelle mani di partiti religiosi islamici (Marocco incluso).
Va detto chiaramente che nella prospettiva statunitense non c’è posto per primavere arabe di sorta, che siano foriere di democrazie correttamente funzionanti, ma solo per la nascita di nuovi regimi autoritari (magari sanciti da elezioni) che stiano al gioco di Washington; e peggio per chi non vuole affatto correre il rischio di finire sotto l’arcaica sharia. Niente di nuovo, poiché non è certo con la difesa delle aperture civili e culturali e della libertà politica che l’imperialismo consegue i suoi obiettivi.
Se il problema stava nel passare a nuovi assetti che ottenessero il plauso delle masse islamiche – a cui erano diventati estranei i regimi più o meno laici – era ovvio che queste masse riversassero la loro islamicità nelle urne elettorali, tanto più che i partiti islamisti non avevano mancato di prospettare allettanti politiche economico/sociali alla maniera di Berlusconi in Italia.
La positiva indifferenza manifestata dalle potenze occidentali (e non solo dagli Usa) di fronte alla caduta dei vecchi regimi rendeva abbastanza palese la mancanza di appoggio (e di finanziamenti) per i partiti non religiosi.
Stando così le cose, la Fratellanza Musulmana – network prima demonizzato e poi improvvisamente sdoganato come “moderato” – non poteva che vincere. Purtroppo non sappiamo se i consiglieri di Obama abbiano conoscenza dell’opera del grande ideologo della Fratellanza Musulmana, l’egiziano Sayyid Qubt (fatto impiccare da Nasser nel 1966), a buon diritto considerabile anche uno dei maestri del pensiero di tutto il radicalismo islamico successivo, bin Ladin compreso. Oggi in Tunisia ed Egitto per laici, musulmani “normali” e minoranze religiose la situazione è in via di palese aggravamento, soprattutto per il campo libero lasciato ai picchiatori salafiti.
Va pure considerato che né il presidente egiziano Muhammad Morsi, né il tunisino Gannushi, né il re dell’Arabia Saudita, Abdallah ibn Saud, né ‘Ali Hamad bin Khalifa at-Thani, emiro del Qatar, hanno molta sensibilità democratica, e il turco Erdoğan è fortemente autoritario, di modo che non c’è da aspettarsi molto sul piano dei diritti civili, anche se nessuno aprioristicamente esclude la possibilità di buoni affari con le nuove classi dirigenti islamiche. Intanto il radicalismo si diffonde (non si dimentichi che nell’elettorato egiziano Fratelli Musulmani e salafiti sono maggioritari - grazie anche all’alto tasso di astensionismo: per la nuova Costituzione ha votato solo il 32,9% degli elettori!). In più ormai la tentazione dei nuovi “grandi alleati” degli Stati Uniti verso iniziative politiche del tutto proprie è in crescita grazie all’aumentato potere di ricatto di cui dispongono.
Qui sta il dato più preoccupante, giacché sarebbe un grande errore considerare Arabia Saudita, Qatar e Turchia di Erdoğan dei “fantocci” dell’imperialismo statunitense (come si diceva un tempo). Come testé accennato, essi vanno sempre più unendo lo svolgimento dei “compiti assegnati” al perseguimento di obiettivi specifici, spesso contrastanti con gli intendimenti dell’alleato statunitense, oltre che pericolosi per tutti.
L’Arabia Saudita non ha mai smesso di appoggiare finanziariamente l’espansione di una vasta rete internazionale di scuole coraniche e moschee gestite da imām radicali: è l’espansione di un wahhabismo concettualmente non distinguibile dal salafismo.
La Turchia, con il tandem Erdoğan-Davutoğlu (è il ministro degli Esteri) sviluppa una politica neo-ottomana – cioè mirante a recuperare influenza sui territori arabi del vecchio impero – che sta alla base della scelta di sostenere più del dovuto l’opposizione siriana, con ciò alienandosi una notevole parte dell’opinione pubblica turca.
Dal canto suo il Qatar è – forse più dell’Arabia Saudita – un alleato ambiguo e problematico. Anch’esso emirato sunnita e wahhabita (capitale Doha), essenziale fonte di finanziamento e rifornimento bellico per i gruppi islamici jihadisti, coopera però in Afghanistan con gli Usa, nel 2006; al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è stato l’unico a votare contro la risoluzione che condannava Teheran per l’avvio del nucleare e nel 2010 ha stipulato con l’Iran un accordo per la reciproca sicurezza contro il terrorismo; ha ottime relazioni con Hamas, ma fino al 2008-2009 Israele (benché non riconosciuta a livello diplomatico) aveva a Doha un centro commerciale; ottimi erano i suoi rapporti politici ed economici con la Siria, bruscamente ribaltati quando l’emirato ha deciso di armare e rifornire la ribellione siriana. Di ulteriori interventi del Qatar in totale dissonanza con la linea di totale lotta al terrorismo islamico degli Stati Uniti se ne individuano ben più di uno, a cominciare dai poderosi aiuti del Qatar ai gruppi islamisti che hanno abbattuto Gheddafi, dalla cessione di buona parte dell’arsenale del defunto dittatore libico ai jihadisti della Siria e dell’area sahariana, al finanziamento dei somali Shabab al-Mujahidin (legati ad al-Qaida), agli aiuti ai ribelli islamisti del Mali, agli aiuti ad Hamas ecc.
Le dimensioni lillipuziane del Qatar non devono trarre in inganno (225.000 abitanti e 1.700 immigrati per ragioni di lavoro), e neppure la sua oggettiva insignificanza militare (un piccolo esercito per lo più fatto di mercenari pakistani e del Bangladesh), giacché tutto questo è compensato dalle sue immense risorse finanziarie e dalla forza di persuasione e di pressione svolta dalla sua emittente al-Jazeera [La Penisola].

La Siria dovrebbe far parte del nuovo assetto, ma lì qualcosa sembra proprio non funzionare
La disarticolazione dell’asse sciita nella Mezzaluna Fertile passa ovviamente per la Siria, nel mirino fin dalla sconfitta israeliana in Libano nel 2006 ad opera di Hezbollāh, che essa appoggia. Ma passa anche per l’Iraq, governato dalla compagine sciita di Nuri al-Maliki, ma ancora per niente uscito dalla sfera di “interessamento” statunitense. Il segnale non sta solo nelle recenti agitazioni di piazza dei sunniti, ma anche e soprattutto in una notizia data dal giornale turco Aydınlık Gazete [La Gazzetta luminosa]: nell’Accademia di Polizia di Golbası – un complesso isolato e capace di accogliere centinaia di persone – evidentemente col consenso del governo di Erdoğan si stanno addestrando ex partigiani del defunto e demonizzato Saddam come base per un futuro “Esercito Libero Iracheno” che in Mesopotamia dovrebbe operare come il cosiddetto “Esercito Libero Siriano”.
Ora, però, non sembra che in Siria le cose vadano nel verso programmato.
Senza – per carità! – voler dare un giudizio positivo del regime degli Assad, va detto che dall’iniziale rivolta di una parte della popolazione contro il regime si è passati ben presto a qualcosa d’altro: l’intervento di un’internazionale jihadista (ormai più che egemone della rivolta) e di una coalizione internazionale oggettivamente non giustificata né dalla pericolosità né dalla particolare efferatezza di quel regime (almeno se guardiamo agli standard arabi). Si è quindi giunti a una lotta mortale fra jihadisti sunniti, nella stragrande maggioranza stranieri, e quel che resta dei ribelli siriani per nazionalità, da un lato, e alawiti, sciiti, cristiani (ortodossi, giacobiti, cattolici), drusi, sunniti moderati e laici, da un altro lato.
I grandi mass media circa l’evolversi della situazione militare siriana non dicono granché di informativo, limitandosi a fornire al pubblico effimere emozioni dando le cifre dei morti e feriti civili. Il dogma basilare di queste news (?) non muta: i ribelli hanno la situazione in pugno e Assad è alle corde.
Però sta di fatto che da 22 mesi circa l’esercito regolare siriano continua a combattere senza defezioni di rilievo nella catena di comando e fra le truppe; inoltre da bloggers “politicamente scorretti” si sa della formazione di varie milizie volontarie locali per la difesa contro i ribelli, che avvengono scontri armati fra questi ultimi e milizie curde e che il governo di Damasco – grazie ai rifornimenti massicci di Iran, Russia e Cina – ha il controllo della maggior parte del territorio dopo la distruzione di parecchie cellule armate e l’eliminazione di varie migliaia di ribelli. Ciò quand’anche non abbia avuto ancora ragione dei nuclei di guerriglieri in altri punti del territorio, come le zone di Damasco e Aleppo. L’uso di autobombe, di attacchi suicidi e l’accrescersi delle violenze sui civili attestano che i ribelli non se la passano proprio bene. E di intervento straniero diretto non si parla più da un pezzo. Le deprecazioni internazionali sono altra cosa.
D’altro canto, jihadisti e ribelli vari non potevano pensare di sconfiggere un esercito ben armato e addestrato se non a condizione che esso si dissolvesse sulla spinta degli eventi. E questo non è avvenuto. Sembra che tra i finanziatori sauditi e del Golfo sia grande la delusione per la piega assunta dagli eventi e – come si suole dire – abbiano cominciato a stringere i cordoni delle borse. Non pare che sia stato dato spazio mediatico, giustamente, ai ringraziamenti del Capo di Stato Maggiore Generale siriano ai soldati e alla popolazione che li sostiene per aver respinto il complotto straniero contro la Siria.

E ora?
Washington e i suoi alleati sono tutti alle prese con un gioco pericolosissimo, che può esplodere nelle loro mani in qualsiasi momento, e probabilmente alla fine esploderà. Nessuno è esente dal rischio poiché la certezza che il “mostro di Frankenstein” si rivolti contro i suoi creatori è assoluta. Gli Stati Uniti – per quanto con i fatti facciano finta di distinguere fra jihadisti buoni e cattivi – non sono usciti e non usciranno mai dal mirino dei combattenti di Allah. Tant’è che li utilizzano indirettamente, cioè per interposta entità islamica.
Le dirigenze del Qatar e dell’Arabia Saudita sono ricche di vizi che ne fanno qualcosa di islamicamente assai reprensibile, per cui non ci si dovrà stupire se un domani la furia dei jihadisti si rivolgesse contro quelle monarchie.
La Turchia dal canto suo, ospitando e addestrando combattenti radicali corre il rischio di diventare nuovo teatro di sovversione, sperando che non si abbia mai un collegamento fra jihadisti e Pkk. E poiché la repressione sarebbe affidata all’esercito turco – che nella sua storia non è mai andato per il sottile – si verificherebbe un bagno di sangue peggiore di quello siriano.
Forse a Washington qualcuno sta ripensando sulla fondatezza della svolta di Obama, e i fatti a sostegno del ripensamento non mancano: la morte a Bengasi dell’ambasciatore Stevens, l’espansione jihadista in Mali che ha portato all’invio di truppe francesi, il caos politico egiziano, la crescente chiarezza di cosa rappresenterebbe una vittoria militare dei ribelli siriani, ormai egemonizzati dal radicalismo islamico. Staremo a vedere.
Comunque sia in Tunisia sia in Egitto le piazze sono in subbuglio, e potrà accadere di tutto. Ma, se l’attuale stato di cose finisse ribaltato, l’iniziativa potrebbe venire solo dai militari, tornandosi così al punto di partenza.

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