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lunedì 31 ottobre 2016

SETTEMBRE 1939: CONQUISTA E SPARTIZIONE DELLA POLONIA FRA TERZO REICH E UNIONE SOVIETICA. ALL'ORIGINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE, di Michele Nobile

A Stalin, Mosca
La prego di accettare i miei più sinceri complimenti per il suo sessantesimo compleanno. Colgo l'occasione per farle i miei migliori auguri. Le auguro personalmente buona salute e un futuro felice per i popoli dell'amica Unione Sovietica.
(Adolf Hitler, 21 dicembre 1939)

A Stalin, Mosca
Ricordando le storiche ore al Cremlino, che hanno inaugurato la svolta decisiva nei rapporti tra i nostri due grandi popoli, così creando le basi per una duratura amicizia, vi prego di accettare le mie più vive felicitazioni per il suo compleanno.
(Joachim von Ribbentrop, ministro degli Affari esteri del Reich)

A Ribbentrop, Berlino
Grazie, Signor Ministro, per i suoi auguri. L'amicizia di sangue sigillata tra i popoli della Germania e dell'Unione Sovietica mostra tutti i segni di essere forte e duratura.
[Iosif Stalin (Pravda, 25 dicembre 1939)]

Camuffata sotto forma di trattato di non aggressione (con annesso protocollo segreto), l'alleanza di fatto fra l'Unione Sovietica di Stalin e il Terzo Reich di Hitler stipulata il 23 agosto 1939 risolse il fondamentale problema strategico della Germania: evitare la guerra su due fronti.
Il Patto d'agosto fu quindi la condizione politica e militare per l'invasione nazista della Polonia, perché ne rendeva impossibile la difesa mediante la costituzione di un forte fronte orientale contro la Wehrmacht1, e per questa stessa ragione fu anche la necessaria condizione strategica della sconfitta degli Alleati nel 1940 e dei successi politici e militari del nazismo in Europa fino al 1941. Che fra Hitler e Stalin si fosse stabilita un'alleanza di fatto è confermato dagli eventi successivi.
Nel settembre 1939 non fu solo la Wehrmacht ad aggredire la Polonia: all'attacco nazista del 1° settembre fece seguito l'invasione dell'Armata rossa da oriente, il 17 dello stesso mese. Nel secondo articolo del Protocollo segreto allegato al Patto di non aggressione era stato stabilito, fra l'altro, che «nel caso di una nuova sistemazione politico-territoriale nell'area dello Stato polacco, le sfere d'influenza della Germania e dell'Urss saranno definite all'incirca dalla linea dei fiumi Narew, Vistola e San». Inoltre, la decisione circa il «mantenimento di uno Stato polacco indipendente» venne rimandata al corso «degli ulteriori sviluppi politici»2. È quindi indubbio che ad agosto Hitler e Stalin concordarono la divisione delle sfere d'influenza in Polonia e nell'area baltica. Il Patto d'agosto venne rafforzato il 28 settembre da un Trattato di amicizia fra Germania e Urss che ridefinì le frontiere fra i due Stati nella conquistata Polonia, e accompagnato da un altro Protocollo segreto con cui le due potenze si impegnarono a scambiarsi popolazioni e prigionieri di guerra e a collaborare nella repressione della resistenza polacca; iniziarono anche i negoziati per la crescita degli scambi commerciali e la collaborazione militare, con la messa a disposizione del porto di Murmansk per le navi tedesche e della «Base nord» per i sommergibili, nella grande base navale di Zapadnaya Litsa, non lontana da Murmansk.
Tuttavia, una corretta e completa valutazione della duplice invasione e della spartizione della Polonia richiede che si risponda a diverse domande. Innanzitutto a queste: se il Protocollo allegato al Patto d'agosto definiva le sfere d'influenza, da questo scaturivano necessariamente oppure no anche l'invasione sovietica e la spartizione della Polonia? E poi: come si combinarono le prospettive di lungo periodo e l'improvvisazione tattica nelle decisioni sovietiche di invadere la Polonia, di annettere i Paesi baltici e di dichiarare guerra alla Finlandia? Quali erano e che valore avevano le giustificazioni sovietiche dell'invasione della Polonia? Corrisponde al vero che l'entrata dell'Armata rossa in Polonia aveva lo scopo di proteggere i bielorussi e gli ucraini, sui quali «incombeva il pericolo di cadere sotto il dominio tedesco», e che essa fu una «campagna di liberazione, per proteggere la vita e i beni della popolazione della parte occidentale della Bielorussia e dell'Ucraina occidentale», come sostenuto dalla pubblicistica e dalla propaganda sovietica3? È vero che senza l'intervento sovietico «l'Ucraina occidentale e la Bielorussia sarebbero diventate teste di ponte per aggredire l'Unione Sovietica»? Corrisponde al vero che «il governo polacco non era in grado di difendere il paese, abbandonò il popolo polacco al suo destino e fuggì all'estero»4? Per quale ragione e in che modo Stalin e Hitler decisero di cancellare del tutto la Polonia dalla mappa politica d'Europa, non concedendo neanche uno Stato polacco residuale? Quali erano i rapporti tra Mosca e le cancellerie degli Stati liberali in guerra con la Germania nazista? Quale significato politico e militare reale assunse la posizione di formale neutralità dell'Unione Sovietica nella guerra continentale? E quindi: qual era la situazione nel teatro di guerra al momento dell'invasione sovietica e quali furono per l'esercito polacco le conseguenze dell'attacco dell'Armata rossa? Come interagirono nel teatro polacco l'Armata rossa e la Wehrmacht? Come forze tra loro potenzialmente ostili o come alleate di fatto? E ancora: corrisponde o no a verità l'immagine della Wehrmacht tanto potente ed efficace, per armamento e per dottrina operativa, da risultare una macchina da guerra invincibile? È vero o no che con i Patti d'agosto e di settembre l'Unione Sovietica guadagnò tempo e spazio per prepararsi adeguatamente alla guerra con il Terzo Reich? A prescindere dalla valutazione politica ed etico-politica e considerando la questione in base ai criteri dell'approccio «realistico» alla politica internazionale, il calcolo strategico di Stalin nell'estate 1939 era ben fondato? Considerando i rapporti di forza, non sarebbe forse stato preferibile per l'Unione Sovietica battersi nel 1939 invece che subire l'attacco nel 1941?

domenica 30 ottobre 2016

ECOLOGISTAS ASESINADOS POR DEFENDER EL MEDIO AMBIENTE, por Hugo Blanco

Roberto
Es una alegría volver a encontrarnos. (…)
Gracias por la publicación que ofreces en Utopía Roja.
Los editoriales de Lucha Indígena los escribo yo. El mes entrante escribiré sobre los zapatistas y el paso que han dado.
Un abrazo
Hugo
(29 de Octubre)

Da questo numero Utopia Rossa inizia una collaborazione regolare con il compagno Hugo Blanco, l'antico dirigente della lotta armata contadina nella Valle de la Convención y Lares in Perù, direttore attuale della rivista Lucha Indígena. [la Redazione]

A partir de este número, Utopia Roja empeza una colaboración regular con el compañero Hugo Blanco, antiguo dirigente de la lucha armada campesina en el Valle de la Convención y Lares, actual director de la revista Lucha Indígena. [la Redacción]

Con los compañeros colombianos Manuel y Vilma, estuvimos en Celendín, tratando aspectos importantes de la lucha antiminera con los combatientes del lugar. Desde ahí conversamos internacionalmente, mediante un sistema parecido a Skype, sobre ésa y otras luchas de comunidades en el continente.
Luego en el Cusco tuvimos conversaciones importantes con algunos compañeros y compañeras. Aprendí mucho.
Posteriormente viajé a Brasil, invitado por la Asociación de Geógrafos Brasileños a un encuentro nacional en el que expuse cómo veo desde el exterior la realidad brasileña. Deforestación de la selva más grande del planeta, atacando el pulmón del mundo, convirtiéndolo en extensas plantaciones de biocombustibles: soya transgénica, palma aceitera, caña de azúcar. Esto no solo daña por la tala de la selva sino por el envenenamiento con agroquímicos, lo que afecta directamente no solo a los obreros que trabajan en ellas, sino también a indígenas y otros campesinos; inclusive la mayoría de la población urbana está contaminada.
Hay fuerte atropello a las poblaciones indígenas. Aunque la Constitución ordena que el Poder Ejecutivo debe reconocer la propiedad territorial de ellos, esto no se realiza; al contrario, los llamados “ruralistas” del parlamento agreden a los indígenas por favorecer a las empresas transnacionales. Hay asesinatos y grandes carteles de propaganda anti-indígena.
En Suecia hay un movimiento de solidaridad con la selva brasileña de boicot a Mac Donald, que depreda la selva para alimentar a Europa con hamburguesas.

venerdì 28 ottobre 2016

RUPTURA/TERCER CAMINO ANTE LA ACTUAL CRISIS, por Douglas Bravo

Douglas Bravo, en su condición de Secretario Político del PRV – RUPTURA, se suma a la lucha emprendida por el pueblo venezolano.

En este momento transcendente de la historia de Venezuela, existen suficientes razones para impulsar la HUELGA GENERAL y la CONSTITUYENTE ORIGINARIA.
El pueblo debe conducir su descontento hacia la calle, de manera permanente. Los llamados a PARO no pueden ser asumidos como simples amagos de protestas, el llamado a paro debe convertirse en una HUELGA GENERAL hasta lograr la salida de este gobierno.
La crisis planteada es entre un gobierno represivo, que nos hace perder soberanía y dignidad, con sus improvisadas políticas económicas, y sus particulares interpretaciones de la Constitución; tan sólo con el fin de pretender entronizarse en el ejercicio del poder, por una parte, y por la otra, los trabajadores, amas de casas, estudiantes, y en fin la sociedad toda, que busca desde la calle salir de esta pesadilla en que ha convertido Nicolás Maduro al país.
A Nicolás Maduro no se le debe juzgar por ser colombiano sino por la destrucción de la soberanía, por la destrucción de la economía: PDVSA está en el suelo, las refinerías de Jose y Punto Fijo producen menos del 40%, las empresas de Guayana también están destruidas. Se le debe juzgar por el daño que le ha causado al país.
A Nicolás Maduro se le debe enjuiciar por haber destruido y desarticulado a las FANB. Hoy persiguen a los oficiales patriotas, que se pronuncian en contra de la práctica del narcotráfico, en contra de la corrupción. Tenemos conocimiento de oficiales que dicen que no pueden tener como jefes a narcotraficantes. Esa es una protesta firme y una desautorización al Presidente y al Ministro de la Defensa.
Convocamos al glorioso pueblo venezolano a la calle, a mantenerse en lucha permanente, hasta tanto no se logre sacar de Miraflores a Nicolás Maduro y a las mafias que se han instalado en todas las instancias de poder, y que hoy a nombre del socialismo le han provocado al país la peor crisis conocida en toda su historia republicana.

martedì 25 ottobre 2016

¡#NI UNA MENOS, MIÉRCOLES NEGRO, MUJERES!, por Nechi Dorado

Hombres y mujeres, obreros y amas de casas, estudiantes y fabriles pararon el 19 de octubre en protesta contra la violencia a la mujer argentina. La megamanifestación en casi 70 ciudades argentinas y 58 diferentes lugares en el mundo fue una muestra de la importancia que tanto mujeres como los hombres salen juntos para decir ¡Basta Ya de violencia a la mujer!

Dando muestras de una organización impecable como respuesta a los femicidios que se vienen perpetrando en Argentina, marcharon miles de mujeres de todas las edades, este día en que hasta el cielo parecía acompañarnos cubriendo de lágrimas la ciudad de Buenos Aires, bajo la consigna #Ni una menos. Las mismas acciones se realizaron en otras ciudades del país y hasta en tierras hermanas, porque el problema que enfrentamos las mujeres no es sino amparado por el patrón de conducta establecido históricamente y que el sistema capitalista se empeña en mantener como método de dominación hacia quienes se considerarían, erróneamente, como el eslabón más débil de la cadena humana.
Concepto tan triste como repudiable. Tan ilógico como absurdo.
Cabe destacar -injusto sería no hacerlo- el acompañamiento de muchos hombres, unidos por el mismo espanto, conscientes de que deben romperse los esquemas machistas, patriarcales, que tanto daño han causado hasta el momento y que parecen muy difíciles de eliminar.
La tarde del 19 de octubre marcó un hito que ha de permanecer estampado para siempre en la memoria de los pueblos hartos de llorar hijas asesinadas por una demencia irracional.
No obstante, creo que debemos tener en cuenta y puntualizar con mucha firmeza que no todos los hombres son asesinos, ni todos someten, ni todos violan, ni todos descalifican, ni todos ofenden. Y debemos razonar que cuando de violencia de género se habla también hay “ellos” alcanzados por la misma aberración aunque no lo denuncien, aunque no lo hagan público. Existe la violencia también contra hombres que son engañados, difamados, estafados, humillados.
Hombres a los que se los pretende proveedores. Hombres a los que se les impide contacto con sus hijos, impedimento que se arrastra a abuelas y abuelos, a tíos, a primos, dejando incompleta la socialización básica de pequeños que no nacieron en una maceta. Nacieron de un hombre y de una mujer, con lazos ancestrales.

martedì 18 ottobre 2016

PREMIOS (POCO) “NOBLES”… LOS DE LA ACADEMIA ESTÁN LOCOS, por Tito Alvarado

En tiempos de mi tardía juventud asistí a un curso acerca de “La locura en la literatura”. El curso lo entregaba el Dr. Michalski y otra Dra. cuyo nombre se me escapa. Ambos estaban de acuerdo en dar el curso y en nada de cuanto aseguraron en él. El curso abrió perspectivas y dio un planeo sobre el tema. Lo de fondo, la locura, estaba en la superficie, con sus disputas ambos profes nos señalaron que la locura esta más presente en nuestras vidas de lo que pensamos.
En sentido inverso un abogado del diablo pudiera decir: ¿qué es lo normal o quién determina la normalidad?, es decir avalar la locura poniendo en duda “la normalidad”. Como tema de disertación filosófica pudiera argumentar en profundidad, pero nos alejaríamos del tema presente.
Un diccionario que se respete dirá de locura: nombre femenino. 1. Trastorno o perturbación patológicas de las facultades mentales. 2. Acción imprudente, insensata o poco razonable que realiza una persona de forma irreflexiva o temeraria. Antónimo: cordura.
Cada año los responsables de entregar el Premio Nobel nos sorprenden con su acción imprudente, insensata o poco razonable al entregar un premio, en forma temeraria, a personas por razones otras que las estipuladas en las bases del Premio. Antes debo decir que este “Premio” es una iifdt (institución ideológica fuera de tiempo). Aseguramos con todo desparpajo que somos democráticos, pero a cada paso nos damos un golpe en la nariz. En Canadá el Primer Ministro (Presidente) no es elegido en votación popular, se le rinde pleitesía a una reina que nada, absolutamente nada, hace por el país, los senadores son designados a vida. En Chile el ejército es una institución clasista, aparte de ser parasitaria, los hijos de ricos comienzan como teniente y pueden llegar a General, los hijos de pobres comienzan como sargento y llegan a suboficial, en ambos países, en los sindicatos, los sindicatos no pueden elegir a sus dirigentes en elección libre y debidamente documentada, no se aplica eso de un miembro un voto.
En Suecia y Noruega existe este engendro nada democrático que se ocupa de decidir quien recibe cada año el Premio Nobel en seis categorías. En su inmensa mayoría, a lo largo de más de cien años, ha sido entregado a gente del norte, gente del sistema. El de la Paz se le ha entregado a personajes cuya principal misión ha sido apachurrar a otros. ¿Alguien se ha sorprendido al leer en La Biblia los crímenes cometidos por Jeová, Yavé o Jeohvá? La noche anterior a llegar, el pueblo judío, a la tierra prometida, este Dios, iracundo y vengativo, ordenó matar (asesinar) a los 20 mil sobrevivientes de la larga travesía desde Egipto hasta el lugar designado para el pueblo judío. De los más de 60 mil que salieron, ninguno llego a la tierra prometido, a ella entraron sus descendientes, quienes no murieron el día anterior, murieron en el camino. Fueron cuarenta años recorriendo una tierra esquiva. Esto nos demuestra que toda adoración esta contrapuesta a la democracia, lo cual nos remite al dilema: o la democracia no es algo inherente a los humanos o simplemente esta condenada por todo el lastre de ideas de otro tiempo subsistiendo en la mente y, por lo mismo, en la realidad social.
Las personas designadas para actuar en los comités del Premio Nobel, falibles como todo mortal, nadie sabe como han llegado allí, aparecen cada cierto tiempo con sus penibles resultados. La Real Academia Sueca de Ciencias es responsable de nominar los premios de Química y Física, por el de Medicina responde el Instituto Karolinska, la Academia Sueca de la Lengua nomina el de Literatura, el Comité Nobel Noruego del Parlamento Noruego nomina el de la Paz y por el de Economía se ocupa el Banco Central de Suecia. No hay que ser muy lúcido para saber que estos comités se nominan a sí mismo, es decir la democracia aquí no se manifiesta. Las decisiones de estos Comités son inapelables. En este contexto cabe la pregunta: ¿qué intereses representan estas instituciones y por ende las decisiones de estos comités?

venerdì 14 ottobre 2016

DE MARX A MARC’S: NEOLIBERALISMO, TRIUNFO DEL CAPITAL SOBRE EL TRABAJADOR, por Marcelo Colussi

I

Desde la década de los 80 del pasado siglo viene imponiéndose en el mundo lo que se ha llamado “neoliberalismo”. Para ser más exactos, debería llamársele capitalismo brutal, salvaje, hiperexplotador. Un sistema económico-político-social que llevó el poder del capital a un grado sumo, avasallando sin miramientos los avances que la clase trabajadora pudo ir conquistando a través de décadas de luchas.
La arrogancia de ese triunfo puede haber quedado registrada en las palabras de uno de sus más connotados íconos, la primera ministra británica Margaret Thatcher: “No hay alternativa”. Ese es su grito de guerra: el neoliberalismo, el capitalismo ultra-explotador, se manifiesta triunfal cuando le dobla el brazo a los trabajadores. Ello se complementa con el otro grito de victoria, cuando se declara (Francis Fukuyama) que “la historia ha terminado” y llegamos al “fin de las ideologías”.
Más ideológica no puede ser la expresión. En realidad, no se trata de una constatación de la realidad sino que es la más visceral manifestación de júbilo ante el triunfo en esta despiadada lucha de clase: “¡Ganamos! (nosotros, la clase dominante), y ahora ustedes, los trabajadores, no tienen más alternativa: o capitalismo ¡o capitalismo!”
La alegría del triunfo ensoberbeció a los ganadores, los llenó de gozo, los emborrachó de poder. El odio de clase (visceral, absoluto) les salió por los poros. La caída del campo socialista (derrumbe de la Unión Soviética y reformas capitalistas en la China comunista), más el triunfo de las políticas privatistas que marcan del mundo desde hace algunos años, hizo sentir a la clase dominante global como blindada ante su oponente histórico: la clase trabajadora (en cualquier de sus expresiones: proletariado industrial urbano, obreros agrícolas, campesinos pobres, sub-ocupados, “pobrerío” en general).
Tanto los animó en su triunfo, que la derecha pudo permitirse decretar la muerte del marxismo, por (supuestamente) obsoleto, desfasado, “pasado de moda”. Pero, como dice el pensador argentino Néstor Kohan: “Curioso cadáver el del marxismo, que necesita ser enterrado periódicamente”. Si tan muerto estuviera, no habría necesidad de andar matándolo continuamente. Sin dudas, parafraseando a Hegel, el Amo tiembla aterrorizado delante del Esclavo porque sabe que, inexorablemente, tiene sus días contados.
Dicho de otro modo: en estos momentos las fuerzas del capital detentan un triunfo inapelable. Pero ese triunfo no es eterno: la historia continúa (¿quién dijo la tamaña estupidez de que había terminado?). Y la clase dominante (hoy habría que decirlo a nivel global: los capitales globales que manejan el planeta, allende las fronteras nacionales, yendo mucho más allá de los gobiernos puntuales, incluida la Casa Blanca) sabe que no puede dar ni un milímetro de ventaja a la clase explotada, por eso sigue minuto a minuto, segundo a segundo, manteniendo los mecanismos de sujeción. ¿Para qué, si no, las fuerzas armadas y los cuerpos de seguridad que viven modernizándose? ¿Para qué, si no, toda la parafernalia mediático-cultural que nos mantiene maniatados? (léase industria del entretenimiento, televisión, Hollywood, toneladas y toneladas de deporte profesional, nuevas iglesias fundamentalistas, distractores varios como concursos de belleza o cuanta banalidad superficial nos inunda).

giovedì 13 ottobre 2016

LIBRO SU TINA MODOTTI di Pino Bertelli

DOPO ALCUNI ANNI DI ASSENZA, DAL 13 OTTOBRE TORNA IN LIBRERIA, IN NUOVA EDIZIONE ECONOMICA ILLUSTRATA, RIVISTA E CORRETTA, UN PICCOLO CLASSICO DELLA CONTROCULTURA, UN FONDAMENTALE DEL CATALOGO NdA PRESS (PREZZO DI COPERTINA 10,00 €; ISBN 9788889035962; ACQUISTABILE QUI).

mercoledì 12 ottobre 2016

12 DE OCTUBRE: DÍA DE LA RESISTENCIA INDÍGENA, por Nechi Dorado

Ellos, dijo Hatuey a los pacíficos pobladores taínos de Cuba, son crueles y ambiciosos. Su Dios es el oro. Nos dicen, estos tiranos, que adoran a un Dios de paz e igualdad, pero usurpan nuestras tierras y nos hacen sus esclavos. Ellos nos hablan de un alma inmortal y de sus recompensas y castigos eternos, pero roban nuestras pertenencias, seducen a nuestras mujeres, violan a nuestras hijas. Incapaces de igualarnos en valor, estos cobardes se cubren con hierro que nuestras armas no pueden romper.

Hatuey, el primer rebelde de América
Aproximadamente 50 siglos antes de la era cristiana América estaba habitada por tribus indígenas. Para desarrollarse contaban con el aporte desinteresado de la naturaleza tan pródiga como lo ha sido en todo el territorio americano. En esa época si bien no estaban en apogeo las teorías delirantes de los pregoneros del PRIMER MUNDO, ya comenzaba a vislumbrarse el rumbo para que éstos irrumpieran en escena. Alta cuota de sangre estaba a punto de ser derramada, sangre que las diferentes vertientes de la historia que con los años se escribiría no pudieron pisotear, porque sigue allí, fresca e imborrable en cada cicatriz perpetuada sobre nuestra PACHA MAMA.
Así fue como colocaron a nuestros indígenas en el lugar común del “material descartable”, convirtiéndolos en víctimas de fines absolutamente espurios. Fértiles valles, amplias sabanas, campos que daban frutos con tanta grandeza, despertaron las codicias de los conquistadores que creyeron encontrar el paraíso terrenal y que no llegaron precisamente de paseo. Los Reyes de España sabían de las inmensas riquezas que ofrecían las tierras de nuestro continente aún no descubierto, por ellos al menos, en toda su extensión. El reflejo del oro americano encandilaba la razón de los monarcas que se abocaron a la tarea del saqueo para engrosar sus arcas malditas.
La Reina Isabel, madrina de la Santa Inquisición, asesina y nada tonta por otra parte, fue quien apostó a la “empresa” que le proponía Colón, seguramente mientras hacía sus cálculos pensando en la factura que habría de pasar por la “confianza” dispensada. El tema no era salir del Puerto de Palos porque sí nomás, eran muchos los intereses materiales, era mucho lo que habría de lograrse a cualquier precio, así fue como doña Isabel con el correr del tiempo y de las naves, terminó siendo dueña del Nuevo Mundo. Utilizó el nombre de la Fe y la Evangelización en el tétrico proyecto que habría de causar el exterminio despiadado de nuestros nativos, que cayeron en el martirologio previamente salpicados con agua bendita sus mansos cuerpos, mientras su sangre regaba la tierra tan suya como el dolor.
El opresor omnipotente ante la absurda correlación de fuerzas, lleno de orgullo y soberbia, tal vez miraba al cielo haciendo guiños a Dios por los nuevos adeptos. Así se expandió la fe, haciendo añicos la cultura ancestral de nuestros indios. Así se cometió el genocidio. Así comienza la historia que aún hoy sigue en carrera.
Se inició de esta manera el mercantilismo capitalista que llegó para quedarse hasta lograr etapas de superación inimaginables para luego ir cometiendo otros genocidios. Nuestra América recibió la primera visita del GRAN CAPITAL, ensordecida por el rugido atronador de los cañones disparados por esos seres que “parecían inmensos” a los ojos puros de nuestra gente. Opresores que llegaban para quedarse arrasando lo que encontraran a su paso y dañando toda expresión de vida.

lunedì 10 ottobre 2016

NIÑEZ DESAPARECIDA EN LA GUERRA: UNA AFRENTA A LA SALUD MENTAL (en el Día Mundial de la Salud Mental), por Marcelo Colussi

Entrevista a Marco Antonio Garavito, de la Liga Guatemalteca de Higiene Mental, con motivo de la inauguración de la Exposición fotográfica “Niñez desaparecida por el conflicto armado interno en Guatemala”

La Salud Mental, a partir de ancestrales prejuicios que nos siguen dominando, es asociada a una visión psiquiátrica, siempre de la mano de la mal definida y atemorizante “locura”. Pero es hora de romper esos mitos, esos tabúes estigmatizantes. La Salud Mental debemos entenderla como la capacidad de movernos productivamente en nuestro medio, encontrando los espacios de goce en el mismo, sin dañar a terceros ni a nosotros mismos. Ello abre interminables debates, que no intentaremos desarrollar aquí, pero que no podemos menos que decir que constituyen una agenda pendiente: la idea de “loco”, “manicomio”, “peligrosidad” y “exclusión” rondan todo esto. En el Día Mundial que la celebra (el 10 de octubre) parece oportuno presentar una visión alternativa: la Salud Mental no tiene que ver con la falta de delirio o alucinación ni con principios moralistas normativizantes, sino con construcciones histórico-sociales, por tanto: cambiantes. Ella está en la comunidad: romper el silencio, hablar de los problemas y buscar soluciones colectivamente consensuadas es un camino para planteárnosla, alejándonos de la estigmatización del “enfermo mental”, del “loco”.
Las recientes guerras internas que vivió buena parte de Latinoamérica (expresión de la nunca desaparecida lucha de clases, aunque de ella hoy día no se hable) tuvieron como una arista de capital importancia el ataque psicológico a las poblaciones. La desaparición forzada de personas fue un mecanismo del horror que las definió en muy buena medida. Reparar las heridas que ello trajo aparejado es una fenomenal tarea que abona a la Salud Mental.
Guatemala, lamentablemente, tiene el mayor porcentaje de desapariciones forzadas en toda Latinoamérica (casi el 50% del total: 45,000 personas); muchas de ellas estuvieron dadas por niñas y niños, que corrieron suertes diversas: fueron dados en adopción, vendidos, llevados al extranjero, etc. Años después de producidos esos hechos, algunas organizaciones no gubernamentales se dieron al trabajo de fomentar los reencuentros entre esa niñez desaparecida y sus familias de origen. Ello, sin dudas, constituye un enorme elemento en favor de la Salud Mental.
La Liga Guatemalteca de Higiene Mental es una de estas organizaciones. De hecho, tiene un programa específico, llamado “Todos por el reencuentro”, que a la fecha ha producido ya 437 reencuentros. Para adentrarnos más en el tema y ver cómo esas acciones son parte fundamental de una estrategia de Salud Mental, le damos la palabra a su director, el Psicólogo Marco Antonio Garavito.
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Pregunta: ¿Por qué la búsqueda de la niñez desaparecida en el conflicto armado interno puede ser parte de una estrategia de Salud Mental?

Marco Garavito: Desde que la institución nació, hace ya 64 años, su tema central fue siempre la Salud Mental. El tema que aquí nos ocupa, la desaparición forzada de personas, y para el caso: niñas y niños, es algo que toca directamente el campo de la Salud Mental, de la subjetividad, del dolor psicológico que ese hecho provoca. Como institución entramos al tema no solo porque esto tenga un lado político ni porque seamos específicamente una organización de derechos humanos -aunque todo eso está implícito- sino porque es algo que tiene que ver directamente con la Salud Mental. Nos interesa el tema porque entendemos que aquí hay una gran posibilidad para trabajar incidiendo en la reparación psicosocial de muchas familias que han perdido a sus hijos. La posibilidad de estos reencuentros, tanto para las familias como para los niños y niñas desaparecidos en su momento, ahora ya adultos, es una interesante vía de reparación psicológica para población que ha sufrido mucho durante años. Desde que comenzamos a trabajar en este campo sabíamos que no todas las familias iban a reencontrar a sus niños perdidos, pero el hecho de iniciar esas búsquedas constituye un poderoso mecanismo de reparación, que contribuye a su Salud Mental.
En la forma en que planteamos todo el proceso, entendemos que hacemos un aporte al campo de la Salud Mental, porque no se trata solo de denunciar el hecho de la desaparición -cosa que, por supuesto, también hemos hecho-. Lo importante a remarcar aquí, desde la Psicología, es que hemos desarrollado un modelo integral de intervención. Y eso es lo que queremos evidenciar ahora a través de esta exposición fotográfica, próxima a inaugurarse: “Niñez desaparecida por el conflicto armado interno en Guatemala”.
A través de todas nuestras intervenciones hemos podido ver que lo que más daña la Salud Mental de las familias donde se produjeron las desapariciones de niñas y niños es el silencio que han mantenido por años. Ese era el efecto buscado con la estrategia: a través de la desaparición se anula psicosocialmente a una persona, a una familia, o a toda una comunidad. La angustia por el desaparecido neutraliza, quita el control de la propia vida. Los familiares del desaparecido se anulan, se aíslan, son estigmatizados. Por eso, a través de las búsquedas, y eventualmente a través de los reencuentros que se puedan dar, la población dañada encuentra una forma de reparación. En otros términos: recupera el control de su vida. Y eso es una importantísima contribución a su Salud Mental. Por eso nuestro trabajo busca darles protagonismo a las familias, a los sujetos, para que sean activos, recuperando así su salud psicológica dañada. Después de la búsqueda emprendida, cada familia verá si enjuicia, denuncia, qué hace con esa recuperación de su protagonismo activo. Con todo nuestro modelo de intervención buscamos que el sufrimiento de cada quien deje de ser un dolor individual, en soledad; de ahí que se promueve socializar eso en asambleas, en grupos con otros familiares, socializando el proceso que llevan, apareciendo su caso en una radio comunitaria. Ese proceso de hacer público y compartir el sufrimiento vemos que es un gran mecanismo reparador.

venerdì 7 ottobre 2016

JULIETA (Pedro Almodóvar, 2016), di Pino Bertelli

All'inizio della sua ascesa, negli anni ottanta del novecento, Almodóvar aveva espresso una novità rilevante. La fine della dittatura franchista, e del suo cattolico perbenismo censorio, portò alla luce - come accadde in modi non dissimili nella Russia post-sovietica - tutto il represso, il "basso", in un'esplosione incontrollabile di vitalità e di volgarità. In questo senso Almodóvar è anche l'antesignano della volgarità contemporanea, più triste di quella di allora perché consolidata come costante e sempre più comune, dilagata, conformista, noiosa, basata sulla tristezza di esibizionismi sempre più miserabili. A zero rivolta e a zero liberazione. Ma il film di Almodóvar non sconta solo questo cambio d'epoca (anche se la cultura di cui era portatore ha vinto), sconta l'appannarsi della sua invenzione, una sorta di senilità pesante che dimostra anche l'esilità del suo talento.
(Goffredo Fofi)

La macchina/cinema è come la politica istituzionale… fomenta seducenti dietromondi per consolidare il potere in carica… sforna prodotti filmici allo stesso modo delle merci, eternamente ripetute, che vengono percepite come necessità… ciò che appare non è necessariamente vero né buono, ecco perché il filosofo del martello (Nietzsche) diceva che l'apparenza contiene molte tentazioni, e perciò è bene evitarla. Non si tratta di disvelare le banalità del cinema soltanto, bensì di distruggerlo, con quello che ne consegue. Il baraccone dei bordelli col tappeto rosso crollerà da sé, quando la percezione degli spettatori si aprirà all'arte di gioire e diserterà la macchina per fare angeli e demoni… il regno del cinema è il regno del mercato, l'arte non c'entra nulla, c'entrano le banche, le politiche, le guerre e la domesticazione sociale.
Naturalmente, nella storia del cinema ci sono stati (e ci sono) poeti del disinganno che hanno rotto i dizionari del lieto fine, dell'arrivano i nostri, del solo rosso buono è quello morto, di Topolino in camicia nera, dei migranti del Mediterraneo salvati dalle forze dell'ordine, delle guerre giuste e umanitarie e così via… è grazie alle loro opere che il terrorismo come una delle belle arti è stato sdoganato nei prossimamente su questi schermi/video… i governi forti sostengono la macchina delle illusioni e foraggiano le criminalità della politica… il neoliberismo è l'avanspettacolo dove tutti sguazzano nella merda, s'intende colorata e profumata, che alza l'indice dei profitti delle banche e impoverisce interi popoli. E il cinema che c'entra? Nulla! Come Avatar, Titanic, Star Wars. Il risveglio della forza, The Avengers, Harry Potter e i doni della morte - parte 2… con la musica sublime di Mozart!, il cinema etico di Dreyer o il cinema anarchico di Buñuel (e la rivoluzione dell'intelligenza che l'accompagna). Va detto. Il grande spettacolo/evento in videovisione mondiale delle torri gemelle cadute giù come fette di torta alla crema non ha avuto eguali spettatori… nemmeno le immagini dei campi di sterminio nazisti o quelle della bomba atomica hanno suscitato tanto clamore nelle coscienze dei consumatori… i cattivi sono certi! quelli che li hanno armati, meno! I terrorismi continuano, le guerre anche! Il mercato delle armi è fiorente! i morti ammazzati sono considerati nell'ordine del discorso dominante! Il genocidio può andare avanti! Solo il potere del mercato regna, il resto è trucco.
Il cinema, quando muore di cinema, inventa l'amore… non l'amour fou di Jean Vigo (L'Atalante), ma quello patinato di Julieta confezionato da Pedro Almodóvar… simpatico regista che alterna schifezze memorabili a cosette in odore di trasgressione, ma non tanto da evitare il consenso del botteghino. I geni riconosciuti sono sempre un po' ridicoli… passano dal talento agli affari in modo spregiudicato e sono bravi nell'uno come negli altri (Picasso è un precursore nel mercanteggio dell'arte)… le loro opere sono depositate nei caveau delle banche e le copie duplicate per i centri commerciali ad uso dei poveri di spirito. Il furore bacchico dell'arte è da un'altra parte.

martedì 4 ottobre 2016

ANDAMOS EN EL MUNDO DE LAS APARIENCIAS, por Enrique Contreras (Ruptura/Utopía Tercer Camino)

Fabricio Ojeda en la guerrilla
En una oportunidad Nicolás Maquiavelo escribió lo siguiente: “En general, los hombres juzgan más por los ojos que por la inteligencia, pues todos pueden ver, pero pocos comprenden lo que ven”.
En éste sentido, la llamada modernidad en tiempos de globalización le ha dado una vigencia plena a lo dicho por Maquiavelo y creo que allí está la clave de la realidad latinoamericana y particularmente la de Venezuela.
Es el mundo de las sensaciones, de las emociones, de las apariencias, de la mentira hecha “realidad”, del engaño llamado políticamente demagogia y sobre todo de la ciencia y la tecnología, que coloca todo éste escenario en el mundo de las formas, de los espejismos, donde la percepción y la comprensión no tiene cabida en la inteligencia humana, porque cuando se elabora el mensaje o el discurso para dominar, domesticar, someter y dirigir, se construye de una manera que evita realmente en el común de la gente su descodificación.
Para tales fines, es la publicidad la que se encarga de generar todo ese espectáculo político, económico y social que no pasa del mundo sensorial y es allí donde la ingenuidad, la desinformación, la enajenación y en términos mucho más duros el analfabetismo funcional, hace de las masas objetos a ser utilizados como tontos útiles, en el marco de un sistema que utiliza esa ciencia y esa tecnología para mantener sus intereses en unas relaciones de poder, donde los de arriba mandan y los de abajo obedecen y es bueno observar que dicha relación de poder no cambia ni en el llamado capitalismo ni en el propio socialismo, pues los mismos se diferencian de forma pero sus coincidencias en cuanto a mantener y defender el poder se asemejan en todas sus dimensiones, utilizando la institucionalidad del llamado ESTADO para tales fines.
Desde la colonia hasta nuestros días se ha repetido esta verdad histórica -claro está- con sus diferencias de forma pero no de fondo y en tiempos de globalización esta situación empeora, por múltiples razones en todos los órdenes.

FABRICIO OJEDA

En ese mundo de las apariencias al cual nos referimos, hay quienes piensan en la actualidad que la crisis que vive el país es producto del mal gobierno, pues es el chavismo representado en Maduro el que ha conducido a Venezuela a que su gente viva en medio de serias dificultades y donde la población sufre las consecuencias del mismo, es por eso que las elecciones van a permitir -según la oposición- cambiar a Maduro por Leopoldo o Enrique Capriles o Ramos Allup, situación que mejoraría el escenario de miseria que la mayoría de los venezolanos vivimos y se olvida que éste mismo argumento condujo a Chávez para tomar el poder en las primeras de cambio producto de otra crisis que ocasionaron AD y COPEI y cuyas características presentadas desde el punto de vista económico eran parecidas a las actuales, con algunas variables propias del desarrollo del capitalismo.