CONTENUTI DEL BLOG

giovedì 21 febbraio 2013

IL GOVERNO MONTI E IL CONSENSO BIPARTITICO NELLA POSTDEMOCRAZIA ITALIANA (Prima parte), di Michele Nobile

Riproponiamo questo articolo di Michele Nobile (pubblicato nel marzo 2012) perché riteniamo possa essere utile a chiarire la natura postdemocratica del regime politico italiano, nel quale le elezioni sono oramai solo momento di legittimazione di una casta partitico-statale che rappresenta gli interessi dell’imperialismo italiano contro i lavoratori. Di questa casta sono parte marginale i forchettoni rossi di Sel e di Rivoluzione civile: due componenti tatticamente divise ma che condividono la subordinazione strategica al centrosinistra.
Si veda il precedente articolo «La gestione politica postdemocratica della crisi economica».  


1. Dall’appello allo stato d'emergenza contro Berlusconi alle chiacchere sul colpo di Stato del professor Monti.

Quando il Presidente della repubblica Napolitano conferì l’incarico di formare il governo a Mario Monti si gridò al colpo di Stato, alla democrazia sospesa e all’avvento del «governo delle banche»; curiosamente, pasdaran berlusconiani, leghisti e sinistra hanno usato e usano toni e idee simili. Ma questi sono gridi che dal lato sinistro stridono con altri già sentiti per anni. Le banche e la Confindustria non erano forse già al governo? Marchionne non praticava già una sorta di fascismo aziendale spalleggiato dal governo? E il «blocco reazionario di massa» che fine ha fatto? È con Monti o con Berlusconi? E che ne è di quel presunto specifico «regime» berlusconiano che per essere tale doveva pur mostrare di disporre di qualche muscolo? E che nuovo genere di colpo di Stato o imposizione da parte dell’oligarchia straniera è mai questa che ha il sostegno parlamentare dei due maggiori partiti nazionali che nella logica maggioritaria dovrebbero alternarsi al governo? Cos’è, un golpe ultraparlamentare invece che antiparlamentare?

Oppure, l’ascesa di Monti è forse la realizzazione del sogno putschista di Alberto Asor Rosa? Si ricorderà che un anno fa, oltre a paventare come tanti «la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire», Asor Rosa riteneva «incongrua una prova di forza dal basso»; auspicava, invece, l’intervento del Colle, lo «stato d'emergenza», il ricorso a Carabinieri e Polizia di Stato, il congelamento delle Camere (1). Il tutto a difesa della democrazia...
Se ci si ferma al caso individuale, si potrà dire che l’invocazione putschista di Asor Rosa fosse la senile espressione di quell’autonomia del politico che negli anni Settanta legittimava il compromesso storico tra i grandi partiti popolari, il Pci e la Democrazia cristiana. Ovvero dell’operazione che neutralizzò l’espansione della democrazia di base per convogliarla in morti canali istituzionali, attuò una politica consociativa nella quale veniva meno il ruolo dell’opposizione parlamentare (e quindi del normale funzionamento del parlamento), diede inizio alla legislazione d’emergenza antigarantista (la Legge Reale, l’antiterrorismo all’insegna del fine che giustifica i mezzi), accelerò la statalizzazione dei partiti (d’opposizione, oltre che di governo), impose ai lavoratori l’austerità che d’allora non ha più avuto fine, creò le basi per l’offensiva padronale gestita in proprio (i licenziamenti Fiat del 1980); dell’operazione, insomma, durante la quale si posero le basi dell’attuale regime postdemocratico.
Tuttavia, in termini più attuali e generali può dirsi che Asor Rosa abbia dichiarato ciò che altri non hanno il coraggio di ammettere neanche a se stessi: l’assunzione dello Stato come risolutore in ultima istanza dei problemi politici fondamentali, ultimo orizzonte della politica. È questo il senso della dichiarazione di incongruità della mobilitazione del dèmos a difesa della democrazia: che poi esprime la oramai compiuta statalizzazione dei partiti e la subalternità senza vie d’uscita della sinistra post-Pci ed ex gruppettara. Qualcosa che risulta da una pluridecennale pratica di uso strumentale della mobilitazione sociale e della partecipazione politica al fine dell’integrazione di questa sinistra nel sistema dei partiti e del conseguimento di seggi nelle assemblee elettive, con i relativi benefits del finanziamento pubblico: senza seggi e senza denari questa sinistra non potrebbe partecipare allo spettacolo politico né proporsi come ponte tra piazza e Palazzo. Per questa stessa ragione la sinistra non vuole comprendere né può ammettere, perché l’ammissione equivarrebbe al suicidio politico, che nel corso dell’ultimo trentennio si è verificata una trasformazione dei sistemi politici detti liberaldemocratici, strutturale e irreversibile. Di questa trasformazione è parte integrante e determinante la mutazione della stessa sinistra.

2. I precedenti del governo di Monti.

Quello di Monti non è certo il primo «governo tecnico» italiano né il primo con un’alta percentuale di professori universitari. Anzi, sui professori in politica e al governo come figure distinte dal politico-intellettuale o dall’intellettuale impegnato (figure che possono anch’esse avere una posizione accademica ma che non sono caratterizzate dalla posizione professorale) esiste tutta una letteratura, il cui senso è che il rilievo dei professori segna il passaggio dall’intellettuale organico alla politica di partito alle policies statuali, dall’ideologia partigiana alla competenza professionale (2). L’ascesa politica del professor Romano Prodi ne fu esempio eclatante e, nel complesso, è certamente il centrosinistra che meglio può valersi del discorso e delle risorse professorali e «tecniche», cedendo al centrodestra la demagogica pretesa di rappresentare la volontà popolare e la politica: su questo piano non c’è gara tra Maria Stella Gelmini e Luigi Berlinguer o Tullio De Mauro. Facile, viceversa, il sarcasmo sull’uso politico della bellezza muliebre da parte di Berlusconi o sulle volgari intemperanze plebee di un Bossi o di un Calderoli. Uno stile (che è anche una sostanza) che giustamente turbano la coscienza del sincero cattolico e fanno fremere d’indignazione l’onesto liberale, suscitando anche imbarazzo sulla scena internazionale. Sull’altro versante è però da notare che all’ascesa della «competenza» e della «responsabilità» corrisponde un netto declino delle qualità ideali e umane del personale politico.
Per quel che poi riguarda la procedura di nomina del governo «tecnico», si può dire che autentica eccezionalità, nel senso proprio di decisione di vertice presa in condizioni eccezionali e quindi di grande momento politico rispetto alla prassi della costituzione materiale, furono gli incarichi conferiti dall’allora presidente Scalfaro (vicino al nuovo centrosinistra) ad Amato, a Ciampi e a Dini: gli anni tra il 1992 e il 1996 possono a ragione definirsi come un regime semipresidenziale di fatto, imposto dalla crisi di legittimazione prodotta da tangentopoli e dalla conseguente destrutturazione dei partiti che avevano governato l’Italia per quasi mezzo secolo, e poi dall’instabilità della maggioranza di centrosinistra. Il regime semipresidenziale si concretizzava anche negli interventi di merito del Presidente sull’azione governativa e sulla tenuta della maggioranza. Erano gli stessi anni emergenziali della crisi della lira, delle frenetiche manovre per la convergenza intorno ai parametri di Maastricht, degli accordi concertativi con i sindacati confederali: insieme alla costituzione materiale della politica cambiava l’ancor più materiale costituzione dei rapporti tra Stato ed economia.
Ciampi fu il primo presidente del consiglio non parlamentare e quello di Dini fu il primo governo costituito interamente da non-parlamentari, in gran parte neanche iscritti a un partito. In entrambi i casi la lista dei ministri venne decisa insieme al Presidente della repubblica; e sia Ciampi che Dini provenivano dal vertice della Banca d’Italia: i loro potrebbero dunque dirsi governi presieduti da banchieri delle banche (3). Ovviamente questi non erano governi tecnici, ma non perché un ex governatore o direttore della Banca d’Italia rappresenti il «governo delle banche». Nell’ascesa di questo tipo di altissimi burocrati si può vedere la preminenza cui è assurta la politica monetaria nei paesi a capitalismo avanzato e, in termini più generali, la rappresentanza del capitale nella sua totalità quale è incarnata, appunto, dalla funzione di gestione della moneta, equivalente per tutti e sopra tutti i singoli capitali: è questo che rassicura il mercato finanziario e che consente la convergenza bipartitica. 
Ciampi ottenne l’astensione del Pds e della Lega nord; il governo Dini, che per composizione, modalità di formazione e quadro dei partiti presenti in Parlamento è il più stretto precedente del governo Monti, ottenne alla Camera l’astensione del Polo della libertà e il favore della Lega nord, risultando però suo supporto più fedele il centrosinistra, come oggi pare essere con Monti (sull’appoggio a Dini si ebbe anche la scissione dal Prc degli ingraiani doc, Magri, il segretario Garavini ecc.).
Incidentalmente: con Dini e Scognamiglio, Monti fu tra coloro che vennero presi in considerazione come candidati alla guida del governo già nel gennaio 1995; e nell’aprile 2001 Monti rifiutò eventuali incarichi ministeriali sia per il centrodestra sia per il centrosinistra, preferendo la posizione di commissario europeo (bipartico).

3. Governo delle banche? Diciamo, piuttosto, che la nomina di Monti esprime il consenso bipartitico nella postdemocrazia italiana. 

La nomina di Monti a presidente del consiglio non è stata altro che l’ennesima conferma che Berlusconi, senza dubbio l’animale politico più spettacolare visto in Italia e abilissimo accaparratore di voti, non è mai stato considerato affidabile dall’establishment internazionale: non certo per motivi ideologici o morali, ma proprio per l’insoddisfacente valutazione delle competenze di governo della sua coalizione, specialmente per quel che concerne la capacità di proseguire nella linea delle cosiddette riforme strutturali riuscendo, nello stesso tempo, a neutralizzare il conflitto sociale, ridurre le tensioni sulla scena politica, ottenere un sicuro consenso da parte dei sindacati confederali. Basta aver letto per qualche anno The Economist e il Financial Times per rendersene conto.
Mentre la crisi faceva il suo corso coinvolgendo prepotentemente l’Italia, una soluzione andava trovata, evitando l’effetto d’incertezza legato alla convocazione d’elezioni anticipate: una soluzione apparentemente tecnica, appunto, ma nel senso della concretizzazione di quel consenso bipartitico esistente al di là della lotta rappresentata nel teatro politico tra le due fazioni della casta politica dell’imperialismo italiano. Per quel che conta il mio parere personale, non ho mai dubitato che il quarto governo Berlusconi non sarebbe arrivato a fine legislatura; tuttavia confesso che mi aspettavo ciò avvenisse principalmente a causa del montare della tensione sociale. 
È da apprezzare, invece, la mossa che tali tensioni mira a contenere facendo ricorso a una figura più accettabile dall’opinione pubblica, capitalisticamente pura, libera da quel conflitto d’interessi e da quei procedimenti giudiziari che da sempre affliggono l’esuberante gerontocrate e che hanno fastidiosamente interferito con la concentrazione dell’azione di governo sulle questioni che interessano il capitale nazionale e internazionale nella sua generalità.
La storia politica e intellettuale di Mario Monti ne fa l’ottima incarnazione di un consenso ampio e bipartitico, ribadito dalla fiducia ottenuta in Parlamento dai maggiori partiti, un uomo la cui esperienza di alto eurocrate è gradita anche al capitale internazionale (non solo finanziario). Monti divenne commissario europeo per il mercato interno nel 1994, su indicazione del primo governo Berlusconi; fu poi confermato commissario (per la concorrenza) dal governo D’Alema nel 1999, nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi. È da ricordare che quelli erano gli anni gloriosi della terza via di Tony Blair e Gerhard Schröder (coalizione rosso-verde tedesca nel 1998), della gauche plurielle di Lionel Jospin, che tanto piaceva a Bertinotti, di Billy Clinton e degli anni ruggenti (in verità al capolinea) del «keynesismo di borsa». In Grecia il Pasok vinceva (di nuovo) le elezioni nel 2000 e nel 2004 le vinceva in Spagna il Psoe di José Luis Zapatero, così simpaticamente cantato da Sabina Guzzanti e tanto ingloriosamente tramontato. Altro che destra trionfante!Si dirà, a riprova del fatto che si tratti di un uomo delle banche, che Mario Monti è stato consigliere per la Goldman Sachs. Ma anche Romano Prodi era stato consigliere per la Goldman Sachs e anche per la Unilever e proprio per questo fu a suo tempo indagato, e prosciolto; e, molto più importante, che dire del ruolo di Prodi nella svendita del patrimonio dell’Iri, nell’entrata di Paribas nella Comit (1989), nella privatizzazione delle banche «d’interesse nazionale» controllate dallo stesso Iri? Quello fu un ruolo veramente storico. I meriti così acquisiti da Prodi nei confronti del capitale internazionale fanno impallidire anche quelli di Monti; quanto a Berlusconi, da questo punto di vista egli è semplicemente uno zero. Furono quei meriti che valsero a Prodi la chiamata a dirigere il nuovo centrosinistra. Parrebbe, dunque, che il buon elettore di sinistra (4), incluso quello nostalgico del Pci, abbia per anni votato per qualcosa non dissimile dal governo delle banche; e che Rifondazione comunista, Pdci e Verdi abbiano per anni cercato, e ancora ricercano e non possono non farlo se vogliono imbarcarsi in Parlamento, l’alleanza con la parte politica nazionale più credibile per il capitale internazionale. Per quest’ultimo punto, in effetti, le cose stanno esattamente così.
L’idea che la nomina Monti sia una sospensione della democrazia mi pare conseguire dall’interiorizzazione della falsa e mistificante nozione che in regime liberaldemocratico possa esistere un contratto fra elettori e candidati. Idea alimentata dalla firma televisiva di Berlusconi del contratto con gli italiani, ma anche da tanta retorica centrosinistrorsa sui pregi della riforma elettorale antiproporzionale. In termini costituzionali questo contrattualismo non sta né in cielo né in terra giacché «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (art. 67 della Costituzione italiana); e non occorre essere marxisti o sovversivi per sapere che i rappresentanti eletti non rappresentano affatto i loro anonimi elettori come può essere per un avvocato in un procedimento giudiziario: questo è fatto acquisito in dottrina e in pratica da un paio di secoli a questa parte, almeno da Jean-Jacques Rousseau (ma tradizionalmente è stata la sinistra partitica ad alimentare l’illusione del carattere rappresentativo in senso forte delle istituzioni elettive). Se poi ci riferisce all’identificazione tra democrazia e partiti, allora bisognerebbe pur chiedersi se non sia il sistema dei partiti ad essere l’autentico sovrano politico che limita il potere del dèmos: e per quali interessi, politici e sociali, di casta (burocratica) e di classe (capitalistica), ciò accada.
È vero che non esiste un governo tecnico: il governo Monti ha ottenuto infatti la fiducia politica in Parlamento. La tecnicità di Monti consiste nell’incarnare il consenso ampio e bipartitico che, a sua volta, non può essere confuso con il cesarismo o bonapartismo che si rivolge contro le opposte fazioni tradizionali. Il problema sostanziale (e internazionale) dell’odierna democrazia rappresentativa è invece il fatto della statalizzazione dei partiti e della loro convergenza su un medesimo orientamento fondamentale. È questo il punto cruciale, non il presunto colpo di Stato o la democrazia «sospesa» (ma come si fa a sospendere la democrazia? Un regime parlamentare sospendibile non è più liberaldemocrazia), e precede di molto l’incarico a Monti. Inoltre, come già tra il 1992 e il 1996 (crisi della lira e della sterlina, che uscirono dal Sistema monetario europeo) e durante la lunga manovra di convergenza per far entrare l’Italia nell’eurozona, il governo italiano, che è pur sempre governo di uno dei capitalismi tra i più importanti del mondo (nonostante tutto), deve cercare di riscuotere la fiducia dei mercati. Questo è già da molto tempo nella costituzione materiale dello Stato liberaldemocratico italiano e nei suoi modi di articolazione con l’economia mondiale attraverso la partecipazione all’eurozona, formalmente definiti nei trattati internazionali. Che poi la sovranità non sia un dato assoluto è un fatto almeno dal lontano 1949, da quando l’Italia entrò a far parte della Nato e iniziò ad ospitare sul suo territorio testate nucleari o, ancor prima, dalla preventiva spartizione dell’Europa tra Stalin, Churchill e Roosevelt nelle conferenze di Teheran (1943) e Yalta (1945). Per favore, che non si caschi dalle nuvole!
La nomina del professor Monti risulta quindi in linea con una prassi già sperimentata in momenti critici; in quanto tale non può essere considerata come un improvviso e determinante vulnus alla capacità gestionale del sistema dei partiti nel suo complesso o una lesione della costituzione materiale. Il problema è a monte e la particolarità italiana va considerata non come eccezionalità nazionale, ma come espressione dell’evoluzione postdemocratica dei sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato. Che, è vero, in Italia assume forme e aspetti particolarmente demagogiche e nauseanti. Basta guardare i dati sulle astensioni per rendersi conto che esiste una crisi strisciante della rappresentatività dei partiti, che può divenire crisi di legittimità.
Che Monti riesca nell’intento di contenere la crisi della finanza pubblica italiana è altro discorso: ma la sfiducia degli operatori finanziari, quale si esprime nel divario (il famigerato spread) tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, non esprime una valutazione solo sull’Italia ma anche sul complesso della gestione europea della crisi. Il cosiddetto «mercato» vede bene che la direzione assunta dalla politica economica europea è ora prociclica invece che anticiclica, come era nell’infuriare della tempesta che investiva il sistema finanziario privato, che essa spinge verso la recessione piuttosto che verso la crescita: ciò non può che comportare la riduzione delle entrate fiscali e quindi il fallimento dell’intera manovra di risanamento dei bilanci pubblici.
Mantenendo la rotta attuale ciò avverrà indipendentemente dall’apprezzamento di singole misure intraprese dal governo italiano o greco o spagnolo o portoghese.
Così come esiste una interna contraddizione in regimi che si vogliono democratici ma che fanno del loro meglio per mantenere le distanze tra il decision making politico e le istanze del dèmos, esiste una contraddizione tra la volontà capitalistica di usare la crisi per rafforzare il proprio potere sul dèmos e le misure necessarie a tamponarla.

Note.
1) Alberto Asor Rosa, «Non c'è più tempo», Il  Manifesto, 13 aprile 2011.
2) Ma è pur vero che degli intellettuali il Pci, il Psi o i partiti postcomunisti hanno fatto un uso del tutto strumentale, circoscritto alla legittimazione della politica decisa e praticata dai politici. E dopo la stagione primo-novecentesca e lo stalinismo i dirigenti politici di sinistra non sono più stati anche intellettuali (nel senso forte di teorici): non avevano bisogno di unire teoria e pratica, ma d’essere essenzialmente dei praticoni. Nel caso italiano il divorzio fra teoria e pratica è stato coperto dalla rielaborazione di Gramsci da parte di Togliatti, che si fece forte delle ambiguità presenti in quel grande pensatore.
3) Un precedente illustrissimo è quello di Luigi Einaudi, economista liberista, liberale e antifascista, primo governatore della Banca d’Italia nel secondo dopoguerra e primo Presidente della repubblica, votato anche dal Pci. Guardando fuori d’Italia, si può ricordare che prima di divenire direttore del Fmi Strauss-Kahn cercò di farsi candidare Presidente della repubblica per il Partito socialista francese e che se non fosse stato travolto dal noto scandalo probabilmente ci avrebbe riprovato.
4) A proposito del «buon elettore di sinistra» e del centrosinistra, si veda il secondo volume della collana di Utopia rossa, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell'epoca del capitalismo assoluto, di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Massari editore, Bolsena, 2007.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com