In linea generale
gli imperialisti non hanno mai avuto cura di conoscere davvero le realtà umane
che vanno a disturbare e sfruttare, e in particolare quelli statunitensi hanno
sempre “brillato” per un’assenza pressoché totale di conoscenza e sensibilità,
in tal modo agendo come il classico elefante nel negozio di cristalli e
collezionando una serie di tragici pasticci planetari.
Anche il loro grande
predecessore anglosassone, la Gran Bretagna, nella sua fase imperiale e
imperialista ha fatto pasticci e danni immensi con l’uso cinico e puramente
opportunista del divide et impera, ma
con una differenza: la sua attività lesiva colpiva essenzialmente gli altri,
mentre quella statunitense è stata ed è anche autolesionista.
Questa premessa
vale appieno per la politica mediorientale di Obama e dei suo trust di
“cervelli”. Non che quella di Bush jr fosse di levatura superiore, tuttavia
quella dell’attuale Amministrazione statunitense è ancora più pericolosa e
autolesionista – per le scelte e per le alleanze che le supportano, sempre più
foriere di guai. Certo, di alleanze innaturali (e mortifere), realizzate o
tentate, la storia offre una miriade di casi, come ad esempio il tentativo del
Papato e di altre potenze cattoliche del Medioevo per allearsi con i Mongoli in
funzione antislamica, o il patto tedesco-sovietico che aprì la via alla Seconda
guerra mondiale (con successiva invasione nazista dell’Urss).
La svolta di Obama nella politica musulmana
L’annuncio di
questa svolta – forse non percepito appieno quando fu fatto – è avvenuto con il
famoso discorso tenuto da Obama il 4 giugno 2009 all’Università cairota di al-Azhar, nel quale fu sottolineato
l’avvio di «un nuovo inizio tra Stati Uniti e musulmani». La concretizzazione si è vista negli anni
successivi e ancora continua.
Questo discorso
aveva a monte il pensiero del brain trust
della Casa Bianca, che aveva elaborato una nuova dottrina riguardo al mondo
islamico muovendo a modo suo da certi dati di fatto. L’era di Bush aveva
impegnato gli Stati Uniti in dispendiose aggressioni militari all’Afghanistan e
all’Iraq, rivelatesi disastrose proprio per l’aggressore (oltre che per le
popolazioni vittime) e a seguito delle quali nel mondo musulmano l’immagine
degli Usa (già non delle migliori) era di gran lunga peggiorata.
Quando gli studiosi
di politica internazionale non politicamente condizionati affrontano il
problema che qui trattiamo, il punto di partenza è sempre e solo uno: gli Stati
Uniti, ritiratisi militarmente dall’Iraq, e in procinto di farlo anche
dall’Afghanistan, non possono fare a meno di imporre un nuovo assetto all’area
islamica, a cominciare dal Vicino Oriente. La carta geografica – integrata da vari dati economici e politici -
mostra subito quali sono le due esigenze dell’imperialismo statunitense, in un
XXI secolo che non si sa se sarà “americano” al pari del secolo XX: il
contenimento di Cina e Russia e la disgregazione del pericoloso asse sciita
collegato all’Iran, formatosi nella cosiddetta “Mezzaluna fertile” (Siria,
Libano, Iraq). Infatti qui – proprio grazie all’abbattimento del regime di
Saddam (sunnita) a seguito della quale la maggioranza sciita dell’Iraq è andata
al governo – la convergenza fra la Siria con gli Alawiti (gruppo di derivazione
sciita) al potere, l’Hezbollāh libanese e il nuovo governo iracheno è stato un
fatto naturale e automatico; come pure che questa convergenza gravitasse verso
Teheran. Per di più è palese l’appoggio dato dalla Russia a questo asse sciita,
su cui grava l’ombra del nucleare iraniano.
L’intento di ridisegnare un nuovo assetto dell’area musulmana veramente alternativo al nemico iraniano, che ha sostituito il comunismo nell’ossessività yankee, richiede che gli Stati Uniti dispongano di un blocco di nemici dell’Iran davvero ideologicamente motivati. Poiché né i musulmani sunniti laici né quelli più moderati sono stati e sono all’altezza del ruolo, necessariamente si deve ricorrere a quelle componenti islamiche che davvero odiano gli sciiti come eretici, in nome di uno scisma sancito dalla battaglia di Karbala del 680 d.C.
Chi sarebbero
costoro? Con quelle caratteristiche il mercato offre solo il radicalismo
sunnita, area non del tutto uniforme che va dai musulmani di stretta e un po’
ottusa osservanza ai salafiti collegati con i jihadisti armati.
La situazione
creatasi all’inizio di questo secolo fu già commentata da un articolo di Khalil
al-Anani pubblicato il 19 febbraio 2009 dal prestigioso giornale egiziano al-Ahram. In esso si rilevavano quattro caratteristiche distintive della nuova realtà: 1) uno spostamento dell’importanza dal centro
(Egitto, Arabia Saudita e Iraq) verso la periferia (Iran e Turchia); 2) cambiamenti
strategici nella sicurezza regionale, con accordi regionali arabi e l’alleanza
siriana/iraniana, nonché accordi di sicurezza regionali/internazionali, come
quelli tra Israele e gli Stati Uniti, suscettibili di minare la sicurezza araba
da Bab al-Mandab al Mediterraneo, e accordi di sicurezza tra Israele e potenze europee,
come la Francia e la Germania, per cercare di porre fine al contrabbando di
armi da parte di Hamas; 3) slittamento da un modello in cui i paesi leader
della regione erano paesi arabi a un modello in cui gli Stati leader non sono
arabi, come l’Iran e la Turchia, sottolineandosi che l’ossessivo interesse di
Washington verso l’Iran e la sua volontà di “ammansirlo” attesta con chiarezza
l’esistenza di un’oggettiva capacità di influenza iraniana e della sua
possibilità di assumere in prospettiva un ruolo non secondario nelle relazioni
tra i paesi arabi; 4) cambiamento nella definizione del concetto di “nemico”, e
nella conseguente affermazione di una politica imperniata su assi regionali in
sostituzione del vecchio concetto arabo di “azione collettiva”.
Circa quest’ultimo
aspetto, il giornalista osservava che attribuendosi l’appellativo di “nemico” – anche da parte
araba – ad altra potenza regionale diversa da Israele si palesava una
trasformazione nella coscienza di vari regimi arabi che, da un lato, rifletteva
una volontà collettiva di nascondere la testa sotto la sabbia di fronte alla
minaccia posta da Israele, ma da un altro lato altresì l’incapacità di contrapporsi
all’Iran.
Ai fini del
mantenimento dell’egemonia statunitense, appoggiarsi sui tradizionali partners
non dava più garanzie, con Israele troppo piccolo e odiato per poter essere un
partner più privilegiato di quanto non serva per assicurarsi i voti della lobby ebraica statunitense; e con i
tradizionali alleati – di fatto fiancheggiati dall’imprevedibile ma antislamista
Gheddafi – a cui mancava il reale appoggio delle masse islamiche e che
essenzialmente si reggevano solo sulla forza.
Da qui il colpo di
genio: sostituirli con Arabia Saudita,
Qatar e Turchia, a ciascuno dei quali attribuire un compito specifico
(nell’ottica degli Usa). Cioè a dire, l’Arabia Saudita avrebbe dovuto contenere
gli estremisti salafiti (!), al Qatar sarebbe spettata l’incombenza di
influenzare la rete transnazionale della Fratellanza Musulmana, al fine di
farne il soggetto attivo per il traghettamento delle masse islamiche verso la
democrazia all’occidentale e per portarle su posizioni non ostili agli Usa
(figuriamoci, si potrebbe dire); infine alla Turchia il ruolo di propagare il
suo modello di “Islam moderato” e inserito nei meccanismi del sistema
liberal/democratico.
In termini di fatto
dal 2011 in poi non c’erano più Ben Ali a Tunisi, Mubarak al Cairo e Gheddafi a Tripoli.
Gli opportuni dispiegamenti militari
L’importanza del
contenimento dell’Iran e dell’asse sciita nel nuovo assetto è confermata dai
recenti dispiegamenti militari statunitensi nell’area. Alla fine dei vari
spostamenti (già centinaia di carri armati e mezzi di trasporto, prima in Iraq,
sono stati trasferiti in Kuwait, e il Bahrein ospita la 5ª Flotta e il Quartier
Generale della US Naval Forces Central
Command), ci saranno in tutto: 23.000 soldati Usa in Kuwait, 3.000 negli
Emirati Arabi Uniti, 7.000 in Qatar, 5.000 nel Bahrein, tra il Kuwait e la
Giordania la 29ª Combat Aviation Brigade
della Guardia Nazionale del Maryland. Negli Emirati Arabi Uniti gli Usa hanno
le basi di Jabal ‘Ali e al-Dhafra, operative per gli aerei di rifornimento in
volo e i ricognitori. Il Qatar dal canto
suo ospita dal 2002 la grande base di al-Udaid, le basi di Assaliyah e di Doha,
ed è punto avanzato del Centcom-US
Central Command di Tampa in Florida e dell’Air Component Command. Parallelamente gli Stati Uniti vanno armando
a dismisura gli alleati del Golfo Persico: batterie antimissile Thaad per gli
Emirati e caccia F-15SA per l’Arabia Saudita oltre a missili Patriot.
In definitiva Obama
sta raccogliendo nell’area una forza di pronto intervento verso l’Iran e
punterebbe a realizzare una vera e propria struttura militare integrata
(missilistica e aereo-navale) con gli Stati del Consiglio di Cooperazione del
Golfo (Ccg), ossia Arabia Saudita, Bahrain, Emirati, Oman, Qatar e Kuwait.
L’obiettivo Iran è quindi palese.
E non basta.
Essendo il Golfo Persico uno snodo essenziale per i traffici energetici (per lo
stretto di Ormuz transita il 40% del petrolio), diventa fondamentale ridurne
l’importanza strategica, onde evitare un disastro vuoi per eventi bellici vuoi
per un’eventuale reiterazione (e attuazione) della minaccia di chiusura dello
stretto di Ormuz già fatta dall’Iran nel 2011. Si tratta quindi di cercare
alternative affinché il petrolio dei paesi del Ccg proceda direttamente verso
il Mar Rosso e l’Oceano Indiano.
Il “tallone d’Achille” della svolta di Obama
Abbattuti i
tradizionali, la svolta sembrava ben avviata, e tutti a decantare la “primavera
araba”. Poi però, come purtroppo in fondo era naturale, è arrivato subito
l’inverno, islamico nella specie. Qualcuno ora definisce malata la politica di
Obama & C. in quanto generatrice di un’epidemia che potrebbe consegnare il Vicino
Oriente (e non solo) al radicalismo islamico. D’altro canto oggi nell’area
araba del mondo musulmano i regimi laici rimasti sono solo quello siriano e
(lottizzazione confessionale a parte, o forse proprio grazie a essa) quello
libanese. Tutto il Nordafrica è nelle mani di partiti religiosi islamici
(Marocco incluso).
Va detto
chiaramente che nella prospettiva statunitense non c’è posto per primavere
arabe di sorta, che siano foriere di democrazie correttamente funzionanti, ma solo
per la nascita di nuovi regimi autoritari (magari sanciti da elezioni) che
stiano al gioco di Washington; e peggio per chi non vuole affatto correre il
rischio di finire sotto l’arcaica sharia.
Niente di nuovo, poiché non è certo con la difesa delle aperture civili e
culturali e della libertà politica che l’imperialismo consegue i suoi
obiettivi.
Se il problema
stava nel passare a nuovi assetti che ottenessero il plauso delle masse
islamiche – a cui erano diventati estranei i regimi più o meno laici – era
ovvio che queste masse riversassero la loro islamicità nelle urne elettorali,
tanto più che i partiti islamisti non avevano mancato di prospettare allettanti
politiche economico/sociali alla maniera di Berlusconi in Italia.
La positiva
indifferenza manifestata dalle potenze occidentali (e non solo dagli Usa) di
fronte alla caduta dei vecchi regimi rendeva abbastanza palese la mancanza di
appoggio (e di finanziamenti) per i partiti non religiosi.
Stando così le
cose, la Fratellanza Musulmana – network
prima demonizzato e poi improvvisamente sdoganato come “moderato” – non poteva
che vincere. Purtroppo non sappiamo se i consiglieri di Obama abbiano
conoscenza dell’opera del grande ideologo della Fratellanza Musulmana,
l’egiziano Sayyid Qubt (fatto impiccare da Nasser nel 1966), a buon diritto
considerabile anche uno dei maestri del pensiero di tutto il radicalismo
islamico successivo, bin Ladin compreso. Oggi in Tunisia ed Egitto per laici,
musulmani “normali” e minoranze religiose la situazione è in via di palese
aggravamento, soprattutto per il campo libero lasciato ai picchiatori salafiti.
Va pure considerato
che né il presidente egiziano Muhammad
Morsi, né il tunisino Gannushi, né il re dell’Arabia Saudita, Abdallah ibn
Saud, né ‘Ali Hamad bin Khalifa at-Thani, emiro del Qatar, hanno molta
sensibilità democratica, e il turco Erdoğan è fortemente autoritario, di modo
che non c’è da aspettarsi molto sul piano dei diritti civili, anche se nessuno
aprioristicamente esclude la possibilità di buoni affari con le nuove classi
dirigenti islamiche. Intanto il radicalismo si diffonde (non si dimentichi che
nell’elettorato egiziano Fratelli Musulmani e salafiti sono maggioritari -
grazie anche all’alto tasso di astensionismo: per la nuova Costituzione ha
votato solo il 32,9% degli elettori!). In più ormai la tentazione dei nuovi
“grandi alleati” degli Stati Uniti verso iniziative politiche del tutto proprie
è in crescita grazie all’aumentato potere di ricatto di cui dispongono.
Qui sta il dato più
preoccupante, giacché sarebbe un grande errore considerare Arabia Saudita,
Qatar e Turchia di Erdoğan dei “fantocci” dell’imperialismo statunitense (come
si diceva un tempo). Come testé accennato, essi vanno sempre più unendo lo
svolgimento dei “compiti assegnati” al perseguimento di obiettivi specifici,
spesso contrastanti con gli intendimenti dell’alleato statunitense, oltre che
pericolosi per tutti.
L’Arabia Saudita
non ha mai smesso di appoggiare finanziariamente l’espansione di una vasta rete
internazionale di scuole coraniche e moschee gestite da imām radicali: è l’espansione di un wahhabismo concettualmente non
distinguibile dal salafismo.
La Turchia, con il
tandem Erdoğan-Davutoğlu (è il ministro degli Esteri) sviluppa una politica
neo-ottomana – cioè mirante a recuperare influenza sui territori arabi del
vecchio impero – che sta alla base della scelta di sostenere più del dovuto
l’opposizione siriana, con ciò alienandosi una notevole parte dell’opinione
pubblica turca.
Dal canto suo il
Qatar è – forse più dell’Arabia Saudita – un alleato ambiguo e
problematico. Anch’esso emirato sunnita
e wahhabita (capitale Doha), essenziale fonte di finanziamento e rifornimento
bellico per i gruppi islamici jihadisti, coopera però in Afghanistan con gli
Usa, nel 2006; al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è stato l’unico a votare
contro la risoluzione che condannava Teheran per l’avvio del nucleare e nel 2010 ha stipulato con l’Iran un accordo per la reciproca sicurezza contro il terrorismo; ha ottime relazioni con Hamas, ma fino al 2008-2009 Israele (benché non riconosciuta a
livello diplomatico) aveva a Doha un centro commerciale; ottimi erano i suoi
rapporti politici ed economici con la Siria, bruscamente ribaltati quando
l’emirato ha deciso di armare e rifornire la ribellione siriana. Di ulteriori
interventi del Qatar in totale dissonanza con la linea di totale lotta al
terrorismo islamico degli Stati Uniti se ne individuano ben più di uno, a
cominciare dai poderosi aiuti del Qatar ai gruppi islamisti che hanno abbattuto
Gheddafi, dalla cessione di buona parte dell’arsenale del defunto dittatore
libico ai jihadisti della Siria e dell’area sahariana, al finanziamento dei
somali Shabab al-Mujahidin (legati ad
al-Qaida), agli aiuti ai ribelli islamisti del Mali, agli aiuti ad Hamas ecc.
Le dimensioni
lillipuziane del Qatar non devono trarre in inganno (225.000 abitanti e 1.700
immigrati per ragioni di lavoro), e neppure la sua oggettiva insignificanza
militare (un piccolo esercito per lo più fatto di mercenari pakistani e del
Bangladesh), giacché tutto questo è compensato dalle sue immense risorse
finanziarie e dalla forza di persuasione e di pressione svolta dalla sua
emittente al-Jazeera [La Penisola].
La Siria dovrebbe far parte del nuovo assetto, ma lì qualcosa sembra proprio non funzionare
La disarticolazione dell’asse sciita nella Mezzaluna Fertile passa ovviamente per la Siria, nel mirino fin dalla sconfitta israeliana in Libano nel 2006 ad opera di Hezbollāh, che essa appoggia. Ma passa anche per l’Iraq, governato dalla compagine sciita di Nuri al-Maliki, ma ancora per niente uscito dalla sfera di “interessamento” statunitense. Il segnale non sta solo nelle recenti agitazioni di piazza dei sunniti, ma anche e soprattutto in una notizia data dal giornale turco Aydınlık Gazete [La Gazzetta luminosa]: nell’Accademia di Polizia di Golbası – un complesso isolato e capace di accogliere centinaia di persone – evidentemente col consenso del governo di Erdoğan si stanno addestrando ex partigiani del defunto e demonizzato Saddam come base per un futuro “Esercito Libero Iracheno” che in Mesopotamia dovrebbe operare come il cosiddetto “Esercito Libero Siriano”.
Ora, però, non
sembra che in Siria le cose vadano nel verso programmato.
Senza – per carità!
– voler dare un giudizio positivo del regime degli Assad, va detto che
dall’iniziale rivolta di una parte della popolazione contro il regime si è
passati ben presto a qualcosa d’altro: l’intervento di un’internazionale
jihadista (ormai più che egemone della rivolta) e di una coalizione
internazionale oggettivamente non giustificata né dalla pericolosità né dalla
particolare efferatezza di quel regime (almeno se guardiamo agli standard
arabi). Si è quindi giunti a una lotta mortale fra jihadisti sunniti, nella
stragrande maggioranza stranieri, e quel che resta dei ribelli siriani per
nazionalità, da un lato, e alawiti, sciiti, cristiani (ortodossi, giacobiti,
cattolici), drusi, sunniti moderati e laici, da un altro lato.
I grandi mass media
circa l’evolversi della situazione militare siriana non dicono granché di
informativo, limitandosi a fornire al pubblico effimere emozioni dando le cifre
dei morti e feriti civili. Il dogma basilare di queste news (?) non muta: i ribelli
hanno la situazione in pugno e Assad è alle corde.
Però sta di fatto
che da 22 mesi circa l’esercito regolare siriano continua a combattere senza
defezioni di rilievo nella catena di comando e fra le truppe; inoltre da bloggers “politicamente scorretti” si sa
della formazione di varie milizie volontarie locali per la difesa contro i
ribelli, che avvengono scontri armati fra questi ultimi e milizie curde e che
il governo di Damasco – grazie ai rifornimenti massicci di Iran, Russia e Cina
– ha il controllo della maggior parte del territorio dopo la distruzione di parecchie
cellule armate e l’eliminazione di varie migliaia di ribelli. Ciò quand’anche
non abbia avuto ancora ragione dei nuclei di guerriglieri in altri punti del
territorio, come le zone di Damasco e Aleppo. L’uso di autobombe, di attacchi
suicidi e l’accrescersi delle violenze sui civili attestano che i ribelli non
se la passano proprio bene. E di intervento straniero diretto non si parla più
da un pezzo. Le deprecazioni internazionali sono altra cosa.
D’altro canto,
jihadisti e ribelli vari non potevano pensare di sconfiggere un esercito ben
armato e addestrato se non a condizione che esso si dissolvesse sulla spinta
degli eventi. E questo non è avvenuto. Sembra che tra i finanziatori sauditi e
del Golfo sia grande la delusione per la piega assunta dagli eventi e – come si
suole dire – abbiano cominciato a stringere i cordoni delle borse. Non pare che
sia stato dato spazio mediatico, giustamente, ai ringraziamenti del Capo di
Stato Maggiore Generale siriano ai soldati e alla popolazione che li sostiene per
aver respinto il complotto straniero contro la Siria.
E ora?
Washington e i suoi
alleati sono tutti alle prese con un gioco pericolosissimo, che può esplodere
nelle loro mani in qualsiasi momento, e probabilmente alla fine esploderà.
Nessuno è esente dal rischio poiché la certezza che il “mostro di Frankenstein”
si rivolti contro i suoi creatori è assoluta. Gli Stati Uniti – per quanto con
i fatti facciano finta di distinguere fra jihadisti buoni e cattivi – non sono
usciti e non usciranno mai dal mirino dei combattenti di Allah. Tant’è che li
utilizzano indirettamente, cioè per interposta entità islamica.
Le dirigenze del
Qatar e dell’Arabia Saudita sono ricche di vizi che ne fanno qualcosa di
islamicamente assai reprensibile, per cui non ci si dovrà stupire se un domani
la furia dei jihadisti si rivolgesse contro quelle monarchie.
La Turchia dal
canto suo, ospitando e addestrando combattenti radicali corre il rischio di
diventare nuovo teatro di sovversione, sperando che non si abbia mai un
collegamento fra jihadisti e Pkk. E poiché la repressione sarebbe affidata
all’esercito turco – che nella sua storia non è mai andato per il sottile – si
verificherebbe un bagno di sangue peggiore di quello siriano.
Forse a Washington
qualcuno sta ripensando sulla fondatezza della svolta di Obama, e i fatti a
sostegno del ripensamento non mancano: la morte a Bengasi dell’ambasciatore
Stevens, l’espansione jihadista in Mali che ha portato all’invio di truppe
francesi, il caos politico egiziano, la crescente chiarezza di cosa
rappresenterebbe una vittoria militare dei ribelli siriani, ormai egemonizzati
dal radicalismo islamico. Staremo a vedere.
Comunque sia in
Tunisia sia in Egitto le piazze sono in subbuglio, e potrà accadere di tutto.
Ma, se l’attuale stato di cose finisse ribaltato, l’iniziativa potrebbe venire
solo dai militari, tornandosi così al punto di partenza.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com