All'inizio della sua ascesa, negli anni ottanta del novecento, Almodóvar aveva espresso una novità rilevante. La fine della dittatura franchista, e del suo cattolico perbenismo censorio, portò alla luce - come accadde in modi non dissimili nella Russia post-sovietica - tutto il represso, il "basso", in un'esplosione incontrollabile di vitalità e di volgarità. In questo senso Almodóvar è anche l'antesignano della volgarità contemporanea, più triste di quella di allora perché consolidata come costante e sempre più comune, dilagata, conformista, noiosa, basata sulla tristezza di esibizionismi sempre più miserabili. A zero rivolta e a zero liberazione. Ma il film di Almodóvar non sconta solo questo cambio d'epoca (anche se la cultura di cui era portatore ha vinto), sconta l'appannarsi della sua invenzione, una sorta di senilità pesante che dimostra anche l'esilità del suo talento.
(Goffredo Fofi)
(Goffredo Fofi)
La macchina/cinema è come la politica istituzionale… fomenta seducenti dietromondi per consolidare il potere in carica… sforna prodotti filmici allo stesso modo delle merci, eternamente ripetute, che vengono percepite come necessità… ciò che appare non è necessariamente vero né buono, ecco perché il filosofo del martello (Nietzsche) diceva che l'apparenza contiene molte tentazioni, e perciò è bene evitarla. Non si tratta di disvelare le banalità del cinema soltanto, bensì di distruggerlo, con quello che ne consegue. Il baraccone dei bordelli col tappeto rosso crollerà da sé, quando la percezione degli spettatori si aprirà all'arte di gioire e diserterà la macchina per fare angeli e demoni… il regno del cinema è il regno del mercato, l'arte non c'entra nulla, c'entrano le banche, le politiche, le guerre e la domesticazione sociale.
Naturalmente, nella storia del cinema ci sono stati (e ci sono) poeti del disinganno che hanno rotto i dizionari del lieto fine, dell'arrivano i nostri, del solo rosso buono è quello morto, di Topolino in camicia nera, dei migranti del Mediterraneo salvati dalle forze dell'ordine, delle guerre giuste e umanitarie e così via… è grazie alle loro opere che il terrorismo come una delle belle arti è stato sdoganato nei prossimamente su questi schermi/video… i governi forti sostengono la macchina delle illusioni e foraggiano le criminalità della politica… il neoliberismo è l'avanspettacolo dove tutti sguazzano nella merda, s'intende colorata e profumata, che alza l'indice dei profitti delle banche e impoverisce interi popoli. E il cinema che c'entra? Nulla! Come Avatar, Titanic, Star Wars. Il risveglio della forza, The Avengers, Harry Potter e i doni della morte - parte 2… con la musica sublime di Mozart!, il cinema etico di Dreyer o il cinema anarchico di Buñuel (e la rivoluzione dell'intelligenza che l'accompagna). Va detto. Il grande spettacolo/evento in videovisione mondiale delle torri gemelle cadute giù come fette di torta alla crema non ha avuto eguali spettatori… nemmeno le immagini dei campi di sterminio nazisti o quelle della bomba atomica hanno suscitato tanto clamore nelle coscienze dei consumatori… i cattivi sono certi! quelli che li hanno armati, meno! I terrorismi continuano, le guerre anche! Il mercato delle armi è fiorente! i morti ammazzati sono considerati nell'ordine del discorso dominante! Il genocidio può andare avanti! Solo il potere del mercato regna, il resto è trucco.
Il cinema, quando muore di cinema, inventa l'amore… non l'amour fou di Jean Vigo (L'Atalante), ma quello patinato di Julieta confezionato da Pedro Almodóvar… simpatico regista che alterna schifezze memorabili a cosette in odore di trasgressione, ma non tanto da evitare il consenso del botteghino. I geni riconosciuti sono sempre un po' ridicoli… passano dal talento agli affari in modo spregiudicato e sono bravi nell'uno come negli altri (Picasso è un precursore nel mercanteggio dell'arte)… le loro opere sono depositate nei caveau delle banche e le copie duplicate per i centri commerciali ad uso dei poveri di spirito. Il furore bacchico dell'arte è da un'altra parte.
La trama di Julieta come la descrive Wikipedia: «Julieta sta per partire per il Portogallo con Lorenzo, il suo attuale compagno, quando incontra per strada Beatriz, una vecchia amica di sua figlia Antía, della quale non ha notizie da quando quest'ultima ha compiuto 18 anni. Beatriz non è al corrente di questo allontanamento e le racconta di un loro recente incontro, dicendole che nel frattempo Antía è diventata madre. Avere dopo tanto tempo notizie della figlia perduta fa ripiombare Julieta in una depressione che aveva appena iniziato a superare. Annulla la partenza, abbandona Lorenzo e inizia a scrivere su un quaderno tutto ciò che non è mai riuscita a raccontare ad Antía.
Attraverso i suoi ricordi, che man mano prendono forma, la protagonista inizia a descrivere l'incontro casuale con il pescatore Xoan, del quale si innamora, ricostruendo tutti gli eventi legati alla nascita e alla crescita della propria figlia. La tragica morte di Xoan, padre di Antía, segnerà drammaticamente la vita delle due donne». Bello, secco, austero. Un Almodóvar in stato di grazia, sembra. Vero niente.
Il soggetto di Julieta è l'intreccio di tre racconti di Alice Munro - maestra del racconto breve contemporaneo (Premio Nobel 2013): Fatalità, Fra poco e Silenzio; la fonte è autorevole, tuttavia la Munro non sembra iscriversi tra gli scrittori viscerali, scomodi o ereticali del nostro tempo. Almodóvar si barcamena tra il melodramma e la tragedia… il destino gioca le sue carte ma «vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L'esistenza è altrove», André Breton diceva. L'esteta corre sempre dietro alla sua ombra.
Emma Suárez è Julieta-madre, Adriana Ugarte, Julieta-giovane. Il viso invecchiato della Suárez dà a Julieta una visione della depressione fin troppo intima, un po' teatrale, opposta alla giovane impetuosa che non vede da molti anni. L'incontro casuale con Beatriz (Michelle Jenner), un'amica di sua figlia Antía adolescente (Bianca Parés), poco surreale e molto naturalistico, la fa cadere in una solitudine profonda e inizia a scrivere su un quaderno tutta la sua vita (che non ha mai raccontato alla figlia). Julieta rinuncia a partire per il Portogallo e lascia il compagno, Lorenzo (Dario Grandinetti)… che staziona nel film come fosse in un altro film, magari un thriller di Dario Argento che di bello ha solo the end.
Nel diario intimo Julieta descrive l'incontro d'amore con il pescatore Xoan (Daniel Grao), la nascita e la crescita di Antía e la morte di Xoan nel Mediterraneo, che segnerà fortemente la vita delle due donne (Antía imputa la morte del padre alle inadeguatezze della madre). Julieta viene a sapere che Antía ha tre bambini e vive nei pressi del lago di Como… nel quaderno ricorda i rapporti difficili con la propria famiglia (la madre malata, il padre che si lega a una collaboratrice marocchina), Antía che scompare senza dare nessuna spiegazione… anche lei come la madre non troverà scampo che nel dolore di vivere di due perfette sconosciute.
La fotografia di Jean-Claude Larrier è la cosa migliore del film, i rossi, i verdi, i blu accendono la curiosità figurativa e accarezzati dalla musica di Alberto Iglesias corredano l'interpretazione apostolica abituale delle donne di Almodóvar in un santuario degli amori perduti… il montaggio di José Salcedo è limitato alle giunte delle molte inquadrature fisse del regista e appesantisce non poco la lettura del film. Gli attori si muovono nelle pieghe dell'ordinario tra lo scontato e il superficiale… ciò che scorre sullo schermo non è un "delicato equilibro" né una "sonata per donne sole" in forma di cinema, ma una sorta di eclissi del dolore che si rovescia nell'autunno delle lacrime finte. Il consenso non poteva mancare.
Almodóvar cerca di commuovere e sommuovere le coscienze di un pubblico avvezzo alla salvezza di tutti i peccati, senza avere l'autorialità creativa/eversiva di Rainer Werner Fassbinder, Ingmar Bergman o Douglas Sirk… e molto del suo cinema si colloca nel miracolismo salvifico alla Steven Spielberg… non è estraneo nemmeno alle lacrime proletarie catto-comuniste di Raffaello Matarazzo nella trilogia Catene (1949), Tormento (1950) e I figli di nessuno (1951)… poiché l'utopia deve realizzarsi nella strada e non al cinema, al crepuscolo degli idoli preferiamo i dannati della terra che insorgono per veder riconosciuti i propri diritti o i propri sogni.
Il cinema dell'apparenza di Almodóvar, senza troppo darla a vedere, si accosta con un certo fatalismo all'odore dei poveri… il pubblico piange davanti al buon profumo del Cristo protettore senza un filo di vergogna e dà ragione alla sua edificazione trascolorata della vita quotidiana. Il diavolo fornisce il pretesto per godimenti (o cadute) concreti, dio è solo un impostore da quattro soldi e sembra aleggiare impudico tra le guardarobiere di un'operetta d'altri tempi… i "maestri" hanno bisogno di riconoscimenti economici per elevarsi dalla mediocrità. Il destino è nelle nostre mani, ciò che è realmente vissuto deve essere in qualche modo anche vero, niente è sacro, tutto si può abbattere.
I film-rappresentazione di Almodóvar sembrano perseguire la verità-intima, nella realtà ciò che scivola sullo schermo è l'illusione della realtà o il suo marcitoio… al cinema, come nella vita, la creazione dionisiaca del reale spaventa e per meglio scongiurare le paure gli uomini si sono inventati dio, le ideologie, i miti, i bisogni e la civiltà dello spettacolo… Almodóvar, sin dalle origini, ha intercalato i moti del desiderio con le leggi e i codici che lo negano… la follia, la diversità, l'ebbrezza, la sregolatezza che ha dispensato in tutti i suoi film eseguono una partitura melodrammatica dove la trasgressione è sempre più ordinata e in conformità con le morali vigenti. In fondo in fondo i suoi film non sono che dei musical gravidi di un cattivo edonismo, buono per tutte le stagioni del consenso.
Le passioni c'entrano poco nelle storie di Almodóvar e a ben vedere nemmeno le donne sono così ben trattate quanto scrivono i velinari della critica servile… gli artisti non rivestono le idee se non con gli abiti che gli appartengono e anche le tematiche omosessuali che circolano nei suoi film restano ben chiuse all'interno della buona educazione… tutti i personaggi di Almodóvar sono espansivi, compassionevoli, buoni, liberi, nobili… anche i più poveri sono investiti di dignità inconsapevole… i cattivi e i morti sono avulsi dalla pelle del reale e l'ordine o la solitudine sono sempre al fondo della gerarchizzazione dei piaceri.
L'estetizzazione della politica e la politicizzazione dell'arte convergono nella civiltà dello spettacolo che, come sappiamo, è «il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (Guy Debord). I nuovi fascismi riformulati nelle democrazie consumeriste e nei regimi totalitari si presentano come un'immensa accumulazione di spettacoli… tutto ciò che un tempo era stato direttamente vissuto è crollato in una rappresentazione, diceva. La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalista si presenta come un'enorme produzione di merci e ogni merce si presenta come forma elementare e giogo dei dominatori sugli assoggettati.
Il cinema è il magazzino della felicità o lo specchio/vela nel quale andare al di là del principio di piacere e del principio di realtà… dare libero sfogo al fuoco delle passioni minoritarie, voluttuose, ereticali che permetteranno di spazzare via i gusti imposti e fare della dismisura, dell'imperfetto, dell'iconoclastico il colpo di spugna di ogni forma di autoritarismo: è al fuoco dell'utopia che bisogna scaldarsi, non bruciare! «Quando insegnate qualcosa a un bambino, gli impedite di scoprirla da solo» (Jean Piaget). Il cinema ha interpretato tutte le sciagure degli uomini fin dalla sua nascita (1895, si fa per dire), si tratta ora di cambiare il cinema e il mondo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte settembre 2016
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